“SPARANAPOLI”, la copertina “gomorristica” de l’Espresso

Angelo Forgione – Una nuova copertina, quella dell’ultimo numero de l’Espresso, che fa discutere. “Sparanapoli: «In città ora comandiamo noi»”. Sul tetto di un palazzo del centro storico di Napoli, tre ragazzini incappucciati, pistola in pugno e Duomo alle spalle. All’interno, un reportage sulla “paranza dei bambini” che racconta, attraverso le confessioni di uno dei presunti protagonisti, l’emersione di un nuovo fenomeno protomafioso.
La foto di copertina è tutto fuorché un lavoro da fotoreporter, presentando tutti i crismi di un lavoro da fotografo pubblicitario, con soggetti in posa proprio come nelle locandine dei film e dei serial televisivi. È proprio l’onda lunga della spettacolarizzazione del fenomeno malavitoso, in quel filone “gomorristico” che continua a rappresentare un’increbile macchina da soldi, ad alterare la realtà, confondendo spettatori e lettori. Ne paga le conseguenze, ancora una volta, l’immagine della città, in faticosa rincorsa turistica, dipinta come luogo infernale dove giovani incappucciati sono pronti a seminare terrore. Certo, il problema è reale, e andrebbe analizzato in altri termini, magari puntando il dito sui poteri centrali che fanno del Sud un serbatoio di voti e un mercato della ricchezza prodotta dal Paese, che è in grossa parte a Nord, così come il potere mediatico. Napoli ha bisogno di voce, ma in un territorio povero si può solo scrivere libri luminosi e cercare di sfruttare al meglio internet, che è l’unico canale democratico, così da provare a convincere qualcuno che Napoli non è l’inferno degli incappucciati con pistola in pugno. Di questo ed altro ne abbiamo parlato alla trasmissione #Parliamone, in onda sull’emittente campana TeleClubItalia.

espressioni

Jean-Noël Schifano illustra la disunità d’Italia nella città di Garibaldi

al C.U.M. di Nizza conferenza su “la désunité italienne”

Angelo Forgione per napoli.com  – Sempre affascinato da Napoli, Jean-Noël Schifano, direttore letterario per l’editrice Gallimard e critico di Le Monde, ovunque si trovi, descrive la Capitale con stile e ricrea il fascino di una civiltà che mantiene la sua autonomia culturale.
Schifano è stato protagonista mercoledì 4 giugno di una conferenza al Centre Universitaire Méditerranéen di Nizza dal titolo “la désunité italienne”. Sì, la disunità italiana, raccontata proprio nella città natale di Garibaldi. Un’ora e mezza di racconti storici, più un quarto d’ora di risposte alle domande dei più di 300 presenti, per descrivere la realtà meno nota del Regno delle Due Sicilie nel 1860, le sue eccellenze, e l’interruzione del progresso ad opera di Garibaldi il nizzardo, Bixio, Cialdini, Vittorio Emanuele II e Cavour, «i criminali», attraverso «le menzogne e i plebisciti falsati agli occhi di tutti e sempre benedetti dalla Repubblica italiana».
Il percorso storico è culminato nel disastro del presente, nel degrado sociale del Mezzogiorno di oggi che muore sempre più e non può trovare speranze nelle contraddizioni verbali del premier italiano Matteo Renzi, «un nanomachiavelli», prima lusinghiero in campagna elettorale europea nei confronti dell’antico Stato meridionale, a tal punto da eleggerlo a modello di rinascita economica, e poi offensivo subito dopo le elezioni.
Vibrante anche la denuncia del museo lombrosiano di Torino, definito da Schifano «un obbrobrio dell’umanità». Quando dal pubblico l’esposizione è stata definita “una sfumatura della storia”, Schifano ha risposto con decisione: «Fatti e date, caro Signore, fatti e date che il mondo intero può controllare… E, scusi, se lei scoprisse un bel giorno in un museo, su uno scaffale nuovo fiammante, in un boccale conservato da 150 anni, la testa del suo bisnonno, farebbe delle sfumature?» Applausi scroscianti in sala.
Significativa una citazione di Rocco Scotellaro: «Bisogna strappare le maschere con i denti…». Vera emozione del pubblico, unita alla commozione per le reclusioni nel forte di Fenestrelle e per la descrizione, con dovizia di particolari, di alcuni massacri commessi delle truppe piemontesi.
Schifano ha pure messo in evidenza le campagne denigratorie di cui Napoli è vittima da più di un secolo e mezzo, descrivendo per esempio le varie copertine de l’Espresso, tra cui l’ultima titolata “Bevi Napoli e poi muori”: «Innumerevoli umiliazioni per coprire la sola Città capitale d’Italia di onta identitaria e rinforzare a spazi regolari, da 154  anni, una xenofobia storica degna dei peggiori colonizzatori».
«Non immaginate – ha detto l’intellettuale francese – con quanta rabbia Napoli e il Sud stiano riprendendosi sempre di più l’identità rubata, nonostante tutte le razzie economicamente mortali che da 154 anni si sono fatte, da Marsala alla Campania Felix. E questo grazie anche al coraggio di scrittori come Pino Aprile e Angelo Forgione (ringraziamenti, NdR), determinati a pubblicare libri-verità accecanti».
Chiusura con una sentenza: «A giudicare dalla partecipazione, Garibaldi, a Nizza, sembra “seppellito” da molto tempo».

