A Procida per il CompraSud Festival

Appuntamento a Procida2022, sabato 23, per un escursus storico sull’alimentazione napoletana al CompraSud, la kermesse culturale ed enogastronomica di Procida Sud Festival che, partendo dalle eccellenze dell’Italia meridionale, abbraccia i Sud del mondo.

Ore 18, chiesa di Sant’Antonio da Padova, via IV novembre.

#LaCulturaNonIsola

Alberto Grandi: “Sulla pizza ho detto delle sciocchezze”

Angelo Forgione  Rieccoci al professor Alberto Grandi, il docente mantovano di storia dell’alimentazione all’Università di Parma, colui che qualche tempo fa ha sostenuto che la pizza, come la conosciamo oggi (pomodoro e mozzarella), sarebbe nata in America, là dove di fatto la conobbero grazie agli emigranti napoletani.

Ora, in un’intervista data al Corriere della Sera, sostiene che anche le pizzerie sono nate negli USA:

Le pizzerie nacquero in America. Fu là che si cominciò a mangiare la pizza stando seduti. Nel nostro Sud era un cibo di strada”.

Ho contattato Grandi perché davvero non capivo dove poggiassero le sue ricerche e le sue teorie. Gli ho spiegato che la prima pizzeria americana con tavoli e sedie la apre l’emigrante napoletano Gennaro Lombardi nel 1905, 75 anni dopo le prime pizzerie “comode” di Napoli. E se è vero che a Napoli la pizza nasce come cibo di strada cotto nei forni e distribuito dagli ambulanti nel Settecento, è proprio dal primo Ottocento che si diffondono le pizzerie in quanto locali dove mangiare seduti solo la pizza. Presso l’Archivio di Stato di Napoli è consultabile l’Elenco dei pizzajoli con bottega del 1807, testimoniante il fatto che almeno dal principio dell’Ottocento chi preparava le pizze non riforniva solamente i venditori ambulanti ma le vendeva in proprio in un suo esercizio, anche se magari non disponeva ancora di tavoli e stoviglie. Di pizzerie come quelle di oggi ce ne dà testimonianza nientepopodimeno che Francesco De Sanctis nelle sue memorie di giovinezza:

“La sera s’andava talora a mangiare la pizza in certe stanze al largo della Carità.”

Scrisse di avere sedici anni, il grande letterato e politico campano, quando andava in quella pizzeria tra le prime con i compagni, ed era quindi il 1833, non a caso l’anno in cui al largo della Carità, oggi Piazza Salvo D’acquisto, Antonio La Vecchia aprì “Le stanze di Piazza Carità”, oggi ancora operanti sotto l’insegna Mattozzi.

La pizzeria Port’Alba era già dotata di sedute dal 1830. E tantissime furono le pizzerie con tavoli, sedie e stoviglie che operavano a Napoli ben prima del 1905, anno dell’apertura a New York della prima pizzeria, quella di Gennaro Lombardi, che replicò lì la pizza con pomodoro e mozzarella, sostituita con il formaggio locale. Che poi, come ho già detto, pizze e pizzerie si siano diffuse nel resto d’Italia solo dopo la Seconda guerra mondiale non significa che i primi a mangiare la pizza comodamente seduti siano stati gli americani. Loro l’hanno fatto prima degli italiani, vero, ma dopo i napoletani, che gli fecero conoscere pizze e pizzerie a casa loro.

Il professor Grandi, che almeno non è tra quelli che credono alla leggenda dell’invenzione della pizza “margherita” posticipata al 1889, vivaddio, ha correttamente ammesso di aver rilasciato dichiarazioni errate sull’argomento, di cui si è detto non troppo esperto e di averlo tenuto ai margini dei suoi scritti rispetto a tante altre trattazioni. Si è anche detto “illuminato” dalla citazione delle memorie giovanili di Francesco De Sanctis che gli ho sottoposto, da cui ha preso certezza che le pizzerie con tavoli e sedie esistevano a Napoli almeno ottant’anni prima di quelle americane, insieme ad altre nozioni sulla storia della pizza, da Napoli a New York, fino alla conquista del mondo.

Quello che intendeva evidenziare – mi ha detto – è l’importante ruolo che hanno rivestito gli Stati Uniti nel rendere globale la pizza, ovvero la triangolazione Napoli-USA-Italia e il cosiddetto “pizza effect“, il fenomeno sociologico per cui un elemento della cultura di un particolare popolo viene conosciuto e diffuso maggiormente in un’altra nazione, e successivamente reimportato nella nazione del popolo che l’ha creato. Così la pietanza, partendo da Napoli con gli emigranti a inizio Novecento, è stata conosciuta prima negli States e poi nel resto d’Italia, fino a conquistare l’Europa e il mondo.

