Napolitiamo: articolo di Elena Barbato per il “Roma”

Alla Feltrinelli di Santa Caterina a Chiaia è stato presentato alla presenza di Maurizio de Giovanni, Fabrizio Mandara e Errico Liguori il nuovo libro di Angelo Forgione, giornalista, scrittore, divulgatore della buona cultura.

Il libro è un elogio alla lingua napoletana: la lingua dell’arte, della musica, della poesia, del cinema, del teatro. Troppo spesso declassata a “dialetto”, anche se tra i più conosciuti al mondo, e maggiormente diffusa per la sua espressione vocale, la sonorità e la bellezza del suo popolo che la lega fortemente ad una comunicazione gestuale di forte impatto. Mezzo espressivo e veicolo di alcune forme artistiche di Napoli che nessun’altra città vanta tutte insieme, dalla musica al teatro, dalla poesia al cinema, “Napolitiamo” di Angelo Forgione ne espone l’importanza dividendo la lettura in due parti: una storica e una didattica.

La parte storica analizza con rigore l’evoluzione del napoletano nei secoli, confrontando il percorso linguistico di Napoli e di Firenze. La parte didattica offre un pratico prontuario per apprendere una corretta ortografia napoletana, chiaro e accessibile, pensato per chi desidera imparare a scrivere questa lingua d’arte.

La presenza di Maurizio de Giovanni, autore della prefazione, il suo raccontare di Napoli e della sua lingua, ha rafforzato la necessità di porre un argine al pericolo, evidenziato dall’autore, che il napoletano sta correndo nel nostro presente, rischiando di perdersi nel dimenticatoio di una trasmissione orale che non le fa giustizia. Maurizio De Giovanni ha chiesto a gran voce di istituire una cattedra di lingua Napoletana presso le Università campane che tanta storia serbano nei loro meandri e tanti primati ne annoverano la grandezza.

Gli intermezzi musicali eseguiti con grande maestria dal musicista Fabrizio Mandara, accompagnati dalla bravura interpretativa di Errico Liguori in arte Masaniello hanno allietato il pubblico giunto in libreria, divenuta in una manciata di minuti un’arena in cui fare cultura.

In un’epoca in cui, con l’esplosione della scrittura digitale, ha proliferato una barbara ortografia “faida-te” e un eccesso di libertà nel trascriverla a proprio piacimento. Una discrezionalità licenziosa che sposta una lingua d’arte nel recinto dei semplici dialetti e le fa correre il rischio di perdere il suo prestigio letterario.

Ma il napoletano è undialetto o una lingua? Abbiamo chiesto ad Angelo Forgione. «Chiamiamolo come preferiamo, ché comunque non sbagliamo. Piuttosto, commettiamo errore se lo rendiamo rozzo e se ci vergogniamo di parlarlo, finendo per favorire la cancellazione delle differenze per le quali l’Italia è peculiare. Mi sono impegnato a scrivere questo duplice saggio perché ho profondamente studiato da una parte la storia della lingua napoletana, che racconta quella assai complessa di Napoli, e dall’altra la grammatica napoletana, con particolare attenzione all’ortografia, che vanno comprese se davvero si vuole proteggere il napoletano da un certo declassamento minacciato dall’anarco-scrittura imperversante. Tutto andava fissato in un saggio. Il Napoletano si è fortemente italianizzato dal Novecento in poi, e si è persa la memoria di parole antiche bellissime. Ma il vero problema, oggi, è l’assenza di cura per la scrittura napoletana. Questo mio nuovo saggio deve finire nelle mani di tutti quelli che amano la lingua napoletana e magari hanno anche voglia di scriverla correttamente. Napolitiamo è lo strumento adatto per farlo».

Spaghetti alle vongole, da Napoli all’Italia

Angelo Forgione – È un fatto che la vongola sia un chiaro esempio dell’influenza del napoletano nell’italiano corrente. Lo è in quanto termine dialettale partenopeo, derivante dal latino conchŭla, cioè conchiglia, per definire sinteticamente il lupino di mare o anche il mollusco bivalve. Geosinonimo scelto da tutti i linguisti e vocabolaristi premoderni per la lingua Italiana.

Leggendo il Vocabolario napoletano-italiano del 1897 di Raffaele Andreoli si apprende che vongola, figurativamente, era usato anche “per cosa non vera, fandonia”, e pure “per parola oscena, parolaccia”, questo significato affine a quello figurativo di oggi, tempo in cui per “caccià ‘na vongola” si intente dire parola volgare o mal pronunciata.