L’Espresso e le copertine “sputtanapoli”

nuovo schiaffo dopo quello ai tempi del colera e quelli più recenti

Angelo Forgione – La copertina de l’Espresso, dedicata all’inquinamento di Napoli, recita così: “Bevi Napoli e poi muori”. Da un rubinetto nero fuoriesce acqua nera, non caffè napoletano, e parte la psicosi del bicchier d’acqua. L’inchiesta rende noti i risultati di una ricerca del comando americano sul territorio eseguita tra il 2009 e il 2011, dalla quale si evincerebbero tracce di uranio nell’acqua contaminata e gas velenosi che escono dal suolo. I militari USA concludono: “Nessuna zona è sicura, nemmeno nel centro di Napoli”.
Di che acqua si tratta e di quali aree? Quelle tra Napoli e Caserta: tre “zone rosse” intorno a Casal di Principe, Villa Literno, Marcianise, Casoria e Arzano, dove i militari presero in fitto appartamenti abusivi e quindi allacciati a pozzi contaminati, e non dalla rete idrica. Criticità sono segnalate anche per il 57 per cento degli acquedotti esaminati nel centro di Napoli e il 16 per cento nel quartiere Bagnoli, non a causa delle sorgenti ma per via delle cattive condizioni delle tubature, e qui il problema è diverso.
Non è il caso di mettere la testa sotto la sabbia perché un grosso problema ambientale c’è, ma bisogna chiarire che le analisi americane erano riferite ad acqua “illegale” e su queste il quotidiano ha calcato la mano, strumentalizzando dati che con la rete idrica niente c’entrano. L’acqua erogata in città, almeno quella, risulta controllata e potabile, e i dati delle analisi sono consultabili da tutti attraverso il sito dell’azienda ABC, che quindici mesi fa, ben oltre il 2011, quando si chiamava Arin, fu elogiata da SKY che informò gli italiani sul fatto che l’acqua più “trasparente” del Paese fosse quella di Napoli. “Il servizio porta Napoli espresso_1973tra le eccellenze per quanto riguarda la ‘trasparenza’ e la assiduità della comunicazione pubblica dei dati a proposito delle acque che circolano nella rete idrica cittadina”. Questa fu la notizia che nel dettaglio esaltava i ventotto parametri tenuti in considerazione dalle analisi di laboratorio, i cinquantuno punti di prelievo e gli aggiornamenti pubblici a cadenza mensile, quartiere per quartiere. Meglio della pur esaustiva municipalizzata Smat di Torino e di tutte le altre città italiane. Presi per buoni i valori pubblicati, tutti soddisfacenti, ognuno può verificare, almeno nella città di Napoli, cosa beve.
espresso_2006A fine 2011, un altro studio interuniversitario aveva analizzato la qualità di 157 campioni raccolti in casa o alle fontanelle di oltre un centinaio di località del Nord, del Centro e del Sud della Penisola. Fu realizzato nell’ambito del progetto europeo Eurogeosurvey geochemistry expert group con il lavoro di alcuni ricercatori italiani, grazie ai quali fu possibile valutare l’acqua di 112 comuni. In 5 casi l’acqua analizzata non risultò potabile e tra le dieci città con maggiore concentrazione di nitrati non figurava Napoli ma, ad esempio, città come Milano e Venezia.
Bisogna pretendere chiarezza dall’indagine dei militari espresso_2005USA e da chi deve sovraintendere alla salute pubblica, ma una cosa è certa: non è la prima volta che il settimanale l’Espresso sbatte il mostro Napoli in prima pagina. Passando per il “Napoli addio” del 2005 e il “Napoli perduta” del 2006, sembra di rivivere i tempi del colera del 1973, quando Napoli fu colpita dall’accanimento mediatico e da titoli a sensazione, salvo poi scoprire che l’epidemia fu portata da mitili del Nordafrica. Anche in quell’occasione, l’Espresso titolò addirittura “Bandiera gialla”. Ne era inviato un giovane Paolo Mieli, che, conoscendo certe dinamiche, riconosce oggi quanti ricami giornalisti si facciano su Napoli.

