––– scrittore e giornalista, opinionista, storicista, meridionalista, culturalmente unitarista ––– "Baciata da Dio, stuprata dall'uomo. È Napoli, sulla cui vita indago per parlare del mondo."
Angelo Forgione –È un fatto che la vongola sia un chiaro esempio dell’influenza del napoletano nell’italiano corrente. Lo è in quanto termine dialettale partenopeo, derivante dal latino conchŭla, cioè conchiglia, per definire sinteticamente il lupino di mare o anche il mollusco bivalve. Geosinonimo scelto da tutti i linguisti e vocabolaristi premoderni per la lingua Italiana.
Leggendo il Vocabolario napoletano-italiano del 1897 di Raffaele Andreoli si apprende che vongola, figurativamente, era usato anche “per cosa non vera, fandonia”, e pure “per parola oscena, parolaccia”, questo significato affine a quello figurativo di oggi, tempo in cui per “caccià ‘na vongola” si intente dire parola volgare o mal pronunciata.
Dei vermicelli alle vongole ne dà la primissima testimonianza scritta Ippolito Cavalcanti nell’appendice Cucina casereccia in dialetto napoletano del trattato Cucina teorico-pratica del 1837. La ricetta è quella dei Tagliarielli con vongole, accompagnata nella parte italiana dello stesso trattato dalla semplice citazione dei Tagliariell’ e Vongole. Due anni più tardi, nella seconda edizione dell’opera, risulta ben più dettagliata la ricetta dei Tagliarelli e Bongole (in napoletano, per betacismo, la V può diventare B – es. viecchio > biecchio), poi illustrata in italiano nelle edizioni successive (Vermicelli all’aglio con vongole).
Esattamente un piatto napoletano con un dialettismo napoletano, vongola, esteso a tutta la Penisola, dunque. Come la pizza, del resto, termine napoletano già presente nei trattati linguistici partenopei del Cinquecento ed esordiente nei vocabolari di lingua italiana solo nel 1905.
Il Napoli Club Cagliari presenta a Quartu (Cagliari) il libro Napolitiamo. L’appuntamento, con ingresso libero, è in programma sabato 12 luglio, a partire dalle 18.30, nella suggestiva cornice della Sala dell’Affresco dell’ex Convento dei Cappuccini, in via Brigata Sassari 4. L’incontro sarà moderato dal giornalista Diego Palma, direttore del quotidiano online La Voce della Scuola, profondo conoscitore delle tematiche culturali e sociali legate al mondo dell’istruzione e del Mezzogiorno. La serata sarà inoltre impreziosita da interventi musicali a cura del Maestro Gino Mazzullo, che accompagneranno il pubblico in un percorso emozionale tra parole, suoni e identità. Un momento di confronto e riscoperta culturale, nel segno del dialogo tra territori e della promozione delle radici meridionali. Per ulteriori informazioni scrivere a napoliclubcagliari@gmail.com.
Napolitiamo è il mio sesto libro. Di presentazioni ne ho fatte tante, ormai, dal 13 maggio del 2013 a qui. Ma quella di ieri alla libreria Feltrinelli di Chiaia, nel salotto di Napoli, è stata davvero la più bella e coinvolgente. Lo è stata perché la più napoletana che potessi pensare. È stato uno spettacolo, non una presentazione. E la protagonista è stata la lingua napoletana, impronta digitale dei napoletani. L’abbiamo onorata con le riflessioni, le recitazioni e le canzoni; tutto al ritmo del battito di cuore dei presenti, tantissimi, attentissimi, partecipi e compiaciuti. Le lusinghiere parole di Maurizio de Giovanni per il mio lavoro e per questo mio Napolitiamo, da egli definito «opera titanica», ad aggiungere valore alla già significativa e preziosa prefazione e al dibattito su Napoli e il suo logos. La piacevolissima esecuzione delle canzoni classiche di Fabrizio Mandara, vera rivelazione dell’ultima stagione de La Radiazza di Gianni Simioli, e la bravura scenica di Masaniello (Errico Liguori), con tutto il suo travolgente carisma. La gradevole conduzione e presenza di Ilaria La Mura. Napoli, il napoletano e l’identità. Come l’avevo immaginata e scritta, così questa presentazione-spettacolo si è palesata.
