––– scrittore e giornalista, opinionista, storicista, meridionalista, culturalmente unitarista ––– "Baciata da Dio, stuprata dall'uomo. È Napoli, sulla cui vita indago per parlare del mondo."
Angelo Forgione – Quando lo scorso maggio fu pubblicato il libro di Domenico De Masi Tag, qualche piccola anticipazione sul capitolo dedicato a Napoli mi era già ben nota, perché esternata nelle emittenti televisive in cui il sociologo molisano si era già espresso in modo netto nei confronti della creatività napoletana: «Mentre tutto il mondo ha inventato i microprocessori negli ultimi duecento anni, i napoletani solo la pizza». Ne venne fuori un dibattito a distanza, in più round, tra De Masi e chi scrive (ospitato dalle pagine del Corriere del Mezzogiorno), alimentato dall’attacco che l’accademico rivolse ai pizzaiuoli napoletani, rei, a suoi dire, di non aver mai brevettato e industrializzato la pizza, ovvero una specialità che può dirsi napoletana solo se artigianale e preparata secondo un preciso disciplinare.
Ci ritorno su a distanza di qualche mese, stavolta con un videoclip per dimostrare quanto sia falso il giudizio di De Masi e quanto Napoli sia, nonostante tutti gli ostacoli che incontra, città di creazione e sperimentazione in diversi campi, stavolta stimolato da un ulteriore giudizio sulla pizza napoletana vieppiù feroce pronunciato qualche tempo fa dal sociologo a La Zanzara (Radio 24), programma peraltro contraddistinto da una chiara e profonda avversione alla napoletanità in cui è spesso ospite: «La pizza è una delle boiate più grosse prodotte da Napoli, un qualcosa di interclassista che mette insieme degli avvinazzati attorno alla birra».
Angelo Forgione– Giuseppe Abbagnale, mito vivente del canottaggio italiano e presidente della Federazione, ha messo il figlio Vincenzo, campione del mondo e capovoga dell’otto in vista di Rio 2016, di fronte alle sue responsabilità. Il ragazzo ha saltato tre controlli antidoping per casualità fortuite, ed è andato sotto la scure della squalifica olimpica. Il primo controllo è saltato per una dimenticanza; il secondo perché il nuovo sistema gestionale, la cosiddetta piattaforma Adams, non gli ha confermato la segnalazione del luogo dove si trovava; il terzo per un contrattempo: un piccolo incidente stradale sulla Pontina che ne ha ritardato di 15 minuti l’arrivo a Sabaudia, luogo del test predisposto 75 minuti prima. Vincenzo Abbagnale è stato definito “un immaturo” dal padre, che ha preferito rendere la notizia pubblica di persona, senza attendere l’eventuale e probabile squalifica. «È giusto così, non è pronto per un evento del genere. Per trasparenza vogliamo essere noi a dare l’annuncio. Voglio però che non nascano illazioni. Se avessi il minimo dubbio che Vincenzo non è a posto, non lo farei sanzionare solo sul piano sportivo ma lo manderei in galera oggi stesso», ha detto il genitore-presidente, persona di alto spessore morale e di altissimi valori dello sport quali onestà, serietà e rispetto delle regole. C’era in ballo non solo il nome della FIC ma anche quello della famiglia Abbagnale, vanto e gloria dello sport italiano. E c’era in ballo anche il buon nome dello sport olimpionico napoletano, mai sfiorato da squalifiche per doping e offeso gratuitamente da Alex Schwazer qualche giorno prima di essere sorpreso da un test della Wada, l’agenzia mondiale antidoping, con cui fu rivelata la positività all’assunzione dell’Epo. Tutti ricordano la email che scisse al suo medico: «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito… ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Magari è Vincenzino Abbagnale a non aver fatto nulla di proibito, e salterà Rio per la troppa superficialità, ma il padre ha dato una lezione di lealtà a tutti, non solo all’immorale marciatore di Vipiteno. Avrebbe potuto dire che il figlio non si è dopato e che meriterebbe di andare in Brasile. E avrebbe potuto dire che Vincenzo non è altoatesino, e sarebbe caduto in basso, là dove sono precipitati altri.
