La parola italiana più diffusa al mondo è napoletana

La parola italiana più diffusa nel mondo? È pizza, pure tra le più diffuse in assoluto. Si tratta esattamente di parola dialettale napoletana, come ci spiega lo scrittore rinascimentale Benedetto Di Falco nel suo Rimario del Falco (vedi immagine) del 1535, riferendoci che il particolare lemma partenopeo, almeno già dal primo Cinquecento, è sinonimo di focaccia:

Focaccia in Napoletano è detta pizza

Pizza è parola oggi comprensibile al mondo, ma in tempi remoti era ignota al di fuori di Napoli come la è, ad esempio, cresuommolo per chi non conosce il dialetto napoletano.

Verosimilmente, pizza è una derivazione di pititia (particella “titi” = tts), di appartenenza allo strato germanico-longobardo, che al plurale (pititie) si ritrova in un documento napoletano di enfiteusi dell’anno 966, la più antica attestazione di tale termine, derivante a sua volta dal greco pita/pitta, trasformata dai barbari. Inutile ricordare che i napoletani sono un popolo di origine greca.

Trentun’anni più tardi, nel 997, si legge la parola pizze in un documento scritto in latino, il Codex Diplomaticus Cajetanus di Gaeta, territorio ducale facente parte della Campania. L’atto ha per oggetto la locazione di un mulino presso il fiume Garigliano e del terreno annesso di proprietà del vescovato a condizione che “[…] ogni anno nel giorno di Natale del Signore, voi e i vostri eredi dovrete corrispondere […] dodici pizze, una spalla di maiale e un rognone, e similmente dodici pizze e un paio di polli nel giorno della Santa Pasqua di Resurrezione”.
Non si tratta certamente di pizze come le intendiamo noi ma di preparazioni ripiene rustiche o dolci, accezione ancora oggi parallela e secondaria a quella più comune (pizza di scarole, etc.), come si evince da quel che scrive Bartolomeo Scappi, cuoco papalino, che nel secondo Cinquecento scrive come preparare torta di diverse materie da Napoletani detta pizza. Lo stesso fa Jacopo Sannazaro, citando la piza cun lo mèle.

È alla fine del Cinquecento che si parla di “mastunicola”, una pizza antesignana di quella dei giorni nostri condita con strutto, pepe, formaggio di pecora e tanta vasinicola, il basilico in napoletano (dal greco vazilikon), che, per storpiatura, dà il nome alla pietanza.

Il filologo Emmanuele Rocco, nel 1858, nel secondo volume dell’opera Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti” diretto da Francesco De Bourcard, conferma che pizza, come parola e come pietanza, è una specificità esclusivamente napoletana:

“La pizza non si trova nel vocabolario della Crusca, perché […] è una specialità dei napoletani, anzi della città di Napoli (…)”.

È ormai la pizza moderna, cioè rossa, condita con il pomodoro, che dall’inizio dell’Ottocento, nella tipicità lunga, è anch’esso una specificità della sola cucina popolare di Napoli. È in questo passaggio che bisogna individuare la vera rivoluzione dei pizzajuoli di Napoli, che in seguito farà scuola nel mondo.

La parola dialettale napoletana pizza e la pietanza partenopea che indica diventano internazionali solo dal dopoguerra in poi, quando i turisti americani, che hanno conosciuto la pizza nel loro paese grazie agli emigranti napoletani e ai soldati yankees inviati a Napoli, la cercano a Roma, a Firenze, a Venezia e un po’ dappertutto, ma non la trovano. La domanda americana crea l’offerta italiana di un prodotto che a Napoli è mangiato da qualche secolo. Si tratta del cosiddetto “pizza effect“, un termine sociologico che indica qualcosa che nasce in un luogo specifico, diventa noto in un’altra nazione che fa conoscere quel qualcosa alla nazione in cui si trova il luogo specifico d’origine.

Al funerale di Giovanbattista

Angelo Forgione Mercoledì, ore 15, chiesa del Gesù Nuovo a Napoli. Giorno, orario e luogo dei funerali di Giovanbattista Cutolo, ventiquattrenne della Napoli che costruisce futuro ucciso brutalmente da un sedicenne della Napoli che il futuro lo distrugge. La madre della vittima ha lanciato un appello ai napoletani:

«Il funerale di Giovanbattista deve essere l’inizio del riscatto di Napoli, deve essere un evento storico. Sia la rinascita della città. Chiedo a tutti i musicisti di parteciparvi. Lo chiedo anche a Osimhen e ai calciatori del Napoli: vi prego, partecipate anche voi. Così in tanti e tanti verranno e la brutta gente della città tornerà nelle saettelle (i tombini, ndr)».

È la città dell’idolatria, Napoli, per i calciatori ma anche, in certi ambienti, per i delinquenti. E allora non stupisca l’appello della signora Daniela, anche se la miglior testimonianza che ogni napoletano che ama Napoli può darle è quella di sentire la necessità di partecipare alle esequie di un ragazzo con cui muore un altra speranza di normalità. Io ci sarò, perché profondamente soffro per certi episodi che colpiscono la città che amo. Giovanbattista potevo essere io, poteva essere chiunque, e perciò invito chi legge ad esserci, potendo.