4 luglio – Cancello ed Arnone (Caserta) ore 19:00, Villa Comunale “Napoli tra Sport e Cultura” (rassegna “I Colori dell’Estate”)
9 luglio – Napoli ore 18:00, Feltrinelli Chiaia (via santa Caterina a Chiaia, 23) presentazione Napolitiamo (con Maurizio de Giovanni, Fabrizio Mandara ed Errico Liguori in arte Masaniello)
12 luglio – Quartu Sant’Elena (Cagliari) ore 18:00, Sala degli Affreschi dell’Ex Convento dei Cappuccini (via Brigata Sassari, 35) presentazione Napolitiamo
Angelo Forgione –Una vera fatica. È il mio saggio storico-didattico sul napoletano, lingua d’arte di reputazione internazionale, con cui è stata prodotta una vasta tradizione di scrittura colta e sono state espresse alcune forme artistiche di Napoli che nessun’altra città vanta tutte insieme, dalla musica al teatro, dalla poesia al cinema.
Lingua romanza come l’italiano, figlia del latino ma porosa come l’intera cultura partenopea, in cui ne convivono armoniosamente diverse altre. Idioma con una storia legata a specifici fattori politici e culturali che nei secoli hanno esercitato la loro azione in una città che nel periodo della “questione della lingua”, dal Cinquecento all’Ottocento, è stata la più affollata e dinamica d’Italia, con gran divario rispetto al cuore di un volgare, il tosco-fiorentino, che proprio in quei secoli ha fatto più carriera degli altri, divenendo la lingua di tutti gli italiani. La grande Napoli ha lasciato fare la più piccola Firenze, e ha pure contribuito ad avviarne la spinta linguistica. E però si è presa la sua rivincita continuando a “parlare” al mondo con le sue tante espressioni, non solo artistiche, veicolate dal logos territoriale, che della città partenopea definisce la condizione identitaria più che altrove per continuità di tradizione e per livello di utilizzo. Il problema della lingua di Napoli di oggi non sta nel preservarne l’uso orale ma nel proteggerne la scrittura dalla proliferazione di un’ortografia “fai-da-te” con la quale una lingua d’arte, regolata dalla radice latina e modellata dai tanti testi colti scritti nei secoli, viene spostata nel recinto dei semplici dialetti, privandola del suo prestigio letterario. La prefazione di Maurizio de Giovanni rafforza la necessità di porre un argine al pericolo che il napoletano, lingua sotto attacco, sta correndo nel nostro presente. Due guide in un libro, tra storia e didattica. La parte storica racconta, ed è frutto di una rigorosa ricostruzione dell’evoluzione nei secoli dell’idioma partenopeo, anche in relazione all’affermazione della lingua italiana, e quindi del percorso linguistico di Napoli rispetto a Firenze. La parte didattica insegna, ed è un completo prontuario grammatico per l’apprendimento di una ortografia napoletana corretta, a beneficio di coloro che vogliano minimamente padroneggiare la scrittura della bella lingua d’arte con cui Napoli, da secoli, parla al mondo.
Leggiamo. Scopriamo. Impariamo. Napolitiamo! Il presente indicativo della lingua di Napoli.
Applausi alla SSC Napoli per non essere cascata nell’errata narrazione delle origini di Napoli. Chiaro che con la maglia speciale “Partenope” ci si è accodati al (falso) 2500esimo compleanno della città, ma già il nome riconduce alle vere origini di 2800 anni or sono. E quanto consapevole sia la scelta lo dimostra la presentazione della maglia sui social:
“2.500 anni di storia e un’origine ancora più antica“.