Angelo Forgione – Siamo Noi è una trasmissione pomeridiana condotta da Gabriella Facondo e Massimiliano Niccoli in onda sul network TV2000, e incentrata sui temi della crisi italiana. Nella puntata del 10 febbraio, incentrata sulla crisi della piccola distribuzione, è intervenuto nel dibattito in studio Domenico De Masi, noto sociologo molisano (ma riconosciuto in quanto napoletano – e tale si definisce – per via della sua estrazione liceale casertana; ndr), che ha commentato tra l’altro gli esempi di imprenditoria creativa proposti nella parte conclusiva della puntata. Tra questi, anche quello della giovane napoletana Manuela Mirabile, ideatrice e titolare dei ristoranti “Tandem”, in cui si gusta il ragù a tempo. Idea discutibile che a De Masi non è piaciuta per l’introduzione del cronometro a Napoli, e a tavola, cosa che per il sociologo può essere apprezzata solo «in quel segmento di mercato in esaurimento fatto di napoletani degeneri che vogliono fare le cose in fretta, e sono pochissimi». Al di là della riflessione, che ha stemperato la serietà (e gravità) del tema facendo ridere l’intero studio, De Masi ha giudicato il tentativo sulla base della personale analisi della creatività: «È fatta di due elementi, che sono fantasia e concretezza. La fantasia ci dà delle nuove idee ma non è detto che siano buone. La concretezza ci fa selezionare tra le nuove idee quelle buone e ci dà tenacia per realizzarle. Noi napoletani siamo molto fantasiosi ma poco concreti. Infatti, mentre tutto il mondo ha inventato i microprocessori negli ultimi duecento anni, noi sempre la pizza, e in questo caso il ragù… mangiato in fretta».
Incubo pizza e cibo per De Masi, già al lancio del servizio timoroso che non si trattasse di un simile business anticrisi a Napoli. A prescindere dall’altissima dignità imprenditoriale che la pizza ha nel mondo e da tutto il resto che la Città ha dato nei secoli, compresi gli ultimi due (esempio: l’antibiosi scoperta a Napoli da Vincenzo Tiberio, anch’egli molisano d’origine, ma ostacolata dal mondo accademico italiano e consegnata agli studi successivi di Alexander Fleming), val la pena ricordare che, in tema di innovation technology, alle spalle dell’aeroporto di Capodichino, in un territorio depresso e sicuramente devitalizzato rispetto al passato, opera l’azienda GEP SpA (Global Electronic Passports), specializzata nello sviluppo di sistemi operativi anti-contraffazione, unico centro in Italia capace di realizzarre microprocessori contactless, ovvero chip da inserire nei documenti elettronici. È l’azienda che produce i nostri passaporti elettronici ma anche quella cui la FIFA si è affidata per evitare la contraffazione dei circa 4 milioni di biglietti dello scorso mondiale brasiliano. Ticket realizzati con un chip con antenna Rfid, per l’identificazione a radiofrequenza e la crittografia anticlonazione, e una carta di sicurezza contenente fibrille inserite nella polpa prima della stampa sensibili alle lampade ultraviolette degli appositi lettori. Una trentina di dipendenti, tutti meridionali, fatturato in crescita e una competenza che ha sbaragliato la concorrenza di cinesi e non solo. Al TG1 (guarda il video) Cesare Paciello, 42 anni, direttore generale di GEP, con sicurezza e orgoglio, prima della rassegna iridata dichiarò: «Noi abbiamo la possibilità di farcela contro chiunque a livello mondiale se portiamo avanti sviluppi innovativi. È la nostra burocrazia a pregiudicare la nostra competitività, ma in quanto a risorse umane siamo quasi imbattibili». Innovazione e eccellenza, tutto nel solco della tradizione napoletana che non si piega al divario territoriale e ai classici stereotipi di sorta.