Dei vermicelli alle vongole ne dà la primissima testimonianza scritta Ippolito Cavalcanti nell’appendice Cucina casereccia in dialetto napoletano del trattato Cucina teorico-pratica del 1837. La ricetta è quella dei Tagliarielli con vongole, accompagnata nella parte italiana dello stesso trattato dalla semplice citazione dei Tagliariell’ e Vongole. Due anni più tardi, nella seconda edizione dell’opera, risulta ben più dettagliata la ricetta dei Tagliarelli e Bongole (in napoletano, per betacismo, la V può diventare B – es. viecchio > biecchio), poi illustrata in italiano nelle edizioni successive (Vermicelli all’aglio con vongole).

Esattamente un piatto napoletano con un dialettismo napoletano, vongola, esteso a tutta la Penisola, dunque. Come la pizza, del resto, termine napoletano già presente nei trattati linguistici partenopei del Cinquecento ed esordiente nei vocabolari di lingua italiana solo nel 1905.

È arrivato “Napolitiamo”

Angelo Forgione – Una vera fatica. È il mio saggio storico-didattico sul napoletano, lingua d’arte di reputazione internazionale, con cui è stata prodotta una vasta tradizione di scrittura colta e sono state espresse alcune forme artistiche di Napoli che nessun’altra città vanta tutte insieme, dalla musica al teatro, dalla poesia al cinema.

Lingua romanza come l’italiano, figlia del latino ma porosa come l’intera cultura partenopea, in cui ne convivono armoniosamente diverse altre. Idioma con una storia legata a specifici fattori politici e culturali che nei secoli hanno esercitato la loro azione in una città che nel periodo della “questione della lingua”, dal Cinquecento all’Ottocento, è stata la più affollata e dinamica d’Italia, con gran divario rispetto al cuore di un volgare, il tosco-fiorentino, che proprio in quei secoli ha fatto più carriera degli altri, divenendo la lingua di tutti gli italiani.
La grande Napoli ha lasciato fare la più piccola Firenze, e ha pure contribuito ad avviarne la spinta linguistica. E però si è presa la sua rivincita continuando a “parlare” al mondo con le sue tante espressioni, non solo artistiche, veicolate dal logos territoriale, che della città partenopea definisce la condizione identitaria più che altrove per continuità di tradizione e per livello di utilizzo.
Il problema della lingua di Napoli di oggi non sta nel preservarne l’uso orale ma nel proteggerne la scrittura dalla proliferazione di un’ortografia “fai-da-te” con la quale una lingua d’arte, regolata dalla radice latina e modellata dai tanti testi colti scritti nei secoli, viene spostata nel recinto dei semplici dialetti, privandola del suo prestigio letterario.
La prefazione di Maurizio de Giovanni rafforza la necessità di porre un argine al pericolo che il napoletano, lingua sotto attacco, sta correndo nel nostro presente.
Due guide in un libro, tra storia e didattica.
La parte storica racconta, ed è frutto di una rigorosa ricostruzione dell’evoluzione nei secoli dell’idioma partenopeo, anche in relazione all’affermazione della lingua italiana, e quindi del percorso linguistico di Napoli rispetto a Firenze.
La parte didattica insegna, ed è un completo prontuario grammatico per l’apprendimento di una ortografia napoletana corretta, a beneficio di coloro che vogliano minimamente padroneggiare la scrittura della bella lingua d’arte con cui Napoli, da secoli, parla al mondo.

Leggiamo. Scopriamo. Impariamo. Napolitiamo! Il presente indicativo della lingua di Napoli.

Le ultime parole di Eduardo De Filippo sulla lingua napoletana

Angelo Forgione – Celebro l’odierna Giornata Internazionale della Lingua Madre con le ultime parole di Eduardo De Filippo sulla lingua napoletana, sua e mia lingua materna. Le scrisse in merito alla sua ultimissima fatica letteraria, ma fatica autentica: la traduzione in napoletano antico de La tempesta, dramma di primo Seicento di William Shakespeare ispirato al conflitto di fine Quattrocento fra la corona aragonese di Napoli e gli Sforza di Milano.
Il grande drammaturgo vi si dedicò un anno prima di andarsene, nell’estate del 1983, nonostante il caldo torrido, i problemi di salute e altri impegni da assolvere. Isabella Quarantotti, sua moglie, gli riportò in italiano il testo inglese, poi tradotto in un napoletano seicentesco ma adattato ai tempi. Egli stesso, in una nota al lavoro, spiegò il taglio scelto per il rivestimento del dramma shakespeariano:

[…] Quanto al linguaggio, come ispirazione ho usato il napoletano seicentesco, ma come può scriverlo un uomo che vive oggi; sarebbe stato innaturale cercare una aderenza completa ad una lingua non usata ormai da secoli. Però… quanto è bello questo napoletano antico, così latino, con le sue parole piane, non tronche, con la sua musicalità, la sua dolcezza, l’eccezionale duttilità e con una possibilità di far vivere fatti e creature magici, misteriosi, che nessuna lingua moderna possiede più. […]

Eduardo elogiò la vicinanza del napoletano al latino, ben più che l’italiano. E qui aggancio le riflessioni di Ferdinando Galiani di un secolo prima, in Del dialetto del 1789:

“Or chi non sente co’ suoi stessi orecchi, che le parole Napoletane chisto e chillo si scostano meno delle Latine iste, e ille, che non se ne scostano le Toscane questi e quegli? […] Chi non vede, che il nostro verbo Napoletano dicere non ha mutazione dal Latino, come lo ha il Toscano dire? […] Faccio, saccio, aggio s’accodano alle latine facio, sapio, habeo assai più, che non le Toscane voci fo, so, ho. Noi diciamo simmo; i Toscani dicono siamo; il Latino è simus. Diciamo tene, vene, convene, accodandoci al Latino tenet, venit, convenit, e non già tiene, viene, conviene. […] Diciamo ditto, astritto &c. come i Latini dictus, strictus, mentre i Toscani dicono detto, stretto &c. Anderemmo all’infinito a voler enumerare tutte le parole noftre, che conservano inflessione più accostante alla Latina. […]”

E davvero il napoletano è la lingua romanza locale che si discosta meno dalla lingua degli antichi Romani, pur avendo generato una propria grammatica distinta, anche da quella dell’italiano stesso. Napoletano figlio del latino ma allo stesso tempo lingua in cui vi convivono armoniosamente i tratti osci, greci, bizantini, longobardi, arabi, germanici, provenzali e francesi, catalani e castigliani, sino ai lasciti anglosassoni.
Però… quanto è bello questo napoletano antico. E vediamo di preservarlo.

La parola italiana più diffusa al mondo è napoletana

La parola italiana più diffusa nel mondo? È pizza, pure tra le più diffuse in assoluto. Si tratta esattamente di parola dialettale napoletana, come ci spiega lo scrittore rinascimentale Benedetto Di Falco nel suo Rimario del Falco (vedi immagine) del 1535, riferendoci che il particolare lemma partenopeo, almeno già dal primo Cinquecento, è sinonimo di focaccia:

Focaccia in Napoletano è detta pizza

Pizza è parola oggi comprensibile al mondo, ma in tempi remoti era ignota al di fuori di Napoli come la è, ad esempio, cresuommolo per chi non conosce il dialetto napoletano.

Verosimilmente, pizza è una derivazione di pititia (particella “titi” = tts), di appartenenza allo strato germanico-longobardo, che al plurale (pititie) si ritrova in un documento napoletano di enfiteusi dell’anno 966, la più antica attestazione di tale termine, derivante a sua volta dal greco pita/pitta, trasformata dai barbari. Inutile ricordare che i napoletani sono un popolo di origine greca.

Trentun’anni più tardi, nel 997, si legge la parola pizze in un documento scritto in latino, il Codex Diplomaticus Cajetanus di Gaeta, territorio ducale facente parte della Campania. L’atto ha per oggetto la locazione di un mulino presso il fiume Garigliano e del terreno annesso di proprietà del vescovato a condizione che “[…] ogni anno nel giorno di Natale del Signore, voi e i vostri eredi dovrete corrispondere […] dodici pizze, una spalla di maiale e un rognone, e similmente dodici pizze e un paio di polli nel giorno della Santa Pasqua di Resurrezione”.
Non si tratta certamente di pizze come le intendiamo noi ma di preparazioni ripiene rustiche o dolci, accezione ancora oggi parallela e secondaria a quella più comune (pizza di scarole, etc.), come si evince da quel che scrive Bartolomeo Scappi, cuoco papalino, che nel secondo Cinquecento scrive come preparare torta di diverse materie da Napoletani detta pizza. Lo stesso fa Jacopo Sannazaro, citando la piza cun lo mèle.