Quell’origine più antica, di 300 anni, è esattamente Parthenope.
E in un altro post:
“Il mito ci ha dato un nome. Siamo figli di Partenope: mammà!”
Certo che sì. Siamo “partenopei” prima che, banalmente, “napoletani”.
Angelo Forgione –Non avevo molti dubbi sul fatto che Carlo d’Inghilterra, nel suo discorso alla Camera durante la visita ufficiale a Roma, citasse con grande orgoglio «il sostegno all’unificazione dell’Italia». Si è limitato alla presenza delle navi britanniche (l’Argus e l’Intrepid) a proteggere lo sbarco di Garibaldi a Marsala, approdo non casuale ma luogo designato perché lì vi era una vastissima comunità inglese coinvolta in grandi affari, tra cui la viticoltura. Neanche ne avevo, di dubbi, sul fatto che facesse riferimento all’ottocentesca garibaldimania degli inglesi e il visibilio dei londinesi per la visita del Generale del 1864.
Quella citata dal Re britannico fu la quarta sortita di Garibaldi in Inghilterra, nell’aprile di quell’anno, dopo aver occupato i territori del Sud-Italia e averli consegnati a Vittorio Emanuele II. Più di mezzo milione di persone affollarono le strade percorse dalla sua carrozza (nell’illustrazione la folla a Trafalgar square) tra il più totale giubilo per l’uomo avverso al Papa e alla Chiesa cattolica che aveva spinto all’esilio l’odiato cattolico Borbone, cioè per il rafforzamento dell’egemonia imperiale anglosassone.
Durante la sua permanenza a Londra, il Generale fu accolto, tra gli altri, dal primo ministro Lord Palmerston, suo sobillatore e protettore, nonché Gran Maestro della Massoneria di Rito Scozzese. Il nizzardo l’aveva incontrato nel 1846, ricevendo appoggio per l’impresa garibaldina a difesa dell’indipendenza dell’Uruguay, dove nel 1844 era stato iniziato alla massoneria (a Montevideo), e incoraggiamento e promessa di appoggio per eventuali sollevazioni in Italia.
Nel 1854, l’anno della concessione ai francesi della realizzazione del troppo favorevole al Sud Italia Canale di Suez, aveva pure incontrato “politici e grossi imprenditori” britannici a Tynemouth (Newcastle), nel nord-est dell’Inghilterra, per ottenere armi e munizioni da ricevere segretamente dal protettorato inglese di Malta, prima di intraprendere la campagna per la spedizione al Sud, durante la quale fu protetto dalle navi inglesi, sia nelle acque siciliane che in quelle napoletane. Garibaldi aveva ricevuto anche il danaro per corrompere gli ufficiali borbonici, e la scottante contabilità del suo esercito, affidata a Ippolito Nievo, sparì poi nel misterioso naufragio del piroscafo Ercole a largo di Capri. Del resto, Torino e Londra erano le capitali massoniche di quell’Europa, e Garibaldi fu nominato Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia nel 1862 proprio a Torino, dopo l’invasione del Mezzogiorno.
Prima dell’invasione garibaldina del Sud, Palmerston, in una lettera alla regina Vittoria, aveva scritto:
“Considerando la generale bilancia dei poteri in Europa, uno Stato italiano unito, posto sotto l’influenza della Gran Bretagna ed esposto al ricatto della sua superiorità navale, risulta il miglior adattamento possibile […]. l’Italia non parteggerà mai con la Francia contro di noi, e più forte diventerà questa nazione più sarà in grado di resistere alle imposizioni di qualsiasi Potenza che si dimostrerà ostile al Vostro Regno”.