Argentini e napoletani accomunati dalla religione maradoniana
Angelo Forgione – «Maradona es más grande que Pelé». È il coro che gli argentini, a mo’ di provocazione, hanno sbattuto in faccia ai brasiliani nel corso dei Mondiali. Creato qualche anno fa da Ignacio Harraca, un tifoso del Plantense, club della terza divisione argentina, è lo stesso che due napoletani inventarono trent’anni fa esatti. Il fuoriclasse argentino, nell’estate del 1984, era in rotta con il Barcellona e fece di tutto pur di lasciare la squadra catalana. Iniziò una trattativa estenuante senza certezze, ma il maestro Emilio Campassi fiutò il boom e coinvolse Bruno Lanza per confezionare una canzone celebrativa dell’acquisto del secolo napoletano. Fu scritta a piazza Carlo III, e non poteva essere altrimenti, visto che un altro Re stava entrando a Napoli per poi renderla “capitale” in un altro storico 10 maggio. Lanza non era appassionato di Calcio e non conosceva più di tanto Maradona. Campassi sì, benissimo, e gli disse che era il giocatore più forte mai nato. «Ma il più forte non e Pelè? Scusa l’incompetenza, ma allora Maradona è meglio ’e Pelè?». E nacque il tormentone, una sentenza senza punti di domanda. Campassi ci mise la voce nella sala di registrazione di via Santa Lucia. Trentacinquemila cassette regolari de L’inno a Maradona pronte già venti giorni prima che si chiudesse l’estenuante e incerta trattativa tra Napoli e Barça.
La sera della firma si contarono circa due milioni di nastri pirata, tutti venduti. L’industria del falso aveva fatto gli straordinari. E così l’intuizione di Campassi divenne la colonna sonora del Napoli che sognava il trionfo. Sarebbe arrivato insieme a La favola più bella, altro successone che proprio Maradona avrebbe cantato nel 1987 insieme a Bagni, Giordano, Carnevale, Ferrario, Romano e Sola, trascinati in sala di registrazione proprio da Emilio Campassi. Furono gli alfieri del primo scudetto azzurro, quelli che diedero corpo al diktat «nun putimme cchiù aspetta’, finalmente ce putimme vendica’». Campassi e Lanza erano evidentemente stufi della secolare colonizzazione di Napoli. E Maradona, per sua stessa autoproclamazione, si fece proprio simbolo della vendetta sportiva contro il potere economico del Nord. Lui certe dinamiche le capiva molto bene. Una grande gioia non effimera, ma pur sempre infruttuosa, immersa nella sedimentazione sociale di una città mai pronta alla rivoluzione politico-culturale e ingannata proprio dal miraggio del riscatto col pallone sotto al braccio. Ma Maradona è meglio ’e Pelè, e su questo pochissimi a Napoli e in Argentina discutono.
Angelo Forgione – Da appassionato di sport e studioso di Cultura, in tutte le loro mille forme, quando ho saputo che al Real Teatro di San Carlo, in occasione dei Mondiali brasiliani, a partire dagli ottavi di finale sarà calato un maxischermo sul palco per consentire agli amanti dell’Opera di non perdere neanche un secondo dei match mondiali ho avvertito un brivido lungo la schiena. Ma come? Un teatro storico, un tempio sacro della Musica internazionale, adibito ad arena sportiva?
Non è snobbismo. È che il “San Carlo” è il “San Carlo”, è il più antico Lirico esistente, è la casa dell’ineguagliabile Settecento Musicale Napoletano che Muti fa riscoprire al mondo, è il sogno del giovane Mozart. Il “San Carlo” è una cattedrale della Cultura non solo musicale, e non può essere profanata con la stessa facilità con cui, ad esempio, fu violato in passato il “Petruzzelli” di Bari, dove ci finì la manifestazione canora “Azzurro” di Vittorio Salvetti, tanto per rifarsi al Festival di Sanremo. Intendiamoci, coi tempi che corrono va benissimo consentire agli affezionati del Massimo napoletano di non dover optare tra Opera e Calcio, ma lo schermo, se proprio vogliamo accenderlo, andrebbe tuttalpiù preparato nel foyer (e già sarebbe un lusso) o in un altro spazio del teatro (visto che già vi sono passati sposi e prodotti alimentari), non nella sacra sala. È una questione di rispetto per la Storia di Napoli. Il “San Carlo” è una cosa, il “San Paolo” un’altra. La luce è già fioca. Forse si vuole il buio.
Fluminense vs Italia, test premondiale per gli azzurri in vista dei Mondiali. La torcida del Flu, a metà del primo tempo, intona “Funiculì funiculà”, uno dei cori tipici di casa. Tutto a pennello in una serata in cui i cinque goal portano la firma dei napoletani Immobile e Insigne. La Stampa di Torino scrive che il canto sa di presa in giro. Non lo è. È semplicemente Napoli mondiale, biglietti a parte.