Non faccio finta di nulla e non lascio Napoli alla delinquenza. Non partecipo neanche al riaperto dibattito sull’eduardiano “fujitevenne ‘a Napule”. Hai voglia a ripetere che Eduardo non si riferì ai napoletani ma ai giovani attori di teatro, ai quali consigliò di andare via perché la politica gli aveva negato il sogno di avere a Napoli un teatro stabile che intendeva affiancare al San Ferdinando, da lui acquistato e restaurato. Anche il maestro di Giovanbattista, fondatore della Nuova Orchestra Scarlatti, si è battuto per creare un’orchestra stabile nell’unica tra le grandi città italiane a non averla, e adesso ha intenzione di smantellare tutto. Lo farà davvero, ora che il ministro Sangiuliano, a tragedia avvenuta, ha deciso di sostenere e rendere stabile l’Orchestra Scarlatti in onore di Giovanbattista?

Diamine, questa è la città della grande Scuola Musicale del Settecento e della grande tradizione musicale di straordinaria eccellenza nel mondo. Vi siete mai chiesti perché la città della Musica, del Real Teatro di San Carlo e del prestigioso Conservatorio di San Pietro a Majella, la capitale della Musica cui il mondo continua a guardare, non riesca a dare un futuro ai suoi musicisti? Vi siete mai chiesti perché una città ricca come poche al mondo di cultura, di arte, di poli museali e di Bellezza non riesca a coinvolgere i giovani? E non sto parlando di quelli che crescono nelle famiglie in odor di malavita e delinquenza.
Il male di Napoli, per Eduardo, non era Napoli ma la politica, quella che non alimenta la vita culturale della città della grande Cultura; quella che ammazza un quattordicenne perché lascia che gli piombi in testa un frammento di fregio della Galleria Umberto I; quella che lascia stagnare la malavita.
Erano gli artisti napoletani a dover andare via per dare compiutezza ai loro sogni, non i napoletani. Giovanbattista Cutolo, invece, voleva restare a Napoli, e la delinquenza di costume l’ha ucciso.

A proposito di delinquenza, era inizio Novecento quando Francesco Saverio Nitti, nella sua pubblicazione “Napoli e la questione meridionale”, analizzava i dati snocciolati da Napoleone Colajanni circa quella del capoluogo campano, allora il più popoloso d’Italia, vessato da una pressione daziaria del Regno d’Italia superiore a quella esercitata su Milano, Torino e Genova. Il gran meridionalista lucano scrisse:

“(…) Non ostante tutte le esagerazioni, la morale popolare è a Napoli più alta che in molte fra le città italiane, più vivo è il senso di pietà. (…) Ancora ciò che è più interessante notare è che, non ostante le condizioni di grande povertà, di depressione crescente, non ostante il disordine della vita pubblica, la delinquenza della città di Napoli è assai minore di quella di molte fra le grandi città italiane. Quale è ora la città più ricca d’Italia? Milano. Quale è ora la città più povera? Napoli. Ebbene a Milano la delinquenza è maggiore che a Napoli. (…) Or dunque la popolazione napoletana non solo non ha i difetti che la comune opinione degli italiani le attribuisce, ma messa in condizioni non solo di sofferenza, ma di tormento, in condizioni che spingerebbero alla delinquenza anche la anime migliori, mostra una mirabile forza di bontà”.

Nitti, insomma, sottolineò che la delinquenza di Napoli, già tagliata fuori dallo sviluppo pilotato nel “triangolo industriale” del Nord, era contenuta dalla buona indole della sua gente. Nulla è stato fatto perché la disoccupazione diminuisse, ed è anzi cresciuta. Così la camorra è diventata ammortizzatore sociale oltre che sacca elettorale, godendo di una certa inestirpabilità. Una domanda bisogna porsela se dopo oltre un secolo e mezzo di Unità, nonostante tre presidenti della repubblica napoletani (Enrico De Nicola, Giovanni Leone e Giorgio Napolitano) e ben sette ministri dell’Interno di origini napoletane e campane (Antonio Gava, Vincenzo Scotti, Nicola Mancino, Antonio Brancaccio, Giorgio Napolitano, Rosa Russo Iervolino e Matteo Piantedosi) dei diciannove succedutisi al Viminale tra il 1988 e il 2023, la camorra continua a imporre la legge dell’illegalità e a zavorrare l’economia della città.

Dopo quanto successo a piazza Municipio, il cantante Geolier, punto di riferimento di chi vede nell’inconsistenza del lusso un valore assoluto, ha lanciato il suo appello ai ragazzi delle realtà difficili:

“Anche io sono cresciuto nel rione, dove parlare in italiano era da scemi e dove andare a scuola era da deboli, ma il mondo non è questo. Io capisco il vostro punto di vista, semplicemente perché era il mio fino a poco tempo fa. Nei quartieri i ragazzi devono cambiare mentalità e scappare da tutto questo male. Voglio dirgli che uscire soltanto per divertirsi con gli amici non è da deboli, che andare a scuola non è da scemi, che portare dei fiori a una tipa che gli piace non è una vergogna”.