Vi era da sopprimere uno stato nel Mediterraneo pronto a beneficiare della vicinanza all’istmo da aprire in Egitto; vi era da eliminare il più grande impedimento alla formazione di uno Stato nazionale italiano laico, totalmente depurato dal cattolicesimo; vi era da spazzar via uno stato non solo amico di Pio IX ma pure alleato con il temuto Zar Nicola di Russia; vi era da sopprimere uno stato governato da un re spavaldo e assolutista [Ferdinando II] che faceva di testa sua e se ne infischiava delle pretese di riconoscenza dei britannici per la protezione nel periodo francese, tra il 1799 e il 1815.
Nel corso del viaggio a Londra del 1864, in una delle tappe, quella al Crystal Palace, per rispondere alle dimostrazioni di simpatia, Garibaldi pubblicamente dichiarò:
“Senza l’aiuto di lord Palmerston, Napoli sarebbe ancora sotto i Borbone; senza l’ammiraglio Mundy, io non avrei giammai potuto passare lo stretto di Messina. Se l’Inghilterra si dovesse un giorno trovare in pericolo, l’Italia si batterà per essa”.
E infatti la Marina britannica aveva impedito a quella francese di affondare i garibaldini che attraversavano lo stretto per dirigersi in Calabria.
Quando Garibaldi arrivò a Napoli, il 6 Settembre 1860, una delle due navi della Royal Navy a Marsala, l’Intrepid, era lì, davanti al litorale di Santa Lucia, da dove poteva tenere sotto tiro il Palazzo Reale. Una presenza costante e incombente, sempre rassicurante per Garibaldi, una garanzia per la riuscita dell’impresa dei “più di mille”. l’Intrepid lasciò Napoli il 18 Ottobre 1860 per tornare definitivamente in Inghilterra, dando il cambio all’Hannibal, proprio mentre Garibaldi, “dittatore di Napoli”, donava agli amici britannici un suolo a piacere su cui erigere quella cappella protestante che Londra aveva sempre voluto costruire per gli inglesi di Napoli ma che i fortemente cattolici Borbone non avevano mai consentito di realizzare, pur consentendo le celebrazioni nella legazione britannica di Palazzo Calabritto in piazza della Pace, l’attuale piazza dei Martiri. Il luogo venne designato in via San Pasquale a Chiaia, dove era un maneggio per cavalli di proprietà dell’esercito borbonico, e la cappella della Chiesa anglicana è ancora lì, a testimoniare di un’affermazione londinese sul nemico napoletano e di una riconoscenza tra frammassoni.
Il Generale abbandonò Napoli per Caprera il 9 novembre, dopo aver salutato privatamente l’ammiraglio KodneyMundy sull’Hannibal, ringraziandolo per il decisivo aiuto ricevuto dal regno britannico.
Angelo Forgione –Dal treno olandese si vedono i tulipani che rallegrano l’orizzonte. Dal treno turco si ammira la strabiliante bellezza delle moschee di Istanbul. Sul treno giapponese si mangia Sushi e si chiacchiera amabilmente con Mila e Shiro. Il treno svizzero è talmente puntuale che persino la rigida signora Rottermeier risulta in ritardo alla stazione. E dal treno napoletano – napoletano, non italiano! – mica si vede il meraviglioso panorama del Golfo con il Vesuvio! No, si vede una montagna di spazzatura che sommerge la città.
Questo è quello che insegna ScuolaLab, il portale della scuola Ticinese di Bellinzona, a chi studia l’italiano sui suoi testi “didattici”.
Interpellata dal Corriere del Ticino, (e sì, perché la notizia non è stata evidenziata solo dadiverse testate campane e nazionali), Tiziana Zaninelli, responsabile della Sezione dell’insegnamento medio del Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport del Canton Ticino, dopo l’indignazione montata online, ha porto le rituali scuse e ha informato di aver disposto la rimozione del testo didattico della vergogna.