40 anni dopo, il colera del 1973 a “Speciale Tg1”. Quali intenti?

Domenica 25 agosto andrà in onda una puntata di “Speciale Tg1” che rivisiterà i drammatici eventi del colera a Napoli del 1973, a quarant’anni dall’epidemia che colpì non solo la città partenopea ma anche altre città del bacino del Mediterraneo.
«Dopo quarant’anni Napoli si ritrova nelle medesime condizioni di allora, se non peggio». Il giudizio tranchant sarà espresso del regista napoletano Francesco Rosi nel documentario curato dal vicedirettore della testata, il napoletano Gennaro Sangiuliano. E in effetti le condizioni igieniche di Napoli sono ancora oggi al di sotto degli standard europei e indegne di una città di grandissima storia e cultura. Nessuno lo neghi e lo nasconda, ma c’è da chiedersi quali siano gli intenti nel “celebrare” quegli eventi a otto lustri di distanza, riproponendo presumibilmente le inchieste realizzate all’epoca dei fatti che non furono certamente obiettive ed equilibrate. Quell’epidemia, infatti, non fu causata dalle pur precarie condizioni igieniche della Napoli degli anni Settanta, non dalle cozze coltivate nel mare napoletano cui furono attribuite le colpe, ma da una partita di mitili provenienti dalla Tunisia, da cui transitò la pandemia proveniente dalla Turchia via Senegal, cozze che furono sdoganate anche a Palermo, Bari, Cagliari e Barcellona, colpite anch’esse dal vibrione del colera. A questo proposito, si legge dalle pagine online dell’Espresso che lo speciale del Tg1 racconterà “una pagina cupa della storia di Napoli, troppo presto dimenticata, decine di morti e migliaia di contagiati, con casi che si estesero a Bari e ad altre località del Mezzogiorno”. Scritto così, sembra che le altre città furono contagiate dal focolaio di Napoli. E del resto, in quei giorni, fu proprio L’Espresso a titolare in copertina “Bandiera gialla”, schiaffeggiando la città insieme a tutta la stampa, nazionale e internazionale, che perse il senso della misura, speculando sulla città partenopea con racconti di fantasia sui napoletani e diffondendo notizie non verificate. Una biologa inglese, ricoverata al Cotugno per altri motivi, scrisse un reportage per il Times ricco di ricami sulle condizioni igieniche dell’ospedale, in cui parlò di un’esperienza da incubo. Poi ritrattò.
Il presidente dell’Ente Porto e l’Ufficiale Sanitario vennero indiziati di epidemia colposa dalla magistratura, per poi essere scagionati proprio dalla cozza tunisina. L’epidemia, a Napoli, fu debellata velocemente, e l’emergenza fu ufficialmente dichiarata chiusa in meno di due mesi dall’OMS, a tempo di record grazie alla più imponente profilassi della storia europea e ad un’ammirevole compostezza della popolazione nelle operazioni di vaccino, mentre le altre città, Barcellona compresa, ci misero due anni per liberarsene completamente. Tutto questo è raccontato con grande precisione ed equilibrio da uno speciale de “La storia siamo noi” del 2011 (guarda il video), a cura di “Village Doc&Films” di Sergio Lambiase e Aldo Zappalà, in cui anche Paolo Mieli dichiara che “la criminalizzazione di Napoli fu davvero sproporzionata”.