Parole che spiegano l’incapacità per certi ragazzi di capire cos’è bene e cos’è male, perché i loro genitori non sono in grado di essere tali; e se non sono già essi stessi esempio pessimo per i figli lo diventano taluni cantanti e determinate fiction. Figli che saranno i genitori di domani, sempre che non si brucino il futuro in cinque minuti di folle spavalderia e becera protervia per strada, così, tanto per affermare la legge del branco. Succede, perché fare il malavitoso è oggi anche fenomeno di costume e stile di vita in certi quartieri non solo periferici in cui per troppo tempo si sono alimentate le risacche di miseria. Non esiste in nessun’altra grande città una commistione tra borghesia e popolo minuto come a Napoli, dove sussistono concentrazioni indigenti proprio nel centro, a ridosso di importanti strade di demarcazione sociale. Rioni storici ma fatiscenti a Santa Lucia, al “rettifilo”, a Toledo, separati da più recenti e decenti costruzioni dirimpettaie, a evidenziare una caratteristica specifica del tessuto urbanistico che riflette quello sociale cittadino: sono un tutt’uno, e vivono gomito a gomito, la Napoli che studia, lavora e vive normalmente, stragrande maggioranza della popolazione, e quella del parassitismo, figlia dell’evasione scolastica e dell’inclinazione all’illegalità, che spesso trova nella delinquenza l’unica nutrizione per le proprie esigenze esistenziali.

Il padre di Giovanbattista Cutolo, regista di teatro e cinema, dice che lascerà Napoli per il dolore di una ferita insanabile. Prima della tragedia si stava dedicando a un docufilm, “Napoli svelata”, esattamente lo stesso titolo che ho dato io al mio ultimo libro. Le sue dovevano essere cinque storie per raccontare l’anima di Napoli senza l’oleografia del male e delle pistole.
È lui a svelare a tutti noi che il povero figlio si chiamava Giovanbattista in tributo a Pergolesi e a Basile. Vallo a spiegare chi erano a chi non conosce la grande storia di Napoli. Anche solo per il rispetto che si deve a questa nobile città stuprata, al funerale di mercoledì bisogna esserci!

Napoli turistica a Ferragosto: dal deserto al pienone

Angelo Forgione — Napoli invincibile, città che sa sempre mettersi alle spalle le sciagure che la travolgono. Oggi piena di turisti anche a Ferragosto, e sembrano così lontane le immagini di una metropoli di fine Novecento che nel giorno dell’assunzione della Vergine diventava più spettrale di quanto non sia apparsa nei tristi giorni del lockdown imposto.

Ancora la città più popolosa d’Italia a inizio Novecento, Napoli, con il suo immenso patrimonio, contendeva a Venezia, Firenze e Roma il primato del turismo nostrano e straniero. Poi, dopo le guerre, sopraggiunse la tivù, e la denigrazione nazionale di matrice positivista dilagò enormemente.
Gran danno all’economia della città lo fece il feroce accanimento mediatico durante il colera del 1973, preciso momento in cui i turisti presero a ignorare quella che fu descritta come una Calcutta d’Europa. Nel 1980 ci si mise pure il terremoto irpino, e poi anche l’apice della recrudescenza della malavita organizzata, con la spietata faida tra Nuova Camorra Organizzata e Nuova Famiglia. Napoli ne escì con le ossa rotte, e se le tenne fino al G7 del 1994, assegnatole per ricostruire l’immagine del Paese e dargliene una diversa da quella proiettata dalla tangentopoli milanese. Ripresero a tornare i turisti, ma le ossa, a Napoli, gliele ruppe di nuovo la crisi dei rifiuti del primo decennio del Duemila. Nessuno avrebbe più scommesso sulla rinascita di Parthenope, e invece neanche la pandemia da Coronavirus è riuscita ad arrestare la rigenerazione di una città che trova sempre in sé le energie per rialzarsi, stavolta passando per l’ottimo lavoro di Gesac a Capodichino, che ha attratto le tante compagnie low-cost sullo scalo partenopeo, e per la florida produzione cinetelevisiva della Film Commission della Regione Campania, per una diversa letteratura/lettura della città e per la cassa di risonanza dei social.

Nel montaggio video, i servizi in onda nei Tgr Campania di due 15 agosto, quello del 1986 e l’ultimo, del 2023. Il primo mostra, con le eloquenti riprese della città vuota, il risultato della proiezione al mondo della Napoli “colerosa, terremotata e camorrista” degli anni Ottanta. Il secondo è quanto la Napoli della cultura, dell’arte e del buon vivere, pur con le sue criticità, è tornata giustamente a riprendersi di forza.

Ora c’è da migliorare i servizi, aumentare l’offerta ricettiva e restituire a cittadini e turisti la risorsa mare negata.