È alla fine del Cinquecento che si parla di “mastunicola”, una pizza antesignana di quella dei giorni nostri condita con strutto, pepe, formaggio di pecora e tanta vasinicola, il basilico in napoletano (dal greco vazilikon), che, per storpiatura, dà il nome alla pietanza.

Il filologo Emmanuele Rocco, nel 1858, nel secondo volume dell’opera Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti” diretto da Francesco De Bourcard, conferma che pizza, come parola e come pietanza, è una specificità esclusivamente napoletana:

“La pizza non si trova nel vocabolario della Crusca, perché […] è una specialità dei napoletani, anzi della città di Napoli (…)”.

È ormai la pizza moderna, cioè rossa, condita con il pomodoro, che dall’inizio dell’Ottocento, nella tipicità lunga, è anch’esso una specificità della sola cucina popolare di Napoli. È in questo passaggio che bisogna individuare la vera rivoluzione dei pizzajuoli di Napoli, che in seguito farà scuola nel mondo.

La parola dialettale napoletana pizza e la pietanza partenopea che indica diventano internazionali solo dal dopoguerra in poi, quando i turisti americani, che hanno conosciuto la pizza nel loro paese grazie agli emigranti napoletani e ai soldati yankees inviati a Napoli, la cercano a Roma, a Firenze, a Venezia e un po’ dappertutto, ma non la trovano. La domanda americana crea l’offerta italiana di un prodotto che a Napoli è mangiato da qualche secolo. Si tratta del cosiddetto “pizza effect“, un termine sociologico che indica qualcosa che nasce in un luogo specifico, diventa noto in un’altra nazione che fa conoscere quel qualcosa alla nazione in cui si trova il luogo specifico d’origine.

Il napoletano, la lingua dell’amore che non sa più dire “ti amo”

Angelo Forgione  — «Ti amo», si dice in Italia, ma non più a Napoli. Sì, perché un napoletano che si dichiara con il suo dialetto/lingua usa oggi l’espressione «te voglio bbene assaje» e, se proprio vuol essere più travolgente, la formula «songo ‘nnammurato ‘e te». Niente «ti amo», dunque. Bandito, non esiste. E invece no! Magari non si dice più, ma il napoletano, la lingua dell’amore, le conosce quelle due parole importanti. Ne ho trovato traccia nel trattato Del dialetto napoletano scritto nientepopodimeno che dal brillante economista Ferdinando Galliani e pubblicato nel 1779. Sfogliandolo, ci si imbatte nella coniugazione del verbo “Amare”, preceduta dall’avvertenza che la seconda persona singolare, per regola generale, termina sempre con una e. Dunque, nel fulgido Settecento napoletano dei Lumi, la gente del Regno diceva «ti amo», altroché!

Ferdinando Galiani è attendibilissimo, quantunque abruzzese di nascita e pugliese di origini. Crebbe a Napoli dall’età di sette anni, e qui costruì la sua formazione profondamente intellettuale, diventando uomo di grande lustro e importanza universale con il suo trattato Della moneta del 1751, tanto da essere più volte citato ne “Il Capitale di Karl Marx del secolo successivo per le sue intuizioni sul mondo valutario del Secolo dei Lumi, sul valore economico dei beni e su quello del lavoro necessario per produrli. Il trattato dialettale sull’idioma partenopeo lo pubblicò cinquantenne, rivendicando il primato della lingua aulica napoletana su quella toscana e indicando la necessità di salvaguardare quella più vicina al latino per respingere quella contaminata dal dialetto plebeo, e renderla lingua ufficiale del Regno di Napoli.
Magari è stata proprio la contaminazione volgare a mettere in second’ordine l’espressione “t’amo”, indicando la via al grande filone della canzone classica napoletana di Ottocento e Novecento. Come dimenticare il celebre valzer Te voglio bbene assaje del 1839, in cui il paroliere e ottico Raffaele Sacco scrive il verso “I’ t’aggio amato tanto, e t’amo e tu ‘o ssaje”. Libero Bovio, nel primo Novecento della Belle Époque, rese con un “mo nun ce amammo cchiù” la malinconica realtà di un amore finito tra un anonimo lui e la sua Reginella. Ed Eduardo De Filippo, nel 1984, traducendo in napoletano La Tempesta di Shakespeare, scrisse “Te voglio bene e t’amo, cchiú t’amo cchiú te stimo e cchiú t’onoro!” per napoletanizzare la frase originale “Do love, prize, honour you.” rivolta da Ferdinando, principe di Napoli, alla figlia del duca di Milano.
Dunque, ci siamo convinti che la lingua dell’amore non preveda la più eloquente delle dichiarazioni d’amore. Ma davvero vogliamo continuare a privare di un sentito «ti amo» proprio la lingua dei sentimenti?