“Il testo risale a dieci anni fa. Frasi certamente infelici, sfuggite alle correzioni degli esperti e delle esperte di italiano. Ce ne scusiamo. Non vi era alcuna intenzione di denigrare una città italiana, tanto meno da parte dei docenti e delle docenti di italiano, che con il loro insegnamento approfondiscono e valorizzano la nostra lingua. Nel frattempo l’eserciziario è stato tolto dal portale”.
Una scheda vecchia, e non c’era voluto molto a capirlo leggendo la data di pubblicazione dell’eserciziario, ma è stata comunque scritta illo tempore in modo offensivo e inaccettabile, con differenza di trattamento dei popoli, cioè discriminazione; “sfuggendo” al controllo degli esperti linguisti e finendo sotto gli occhi degli studenti per anni senza che nessuno si sia preoccupato di eliminarla, finché qualche fiero napoletano non se n’è accorto e ha protestato.
Una figuraccia ticinese che conferma ancora una volta come la protesta dei napoletani, se fondata, sia sacrosanta. Altro che suscettibilità e vittimismo! Quelli li lasciamo al Codacons e a certi politici italiani che si rizelano per una canzoncina sull’Italia neanche offensiva di un cantante estone, ma tacciono quando a essere davvero vilipesa è la sola Napoli.
Agli amici dell’istruzione ticinese, italiani di Svizzera o svizzeri italiani che dir si voglia, giungano un paio di immagini dei treni napoletani, di quelli panoramici tra mare e vulcano, come suggerimento per riscrivere la scheda e rimuovere dalle teste i loro stantii luoghi comuni.
Angelo Forgione –Carnevale a Napoli non è solo e lasagne, zeppole/graffe e migliaccio ma anche chiacchiere intinte nel sanguinaccio, in quell’antichissima crema speziata di cioccolata preparata con sangue di suino che oggi si replica in altra maniera.
Con l’introduzione del cacao, nel Settecento, i napoletani divennero grandi amanti di cioccolata calda, che batteva per consumo il caffé. Ne venne fuori anche una preparazione del periodo di Carnevale addensata a fuoco lento con il sangue di maiale, tradizionalmente ucciso a gennaio senza che se ne sprecasse nulla. Si iniziava a preparare dal 17 gennaio, giorno di sant’Antonio Abate, figura raffigurata in compagnia di un maiale, animale il cui allevamento era stato recuperato proprio dai monaci antoniani, sfatando il tabù che lo descriveva come animale del demonio e ricavandone svariati prodotti anche medicamentosi per l’uomo, tra cui l’herpes zoster, il cosidetto “fuoco di sant’Antonio”.
Perché il sangue di porco con la cioccolata? Lo scopo era esclusivamente terapeutico, per ovviare alla carenza di ferro in un tempo in cui l’alimentazione non era sempre sufficiente a coprirne il fabbisogno. Nelle campagne napoletane, veniva aromatizzato, rimestato lungamente per evitarne la coagulazione e filtrato, prima di essere unito alla crema di cacao, cotta in pentoloni di rame sulla legna.
Vincenzo Corrado, ne Il Cuoco Galante del 1773, presentò la ricetta Al Sangue di Porco nel capitolo De’ Budin, indicando di mescolare il sangue di maiale “con panna di latte, grasso e cervella di Porco trite, cedro ed aranci canditi triti, cioccolata rapata, spezie, e poco zucchero”, per poi aggiungere “le budella del Porco” e cuocere tutto con “foglie d’alloro, sale, e cannella in stecchi”. Qualcosa di molto più rustico rispetto a quanto illustrato circa settant’anni dopo nell’appendice dialettale Cucina casarinola all’uso nuosto napolitano, una sorta di compendio della gastronomia popolare di Napoli, inserita da Ippolito Cavalcanti nella prima edizione del suo ampio trattato didattico Cucina teorico-pratica: nella ricetta per il Sanguinaccio, scritta in napoletano, l’aristocratico napoletano indicò di mischiare “sanco de puorco” con cioccolata, zucchero, cannella, cedro, cocozzata e mostacciolo pestato, da cuocere con continuo mescolamento fino a stringere “comme si fa la sauza de le pommadore”, e poi conservare “dint’ a le stentina de puorco”, ovvero nelle budella del maiale, per farne insaccato da mettere a bollire in acqua calda prima di servirlo.