Napoli non muore mai!

Se dici Napoli

Parte la nuova stagione del Napoli, e parte anche “Se dici Napoli“, il nuovo programma televisivo post-partita dei Campione d’Italia (esclusi quelli della domenica sera) per approfondirne risultati e prestazioni. In onda su Otto Channel, Canale 16 in Campania, ma visibile dappertutto in streaming (www.ottochannel.tv/diretta-live) e pagine facebook.
Alla conduzione, Arturo Minervini. In studio, analisi di Angelo Forgione e Maurizio Zaccone. Al touch, per interagire con il pubblico sui social, Eugenia Saporito. Voci partenopee per commentare i risultati e le prestazioni degli Azzurri.
Segui la napoletanità. Quest’anno, “se dici Napoli”… dici Canale 16 del digitale terrestre in Campania.

A16, il presagio dello scudetto

Angelo Forgione — Sembrava la pietra tombale sui sogni dei tifosi del Napoli, e invece l’invito rivolto un anno fa a De Laurentiis affinché vendesse e si dedicasse al Bari si è rivelato un doppio segno del destino. Non solo un presagio dei punti che il Napoli, dopo meno di un anno, avrebbe messo tra sé e la seconda in classifica ma anche il numero degli anni di Serie A di cui avrebbe necessitato il patron azzurro per far trionfare la stella del Sud.
A 16 punti dalla seconda. A come la massima serie, 16 come gli anni in tale categoria per vincere lo scudetto. Non bastò lo stesso tempo al presidente dei primi due storici tricolori, per fare l’impresa, conseguita dopo 18 anni e mezzo in massima serie.

Paragonare due epoche diverse non è mai corretto, ma il bilancio numerico dei primi 16 anni in Serie A di De Laurentiis è superiore a quello dell’analogo periodo di Ferlaino, che nell’ultimo decennio ha sempre avvisato di essere stato un presidente tifoso, non un presidente imprenditore come l’attuale patron azzurro, al quale ha più volte consigliato di spendere di più per vincere il campionato. Le lezioni dell’ingegnere sono finite: De Laurentiis, antipatico o simpatico che sia, ha vinto facendo a modo suo, da autodidatta, spendendo meno di quanto fatto in precedenza, tagliando sensibilmente il monte ingaggi, sistemando il bilancio e valorizzando il patrimonio tecnico.

Il 6 settembre del 2004, Aurelio prese possesso del club più importante del Mezzogiorno d’Italia. Partì dalla Serie C, dopo il fallimento causato da un irrisolto “fuorigiri” della gestione di Ferlaino, iniziato con l’acquisto di Maradona e terminato in un’agonia delle finanze durata più di un decennio, barattata con i trionfi firmati dall’assoluto fuoriclasse argentino.

L’Ingegner Corrado acquistò il Napoli in Serie A, nel gennaio del 1969, e iniziò immediatamente a lavorare per ripianare il disastroso bilancio. Già nell’estate del 1972, col club sull’orlo del fallimento, cedette nientemeno che Zoff e Altafini alla Juventus. Nonostante l’indebolimento, la squadra si piazzò terza nel 1974 e seconda la stagione seguente, quando i sogni tricolori della squadra di Vinicio furono spenti proprio da “core ‘ngrato” Altafini. Risanato il bilancio, la politica di Ferlaino si imperniò sugli acquisti a sensazione (vedi Savoldi) utili ad invogliare i tifosi alla sottoscrizione degli abbonamenti, vera risorsa di quel calcio in cui la bigliettazione rappresentava la grande risorsa del fatturato.
Solo dopo tre lustri, con una Coppa Italia all’attivo, tra pochi bagliori e molte ombre, tra contestazioni alla proprietà, attentati dinamitardi e devastazioni del San Paolo, ci mise l’enorme zampone la politica democristiana, nel pieno post terremoto della speculazione edilizia, della cassintegrazione nelle acciaierie di Bagnoli e della disoccupazione crescente, mettendo insieme i soldi che il Napoli non aveva affinché il giocattolo Maradona fosse “donato” al popolo in ebollizione.

La prima stagione di Maradona in Azzurro, 1984/85, fu esaltante solo nel girone di ritorno e vide il Napoli chiudere all’ottavo posto. Così, con una Coppa Italia e una Coppa di Lega italo-inglese all’attivo, si chiusero i primi 16 anni dell’era Ferlaino. Dopo aver saldato tutte le pendenze e pagato i debiti, don Corrado prese un premio personale nel 1985: il CONI gli conferì la Stella d’Oro al merito sportivo “per l’accortezza impiegata nella gestione finanziaria della società”.

Lì arrivò la virata, foriera di gioie per i tifosi ma suicida per il club. Fu proprio Ferlaino a confessare, qualche anno fa, che Italo Allodi, ingaggiato nell’estate del 1985, gli suggerì di infischiarsene dei bilanci e di pensare a vincere con Maradona. Al diavolo la salute del club, perché i debiti si sarebbero potuti scaricare cedendo la proprietà, magari a qualche folle. Così l’Ingegnere, protetto dalla politica e incoraggiato dal manager veneto, iniziò a far passi più lunghi della gamba.