80 sofferenza

Angelo Forgione Ho tanta sofferenza dentro per la scomparsa di un Maestro, sempre elegante e mai volgare, espressione massima dell’attorialità romana più colta.
Oggi è il suo 80° compleanno, non il giorno della sua scomparsa, perché i grandi non scompaiono.
Auguri per il tuo nuovo percorso, Gigi, e grazie per i sorrisi che ci hai donato.
Applausi tantissimi!

«Ho un’antica e profonda venerazione per Napoli. Che dire della lingua, che avrei voluto imparare alla perfezione, cosa però impossibile.»

Gigi Proietti, settembre 2018

Quel Lazio in mezzo al mare che resta campano

Angelo Forgione Il 2 gennaio 1927, con un decreto firmato da Vittorio Emanuele III e Benito Mussolini, veniva sancita la soppressione dei una delle province più vaste e storiche d’Italia, quella casertana di Terra di Lavoro, erede dell’omonima provincia del Regno delle Due Sicilie. Con l’operazione, veniva fatto arretrare il confine settentrionale della Campania sulla linea del Garigliano. 102 comuni a sud del fiume venivano assegnati a Napoli; 15 comuni a nord, quelli dell’hinterland di Gaeta e dei comuni costieri fino a Minturno accorpati a Roma. Veniva creato così, a tavolino, il nuovo Lazio, sottraendo d’imperio territori alla Campania, all’Abruzzo e all’Umbria. Con 51 comuni attorno Sora nacque anche la nuova provincia di Frosinone, insieme ad altre 16 (Aosta, Bolzano, Brindisi, Castrogiovanni ovvero l’odierna Enna, Frosinone, Gorizia, Matera, Nuoro, Pescara, Pistoia, Ragusa, Rieti, Savona, Terni, Varese, Vercelli e Viterbo).

Il 26 maggio 1927 Benito Mussolini pronunciò alla Camera dei Deputati uno tra discorsi più significativi per l’affermazione del regime fascista, passato alla storia come il “discorso dell’Ascensione”. In quell’occasione fornì una giustificazione di ordine pubblico:

“I mazzoni sono una plaga che sta fra la provincia di Roma e quella di Napoli, ex Caserta: terreno paludoso, stepposo, malarico, abitato da una popolazione che fin dai tempi dei Romani aveva una pessima reputazione ed era chiamata popolazione di latrones”.

Dunque, la presenza dei malavitosi e l’incapacità dei poco fascisti amministratori locali di avversarli giustificavano la cancellazione di un’intera provincia. In realtà il vero intento fu chiarito dallo stesso Mussolini nello medesimo discorso:

“C’è stata una provincia soppressa che ha dato spettacolo superbo di composta disciplina, Caserta, che ha compreso che bisogna rassegnare ad essere un quartiere di Napoli”.

Frase chiarissima che sottintendeva alle forte volontà di espandere Roma, la capitale, e Napoli, la città più popolosa d’Italia da secoli ma ormai tendente allo spopolamento, piegata dalle politiche filosettentrionali del Regno d’Italia e schiacciata geograficamente tra le altre quattro province regionali e il mare. E infatti, al censimento del 1931, nonostante l’ingrandimento forzato, la provincia napoletana fece registrare solo un +3,8% di incremento demografico, mentre la sola città si vide storicamente superata da Milano in termini di popolazione residente, nonostante una più alta natalità. L’epocale sorpasso disse 831.781 napoletani e 960.682 milanesi. Da città più popolosa d’Italia a terza in un sol colpo, sopravanzata anche da Roma, a quota 916.858. La perdita del primato demografico, detenuto per secoli, significò per Napoli il tramonto dell’ultima eredità dell’antica capitale e l’insorgere della nostalgia per il ruolo di città più rappresentativa del Paese sottratto nell’immediato periodo post-unitario.