Angelo Forgione – C’è un paese nell’hinterland di Napoli, alle spalle dall’aeroporto di Capodichino, dove si producono i passaporti elettronici. È Arzano, dove ha sede la GEP SpA (Global Electronic Passports), un’azienda specializzata nello sviluppo di sistemi operativi anti-contraffazione nata nel 1999, unico centro in Italia capace di realizzarre microprocessori contactless, ovvero chip da inserire nei prodotti: passaporti, appunto, ma anche carte d’identità, smart card e ticket. La GEP è al top anche nel mondo, e sul tetto del pianeta ci è giunta in questi ultimi mesi. La FIFA, infatti, in vista dei Mondiali di calcio in Brasile, si è affidata all’azienda napoletana per evitare la contraffazione dei circa 4 milioni di biglietti per le 64 partite in programma. I ticket realizzati per il torneo hanno due componenti: un chip con antenna Rfid, per l’identificazione a radiofrequenza e un sistema di crittografia che ne impedisce la clonabilità, e una carta di sicurezza che contiene fibrille inserite nella polpa della carta prima della stampa e non dopo come avviene con l’inchiostro. Le fibrille reagiscono alla lampada ultravioletta e i dati non posso essere letti ad occhio nudo ma solo con un particolare lettore. 28 dipendenti tutti meridionali, di cui 7 donne, fatturato in crescita e una competenza che ha sbaragliato la concorrenza di cinesi e non solo. Cesare Paciello, 42 anni, direttore generale di GEP, dichiara con sicurezza e orgoglio al TG1 (guarda il video): «Noi abbiamo la possibilità di farcela contro chiunque a livello mondiale se portiamo avanti sviluppi innovativi. È la nostra burocrazia a pregiudicare la nostra competitività, ma in quanto a risorse umane siamo quasi imbattibili». Innovazione e eccellenza, tutto nel solco della tradizione napoletana che non muore certo all’ombra dei classici stereotipi di sorta.
Jarbas Faustinho Canè da Rio de Janeiro arriva a Napoli negli anni Sessanta. Come Vinicio e Pesaola, anche lui non è più andato via. Un uomo garbato, sentimentale, che, raccontandosi a “Sottovoce” (RAI), pensa alla sua vita trascorsa all’ombra del Vesuvio e tira fuori lacrime di amore e riconoscenza per un posto che l’ha accolto come se fosse un proprio figlio.
Un luogo comune dice che a quei tempi i brasiliani in Europa soffrissero di “saudade”. Canè non ha mai sofferto la mancanza del suo Paese, perchè il suo Paese è sempre stata Napoli da quando ci ha messo piede.
Un brasiliano che “luntano ‘a Napule nun se po’ sta!”
Luis Vinicio e l’amore di Napoli corrisposto
Luis Vinicio è un simbolo del Napoli e di un calcio sentimentale che non c’è più. Oltre la retorica, lui e Pesaola rappresentano gli stranieri catapultati in Italia dal Sudamerica negli anni Cinquanta e mai più staccatisi da Napoli. ‘O Lione si divide tra Belo Horizonte, dove ha ancora i fratelli, Bologna e soprattutto Napoli, dove ha la sua vita. La confessione d’amore ben noto per la città partenopea alla trasmissione “Sottovoce” della RAI evidenzia il perchè Napoli sa entrare nel cuore degli stranieri, e non solo calciatori. Vinicio racconta che quando va in Brasile ci mette poco a sentire la mancanza di Napoli. Il perchè non lo spiega direttamente ma lo si capisce nel corso di tutta l’intervista: ad un uomo abituato a godere dell’affetto della gente per strada da sessanta anni, le passeggiate brasiliane non sono esattamente uguali a quelle napoletane, e neanche bolognesi. Napoli è per lui il sentirsi vivo.
Magari si può discutere della “degenerazione” dell’affetto dei napoletani per i propri idoli, sfociato col tempo nel fanatismo, ma anche questo è il segno dei tempi, la conferma di un calcio sempre più esasperato in ogni manifestazione, dentro e fuori campo, e di una città un po’ più smodata.