Vennero gli Scudetti e la Coppa Uefa, ma iniziò la caduta all’inferno. Per trattenere Maradona e consentirgli di vincere, il Napoli spese in ingaggi il trenta per cento in più di quanto incassato. Ma gli sforzi economici, senza una grande holding alle spalle, non tardarono a presentare il conto. Iniziò una crisi che durò oltre un decennio, con continui passaggi della maggioranza a imprenditori incapaci di risollevare il club, uscite e rientri dello stesso Ferlaino, dolorose cessioni eccellenti e la retrocessione in B, dopo 33 anni consecutivi di permanenza in A. Lo stadio e i muri della città urlarono “Ferlaino vattene”.

Il televenditore riminese Giorgio Corbelli e l’imprenditore alberghiero napoletano Salvatore Naldi dovevano essere i folli su cui scaricare la patata bollente dei debiti. Ebbero l’imprudenza di liquidare l’ingegnere, ma a tentare il disperato salvataggio restò solo il secondo, più incosciente del primo, che mollò nellestate 2004 e portò i libri contabili in tribunale.

Il 2 agosto la Società Sportiva Calcio Napoli fu dichiarata fallita, e un mese dopo iniziò l’era De Laurentiis, il controverso imprenditore spaccanapoli, accusato per anni di non voler vincere per preservare un sano equilibrio, quello che tiene lontano lo spettro del dissesto con una ferrea solidità finanziaria coniugata a una costanza rilevante di risultati. E invece la leggenda metropolitana del presidente che non voleva vincere si è fracassata andando a sbattere contro lo scudetto che don Aurelio ha vinto dopo aver portato a casa tre Coppe Italia e una Supercoppa, e perdendo uno scudetto “in albergo” sotto egemonia juventina.
Un tricolore a chiusura del sedicesimo anno di proprietà, senza pregiudicare la salute del club e senza che il Napoli debba rischiare di pagare lo scotto degli sforzi fatti. E, cosa non da poco, imponendo il club come modello italiano di gestione ma anche di bel calcio, dalla grande bellezza di Sarri alla bella grandezza di Spalletti. Senza dimenticare i quattro secondi posti negli ultimi 11 anni per un club che di piazze donore ne aveva colte altre quattro nei precedenti 85 anni di vita. Una continuità di progetto mai verificatasi nella storia del club… A 16 anni anni dal ritorno in A.

Il Cavallo, simbolo ed eccellenza di Napoli (anche nel marchio Ferrari)

Angelo Forgione — Se divulgo storia identitaria di Napoli, del Sud e oltre, è perché lì c’è dell’eccellenza sotterrata da altra storia, da riportare alla luce. E se insisto sull’importanza del cavallo nella storia di Napoli non è per capriccio.
Oggi ci ha pensato il piemontese Guido Crosetto, ministro della Difesa delle Repubblica italiana a fare da sponda importante. Questi, a margine del suo intervento all’Aerospace Power Conference di Roma per i 100 anni dell’Aeronautica Militare, ha accennato alla genesi del cavallino rampante della Ferrari (nel videoclip), dimostrando di aver recepito la grandissima valenza del cavallo in quanto eccellenza di Napoli e del Sud Italia.

“Oggi siamo qua a parlare di futuro — ha detto il Ministro — ma un futuro esiste quando esiste un passato, e noi in questo settore abbiamo un grande passato. Molti di voi collegano l’immagine del cavallino rampante a quello della Ferrari, ma è il cavallino rampante che era sull’aereo di Francesco Baracca. Ma in realtà, se andiamo ancora più indietro, è la rappresentazione di un cavallo di razza Persano allevato dai Borbone, che governavano l’Italia del sud ancora prima che nascesse l’Aeronautica. Questo per ricordare che abbiamo una storia che si intreccia…”.

Intercettate le parole di Crosetto, riporto a corredo alcuni passaggi del mio Napoli svelata, a beneficio di chi vuol saperne di più:

“La tradizione equestre di Napoli fu alimentata enormemente in epoca borbonica, partendo dalla volontà di Carlo di Borbone di ottenere dei cavalli ancor più agili e resistenti, facendo avviare presso la tenuta di caccia di Persano un incrocio tra giumente del Regno di Napoli e veloci stalloni turchi che diede origine, alla metà del Settecento, alla pregiata Razza reale di Persano. Poi incrociata a stalloni spagnoli nella specialissima tenuta di Carditello, dotata da Ferdinando di un apposito ippodromo, divenne razza dei cavalli di Stato, la migliore dell’epoca, di fama internazionale alla fine del secolo.
[…]
Nel 1929 nasceva la Serie A, il torneo a girone unico, e contemporaneamente, con le automobili che sostituivano i cavalli, veniva fondata a Modena la Scuderia Ferrari per la gestione sportiva delle Alfa Romeo da corsa. Tre anni più tardi anche quei bolidi mostrarono in gara uno scudetto con il cavallo rampante su fondo giallo assai somigliante all’emblema della città di Napoli, e un legame c’era. Il pilota Enzo Ferrari aveva ricevuto quello stemma in dono dalla contessa Paolina Biancoli, madre del capitano Francesco Baracca, cavaliere e fuoriclasse dell’aviazione italiana durante la Prima guerra mondiale, defunto in battaglia nel 1918 dopo aver vinto trentaquattro duelli aerei. Sulla fusoliera del suo areoplano, il mitico aviatore romagnolo aveva fatto dipingere un cavallo rampante nero su fondo bianco in onore del suo reggimento di cavalleria, e la madre aveva invitato l’amico Ferrari a mettere quell’effigie sulle sue vetture da corsa, ché gli avrebbe portato fortuna. Suggerimento accolto, sostituendo il bianco di fondo con il giallo canarino per tributare la città di Modena. I puledri montati abilmente da Francesco Baracca erano di Razza reale di Persano; quella specie, ridotta a pochissimi esemplari dal Ministero della Guerra dei Savoia dopo l’Unità d’Italia in quanto simbolo della dinastia napoletana, era stata ripresa opportunisticamente intorno al 1900 dallo stesso ministero, resosi conto del grande errore commesso. Le originali doti di resistenza e agilità della ribattezzata Razza Governativa di Persano erano tornate utili per le esigenze militari ma anche sportive, e avrebbero fruttato medaglie alle Olimpiadi negli anni Sessanta con i fratelli Raimondo e Piero D’Inzeo. Il famoso “cavallino rampante” di Baracca, quello che oggi è il marchio di maggior valore al mondo, potrebbe davvero essere un superbo cavallo “borbonico”, dismesso nuovamente dall’Esercito italiano negli anni Novanta e salvato ancora dall’estinzione dall’appassionato principe siciliano Alduino da Ventimiglia di Monforte, che è riuscito ad assicurarne alcuni esemplari all’anch’essa recuperata tenuta casertana di Carditello, dove ancora oggi le stesse scuderie in cui fu selezionata la razza e il bellissimo ippodromo settecentesco, il più grande al mondo all’interno di un complesso reale, consentono la vita in libertà a una specie che rappresenta l’eccellenza napoletana al tempo in cui il cavallo era elemento determinante.”

Ma la tradizione equestre di Napoli risale almeno al Cinquecento, ovvero all’arte dell’Alta Scuola napoletana di Equitazione, fondata da Federico Grisone:

“Una maestria applicata all’insegnamento ma anche all’addestramento del nobilissimo Cavallo Napolitano, preferito a tutte le razze dall’esperto Carlo V e da altri grandi sovrani del tempo per la sua incredibile obbedienza e per la sua meritata fama di gran corsiero da guerra. Frutto di una selezione iniziata nel XIII secolo in territorio campano per ottenere cavalli più eleganti, veloci e leggeri di quelli ben più massicci necessari alla decaduta cavalleria medievale, veniva allevato in tutto il Regno di Napoli, di cui era in qualche modo rappresentativo, e da qui esportato verso il resto d’Italia e d’Europa anche come miglioratore di altre specie, apprezzato dappertutto per superiorità di intelligenza, mitezza, forza, bellezza, eleganza, leggerezza, portamento e andatura”.

Il Cavallo Napolitano era già allora considerato tra i più pregiati al mondo, insieme al turco e al berbero. E i maestri dell’accademia di Equitazione partenopea diffusero in tutta Europa uno straordinario metodo per addestrare i cavalli, quello che oggi è il Dressage, disciplina non più accademica ma sportiva, e olimpica.

Andando ancora più indietro, è nel Duecento che il cavallo diventa simbolo di Napoli, incarnano il popolo napoletano, indomito e scalciante…


per approfondimenti: NAPOLI SVELATA e MADE IN NAPLES


Alfonso Pecoraro Scanio contro Alberto Grandi a tutela della Pizza napoletana

Angelo Forgione  — Chi meglio di Alfonso Pecoraro Scanio potevo allertare per arginare più incisivamente le inneffabili teorie di Alberto Grandi sulla pizza e non solo su quella? L’ex ministro delle politiche agricole, oggi presidente della Fondazione Univerde, è stato il promotore dell’Arte del Piazziuolo napoletano quale patrimonio immateriale dell’umanità Unesco, e ha portato questo prestigioso risultato all’Italia e a Napoli. Era il più indicato per tutelare la pizza napoletana dalle sballate notizie storiche e dalle opinioni del professore mantovano di Scienza dell’alimentazione, alla ribalta con le sue narrazioni sulla storia e sull’evoluzione dei cibi italiani più rappresentativi, per lui riconducibili a origini e influenze americane più che italiane. Grandi, con l’intervista rilasciata al Financial Times, è tornato a far parlare di sé con più vigore dopo la ribalta conquistata lo scorso anno, attirandosi una tempesta di critiche da più fronti, ma pontificando sostanzialmente indisturbato.