I media dell’epoca alterarono la realtà, consegnandola al pregiudizio, rompendo le ossa all’immagine della città. Solo quando dopo trenta giorni a Napoli tutto finì fu reso noto che il vibrione era nelle cozze tunisine. Nessuno però descrisse più l’epidemia che perdurava altrove, mentre Napoli si ritrovò orfana di turisti, ormai convinti che fosse una Calcutta italiana. Negli stadi d’Italia, luogo di crescente calciocentrismo nazionale, il Napoli di Vinicio fu da allora accolto al grido di “colera”, e fu proprio in quel momento storico che nacque quel coro/slogan razzista ancora ben radicato e mai contrastato dagli ipocriti organi preposti al contrasto dei fenomeni razziali negli impianti sportivi. Baresi, palermitani, cagliaritani e catalani non sono apostrofati come “colerosi”, e neanche i tifosi delle squadre di Milano, Genova, Torino, Verona, Treviso, Venezia, Trieste, Parma, Modena, Como, Bergamo, Brescia e altre città del Nord non bagnato dal mare ma colpite nell’Ottocento da diverse pandemie di colera per le scarse condizioni igieniche e non per delle cozze importate.
Bisogna augurarsi che “Speciale Tg1” sia equilibrato e corretto quanto “La storia siamo noi”, evitando di calcare la mano sulla cassa di risonanza che da sempre Napoli offre ai romanzieri dell’informazione ma, al contrario, cogliendo l’occasione per ricostruire la realtà dei fatti del settembre 1973 e riattribuire a Napoli quanto in quel periodo fu tolto sotto il profilo dell’immagine. In caso contrario, il documentario produrrebbe il solo risultato di alimentare stereotipi e pregiudizi, danneggiando nuovamente l’immagine di una città che faticosamente sta di nuovo intercettando il turismo internazionale, dando tra l’altro ulteriore fiato al volgare razzismo anti-Napoli negli stadi. Che poi la Napoli di oggi abbia più o meno gli stessi gravi e irrisolti problemi, come sostiene Rosi, non c’è alcun dubbio; ma questa è un’altra storia, che anche all’epoca dei fatti del colera fu strumentalizzata per vendere giornali, quotidiani e inchieste televisive.
La carente igiene di Napoli e del Sud-Italia esposto al mare di certo non aiutò a respingere il colera, che partì nel 1961 dall’isola indonesiana di Sulawesi e travolse un po’ tutto il Globo (vedi immagine in basso tratta da “Principi di Microbiologia Medica” – La Placa XII edizione). Si auspica che il vicedirettore Sangiuliano, napoletano, vorrà descriverlo.

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