Una tradizione di Carnevale che sopravvive al divieto d’uso del poco igienico sangue suino, che nel 1992 ha spinto i pasticceri napoletani a rielaborare la ricetta per tenere in vita la tradizione: solo cacao mescolato con zucchero, latte, farina, cannella, cedro, uvetta e pezzi di cioccolato fondente. Niente retrogusto ferroso del sangue suino per quella che, a ben pensarci, può tranquillamente definirsi “cioccolata alla napoletana”.
Per approfondimenti: Napoli svelata (A. Forgione, 2022)
Angelo Forgione – Celebro l’odierna Giornata Internazionale della Lingua Madre con le ultime parole di Eduardo De Filippo sulla lingua napoletana, sua e mia lingua materna. Le scrisse in merito alla sua ultimissima fatica letteraria, ma fatica autentica: la traduzione in napoletano antico de La tempesta, dramma di primo Seicento di William Shakespeare ispirato al conflitto di fine Quattrocento fra la corona aragonese di Napoli e gli Sforza di Milano. Il grande drammaturgo vi si dedicò un anno prima di andarsene, nell’estate del 1983, nonostante il caldo torrido, i problemi di salute e altri impegni da assolvere. Isabella Quarantotti, sua moglie, gli riportò in italiano il testo inglese, poi tradotto in un napoletano seicentesco ma adattato ai tempi. Egli stesso, in una nota al lavoro, spiegò il taglio scelto per il rivestimento del dramma shakespeariano:
[…] Quanto al linguaggio, come ispirazione ho usato il napoletano seicentesco, ma come può scriverlo un uomo che vive oggi; sarebbe stato innaturale cercare una aderenza completa ad una lingua non usata ormai da secoli. Però… quanto è bello questo napoletano antico, così latino, con le sue parole piane, non tronche, con la sua musicalità, la sua dolcezza, l’eccezionale duttilità e con una possibilità di far vivere fatti e creature magici, misteriosi, che nessuna lingua moderna possiede più. […]
Eduardo elogiò la vicinanza del napoletano al latino, ben più che l’italiano. E qui aggancio le riflessioni di Ferdinando Galiani di un secolo prima, in Del dialetto del 1789:
“Or chi non sente co’ suoi stessi orecchi, che le parole Napoletane chisto e chillo si scostano meno delle Latine iste, e ille, che non se ne scostano le Toscane questi e quegli? […] Chi non vede, che il nostro verbo Napoletano dicere non ha mutazione dal Latino, come lo ha il Toscano dire? […] Faccio, saccio, aggio s’accodano alle latine facio, sapio, habeo assai più, che non le Toscane voci fo, so, ho. Noi diciamo simmo; i Toscani dicono siamo; il Latino è simus. Diciamo tene, vene, convene, accodandoci al Latino tenet, venit, convenit, e non già tiene, viene, conviene. […] Diciamo ditto, astritto &c. come i Latini dictus, strictus, mentre i Toscani dicono detto, stretto &c. Anderemmo all’infinito a voler enumerare tutte le parole noftre, che conservano inflessione più accostante alla Latina. […]”
E davvero il napoletano è la lingua romanza locale che si discosta meno dalla lingua degli antichi Romani, pur avendo generato una propria grammatica distinta, anche da quella dell’italiano stesso. Napoletano figlio del latino ma allo stesso tempo lingua in cui vi convivono armoniosamente i tratti osci, greci, bizantini, longobardi, arabi, germanici, provenzali e francesi, catalani e castigliani, sino ai lasciti anglosassoni. Però… quanto è bello questo napoletano antico. E vediamo di preservarlo.