Corrado Formigli ha ospitato entrambi a Piazzapulita (La7), e non è mancato un vivace botta e risposta su quanto di più antistorico ha dichiarato Grandi al Corriere della Sera:

«Finché è rimasta a Napoli, la pizza è stata una grandissima schifezza. Ma quando è arrivata a New York si è riempita di prodotti nuovi, in particolare della salsa di pomodoro, diventando la meraviglia che conosciamo oggi. Senza il viaggio degli italiani in America sono convinto che questa specialità sarebbe scomparsa».

Una “schifezza”, la pizza a Napoli, per il professore, finché, a inizio Novecento, non fu nobilitata negli Stati Uniti dal pomodoro. Smentito documentazione alla mano dal sottoscritto a mezzo stampa, in questi giorni come un anno fa, è dunque toccato farlo in tivù ad Alfonso Pecoraro Scanio, ben informato sul periodo storico in cui il pomodoro lungo è finito sulla pizza per la lettura del mio saggio Il Re di Napoli, in cui sono riportate tutte le documentazioni che attestano come la pizza con il pomodoro sia nata a Napoli nella prima metà dell’Ottocento, un secolo prima del periodo indicato dal professor Grandi (il primo Novecento newyorkese).

Lo scrive nel 1835 ne Le Corricolo Alexandre Dumas, probabilmente informato dal suo collaboratore napoletano, Pier Angelo Fiorentino, che il pomodoro è già sulla pizza in quel periodo:

“[…] La pizza è con l’olio, la pizza è con salame, la pizza è al lardo, la pizza è al formaggio, la pizza è al pomodoro, la pizza è con le acciughe. […]”.

Alberto Grandi ha sottolineato che «la salsa al pomodoro non è il pomodoro», facendone una questione di tipologia. Vien da chiedersi per il Nostro, e per Lorenzo Biagiarelli che nel dibattito ne condivideva l’obiezione, cosa finisca sulla pizza, oggi come due secoli fa, se non pomodoro lungo passato. E dunque, bene ha fatto Alfonso Pecoraro Scanio a reclamare con prontezza che i napoletani del primo Ottocento, con il pomodoro lungo, ci facevano banalmente la salsa passata. E mica ci voleva chissà quale scienza per schiacciarlo!

«Non erano degli imbecilli che non sapevano fare la salsa», l’opportuna riflessione dell’ex ministro. «La chiamavano “salsa alla spagnola”», ha replicato Grandi, scambiando la semplice salsa di pomodoro passato con un’altra più elaborata che a Napoli si preparava almeno dal secondo Seicento con pomodoro tondo. Ce ne dà testimonianza Antonio Latini ne Lo scalco alla moderna, overo l’arte di ben disporre i conviti, scritto e pubblicato a Napoli nel 1692, elencando la ricetta della “Salsa di Pomadoro, alla Spagnola”, fatta con pomodori (tondi), cipolle, peperoni, timo, sale, olio e aceto.

Due anni dopo la pubblicazione de Le Corricolo di Dumas, nel 1837, Ippolito Cavalcanti, incluse la ricetta dei “Vermicielli co le pommadore” nell’appendice dialettale Cucina casarinola all’uso nuosto napolitano del suo ampio trattato didattico Cucina teorico-pratica, e scrisse in vernacolo che bisognava far cuocere i pomodori, passarli e poi bollire “chella sauza” dopo aver fatto soffriggere olio e aglio.
Nello stesso trattato, il Cavalcanti elencava la “sauza de pommadore” tra gli ingredienti delle “Molignane a la Parmisciana”, la Parmigiana di melanzane.

Confusione tra salsa di pomodoro semplice ed elaborata, quella di Alberto Grandi, ma in ogni caso, va da sé che la salsa di pomodoro era già nelle conoscenze gastronomiche dei napoletani, e c’era già sulla pizza, come confermano pure i medici Achille Spatuzzi, Luigi Somma ed Errico De Renzi nella ricerca scientifica Sull’alimentazione del popolo minuto in Napoli, pubblicata nel 1863.

Crolla anche con il contributo di Grandi il teorema di Grandi, il quale ha pur sostenuto che la pizza napoletana, senza l’emigrazione in America, sarebbe scomparsa. Nella Napoli di inizio Novecento, mentre il primo napoletano faceva conoscere le pizze a New York (Gennaro Lombardi), si mangiava la pizza con il pomodoro da un secolo, e quella senza da almeno tre.

Le eresie del professore mantovano sono poi sfociate anche nell’argomento Dieta mediterranea:

«Ancel Keys – ha detto Grandi – ha scoperto alla fine della Seconda guerra mondiale che, rispetto agli americani, i napoletani non avevano colesterolo. Per forza, non mangiavano! Ci mancava anche che avessero il colesterolo».

«Forse mangiavano bene», ha ribattuto Pecoraro Scanio, anche in questo caso a giusta ragione.