Nel 1934 fu istituita ancora una nuova provincia laziale, quella di Littoria, l’odierna Latina, nata dalle bonifiche delle famigerate paludi pontine, poi divenute agro pontino.

Nel frattempo, i dati evidenziavano il fallimento della propagandistica operazione fascista di ripescaggio dell’antico mito ottocentesco della “Grande Napoli”, poiché quella napoletana non era più un’aerea che attraeva e accoglieva come nel secolo precedente, e l’ingrandimento della sua provincia non era servito affatto ad arginare lo spopolamento nell’area cittadina. E così, a guerra finita, nel 1945, fu costituita la provincia di Caserta, una sorta di ricostituita Terra di Lavoro in versione ridotta, visto che ne restò fuori quello che le era stato tolto per ingrandire il Lazio.

Gaeta, Formia e Minturno, per esempio. E poi le isole di Ponza e Ventotene, facenti parte della provincia di Terra di Lavoro nel 1927 e poi assagnate opportunamente alla provincia di Napoli per ragioni territoriali e antropologiche, prima di essere assegnate nel 1937, tra le proteste, alla provincia di Littoria.

Gli abitanti delle due isole continuavano a sentirsi campani. Ischitani, per la precisione, visti gli usi, i costumi, le tradizioni e il dialetto derivanti dai tanti coloni ischitani tra i campani che nel Settecento erano andati a popolare quelle terre disabitate.
I ponzesi restarono amministrativamente laziali nel 1945, anche se continuavano a svolgere la maggior parte dei loro traffici commerciali con il porto di Napoli e non certo con Latina. Dal 1954 fu stabilito che i collegamenti con il porto partenopeo passassero da due settimanali a uno solo. L’unica corsa settimanale per Napoli fu tenuta fino al 1974, per essere poi definitivamente soppressa, completando l’opera di de-napoletanizzazione amministrativa.

Ponza, come Ventotene, ancora oggi continua ad appartenere culturalmente all’arcipelago delle isole partenopee, nonostante l’alta presenza di turisti romani e laziali in genere. Tutto ciò che Ponza detiene per tradizione è di cultura campana, dialetto compreso, un napoletano certamente un po’ variato nel tempo per effetto dell’isolamento dalla “casa madre”. Lo dimostra Giuseppe Mazzella, figlio di genitori ponzesi emigrati come tanti a New York. Lui, con quel nome e cognome che la dicono lunga, è vissuto negli States fino al 1981, quando si è trasferito a Ponza e ha iniziato a fare l’autista di personaggi famosi. Joe Taxi, questo il suo nome d’arte, produce per sé dell’ottimo vino Biancolella, tipico vitigno ischitano esportato a Ponza, e conosce due lingue: quella statunitense e quella dell’isola delle sue origini. Per il romanissimo Claudio Amendola si tratta di ponzese. Napoletano, appunto.

SOS lingua napoletana

Angelo Forgione Sotto l’egida della Regione Campania, nasce un comitato scientifico per la tutela della “vulnerabile” lingua napoletana. Troppi gli errori su cartelloni pubblicitari, insegne e iniziative commerciali varie elaborate senza conoscenza della lingua napoletana scritta e parlata, come nel caso “infinito” affrontato a La Radiazza di Gianni Simioli con Maurizio De Giovanni e chi scrive.

Lucio Dalla e quella scintilla pugliese che l’ha reso napoletano

Angelo Forgione – «Se ci fosse una puntura intramuscolo con dentro tutto il Napoletano me la farei, anche se costasse duecentomila euro». Parole senza musica di Lucio Dalla, un bolognese purosangue che disse di voler rinascere a Napoli in una seconda vita.
Dalla fu rapito dalla lingua dialettale napoletana, e perciò cambiò il suo modo di comporre musica, tendendo alla lirica. Fu una trasformazione intima ancor prima che artistica, innescata dal dialetto delle isole Tremiti, geograficamente pugliesi ma foneticamente napoletane-ischitane, e poi completata dalla vista del Golfo di Napoli, ammirato dalla stanza di Caruso a Sorrento.
Un piccolo grande particolare storico-geografico che ho rivelato a La Radiazza (Radio Marte), interpellato dopo la telefonata di un radioascoltatore. Ci ha pensato Gianni Simioli a telefonare a una signora tremitese per parlare in napoletano e verificare se a largo del Gargano fosse come parlare con una compaesana. Davvero un bel momento di radio identitaria.