Per il professore deve evidentemente valere la rappresentazione dei napoletani straccioni, gli unici nei quali poteva imbattersi Ancel Keys quando, nel 1952, si recò a Napoli con la moglie, la biologa Margaret Haney, per studiare l’alimentazione locale e la relativa incidenza sullo stato di salute dei cittadini una volta informato dal collega napoletano Gino Bergami della ridottissima incidenza delle patologie cardiovascolari nel capoluogo campano e dintorni. E invece il fisiologo americano, nei laboratori del Vecchio Policlinico, condusse le ricerche analizzando la salute e le abitudini alimentari dei Vigili del Fuoco e degli impiegati comunali, lavoratori stipendiati che il piatto a tavola lo portavano tranquillamente; e si recò nei mercati rionali per osservare cosa comprassero le massaie napoletane. Lo scienziato americano e la moglie rilevarono il basso consumo di carne e la dieta a base di pasta ricca di carboidrati, di verdure, di olio d’oliva, di pane, di legumi e di pesce, convincendosi che la riduzione dei grassi animali era alla base della buona salute dei napoletani. Al termine dei suoi studi, nei suoi appunti, Keys annotò:

“A Napoli la dieta comune era scarsa di carne e prodotti caseari, la pasta generalmente sostituiva la carne a cena. Nei mercati alimentari scoprii montagne di verdura e le buste della spesa delle donne erano cariche di verdura frondosa. Nello stesso tempo, i campioni di sangue degli uomini sotto controllo medico che noi stavamo visitando presentavano un basso livello di colesterolo. I pazienti con disturbi cardiaci alle coronarie erano rari negli ospedali e i medici locali ci dissero che gli attacchi di cuore alle coronarie non erano molto frequenti. I disturbi cardiaci alle coronarie erano ritenuti essere più comuni nelle classi benestanti dove la dieta era più ricca di carne e prodotti caseari. Mi convinsi che la dieta salutare era un motivo dell’assenza di disturbi cardiaci.
A Napoli trovammo la conferma che Bergami aveva ragione riguardo alla rarità della malattia ischemica coronarica nella popolazione generale, ma in ospedali privati che ricoveravano persone ricche vi erano pazienti con infarto al miocardio. La dieta della popolazione generale era ovviamente molto povera in carne e formaggi, e Margaret trovò livelli di colesterolo sierico molto bassi in numerose centinaia di operai e impiegati presi in esame dal Dott. Flaminio Fidanza, un assistente di Bergami nell’Istituto di Fisiologia. Fui invitato a cena con i membri del Rotary Club. La pasta era condita con sugo di carne e tutti la ricoprivano con formaggio Parmigiano. Un arrosto di carne era il secondo piatto. Il dessert era una scelta di gelato o ricchi dolci. Persuasi alcuni commensali a venire da me per essere esaminati, e Margaret trovò il loro livello di colesterolo molto più alto che negli operai.”

Del resto, prima di essere chiamati “mangiamaccheroni”, i napoletani erano detti i “mangiafoglia”, perché erano i più grandi vegetariani d’Europa da secoli. Già nel Quattrocento abbondavano i vegetali nella cucina della corte aragonese di Napoli, diversamente da quella toscana dei Medici, dove eccedevano carni e selvaggina. Il broccolo era stato lo stereotipo alimentare dei napoletani prima di pizza e spaghetti, che erano cibi popolari nati nelle strade e accessibili anche per i più poveri. Vincenzo Corrado, altra figura di spicco della cultura gastronomica napoletana, scrisse nel secondo Settecento Il cibo pitagorico (Pitagora fu un convinto vegetariano), primo ricettario vegetariano della storia, un elogio al cibo fatto “di tutto ciò che dalla terra si produce” contro la sofisticata e pesante cucina di carne.

Alberto Grandi ha pure avvisato che gli italiani di oggi credono essere antichissima una dieta, la “mediterranea”, che fu invenzione di Ancel Keys. La verità è che la codifica, non invenzione, del fisiologo statunitense, sviluppata nel Cilento, partì dall’alimentazione dei napoletani, e si rifece anche e soprattutto alla loro cucina. Da tempo la gente partenopea seguiva, senza saperlo, una dieta molto prossima a quella che è oggi è considerata la più sana ed equilibrata del pianeta. La dieta napoletana era davvero la madre di quella “mediterranea”. Era, ma non è, perché è stata proprio la penetrazione delle abitudini alimentari americane dagli anni del benessere economico italiano in poi, a seppellire la sana alimentazione del popolo partenopeo. la Dieta mediterranea, globalizzata dall’Unesco, è sempre meno applicata in Italia, dove i potentati del cibo spazzatura impongono i propri stili, soprattutto tra i giovani e le fasce con un basso livello socio-economico. Numerose indagini hanno infatti mostrato un aumento di sovrappeso e obesità, anche in età adolescenziale, e il fenomeno è più diffuso al Sud, proprio lì dove è nata la dieta mediterranea. E meno male che le narrazioni imprecise di Alberto Grandi esaltano esattamente le influenze americane nella cucina italiana tutta.