Nella cordiale chiacchierata abbiamo parlato anche di origini abruzzesi-napolitane dell’Amatriciana e d’altro ancora. Mi ha infine invitato con cordialità a raccontare la vera storia della pizza in uno dei suoi prossimi podcast su Spotify, così tanto ascoltati da generare interesse sulle sue stravolgenti affermazioni circa le origini delle più note pietanze italiane tra giornalisti e food-blogger.

Restano alcune inesattezze riportate su Il Corriere della Sera e su Il Fatto Quotidiano, dal Grandi onestamente riconosciute. Inesattezze che tanto fanno presa sui media nazionali perché la cucina italiana fa parte della nostra identità, nazionale e locale, e rappresenta orgoglio per tutti. Ancor di più la pizza, che è il più famoso dei piatti napoletani e poi, grazie agli americani, anche italiano. Quei quotidiani nazionali, da me pure contattati al pari di Alberto Grandi, dovrebbero correttamente proporre la rettifica di chi fa chiarezza con testi e documentazione archivistica, non restando ancorati a quel sensazionalismo utile a richiamare l’attenzione dei lettori con cui si contribuisce a mettere disordine nella storia e a creare disinformazione e diversa ignoranza.

Napoli culla della Dieta mediterranea

Angelo Forgione Pochi sanno che la Dieta Mediterranea, il più suggerito dei modelli nutrizionali, ispirato all’alimentazione di alcuni Paesi del Mediterraneo, nasce nella Napoli del dopoguerra.
In occasione di un convegno internazionale sull’alimentazione mondiale svoltosi a Roma nel 1951, il fisiologo statunitense Ancel Keys apprese da un collega napoletano, Gino Bergami, di una ridottissima incidenza delle patologie cardiovascolari in Campania. Folgorato dalla rivelazione e dagli elementi raccolti, un anno dopo si recò a Napoli con la moglie Margaret Haney, biologa, per osservare l’alimentazione locale e la relativa incidenza sullo stato di salute dei cittadini, conducendo le ricerche nei laboratori del Vecchio Policlinico, sulla scorta degli esperimenti condotti sui Vigili del Fuoco e sugli impiegati comunali. Il basso consumo di carne e le sane abitudini alla pasta ricca di carboidrati, alle verdure, all’olio d’oliva, al pane, ai legumi e al pesce, lo convinsero che la riduzione dei grassi animali era alla base della buona salute dei napoletani. Al termine dei suoi studi, nei suoi appunti annotò:

A Napoli la dieta comune era scarsa di carne e prodotti caseari, la pasta generalmente sostituiva la carne a cena. Nei mercati alimentari scoprii montagne di verdura e le buste della spesa delle donne erano cariche di verdura frondosa. Nello stesso tempo, i campioni di sangue degli uomini sotto controllo medico che noi stavamo visitando presentavano un basso livello di colesterolo. I pazienti con disturbi cardiaci alle coronarie erano rari negli ospedali e i medici locali ci dissero che gli attacchi di cuore alle coronarie non erano molto frequenti. I disturbi cardiaci alle coronarie erano ritenuti essere più comuni nelle classi benestanti dove la dieta era più ricca di carne e prodotti caseari. Mi convinsi che la dieta salutare era un motivo dell’assenza di disturbi cardiaci.

A Napoli trovammo la conferma che Bergami aveva ragione riguardo alla rarità della malattia ischemica coronarica nella popolazione generale, ma in ospedali privati che ricoveravano persone ricche vi erano pazienti con infarto al miocardio. La dieta della popolazione generale era ovviamente molto povera in carne e formaggi, e Margaret trovò livelli di colesterolo sierico molto bassi in numerose centinaia di operai e impiegati presi in esame dal Dott. Flaminio Fidanza, un assistente di Bergami nell’Istituto di Fisiologia. Fui invitato a cena con i membri del Rotary Club. La pasta era condita con sugo di carne e tutti la ricoprivano con formaggio parmigiano. Un arrosto di carne era il secondo piatto. Il dessert era una scelta di gelato o ricchi dolci. Persuasi alcuni commensali a venire da me per essere esaminati, e Margaret trovò il loro livello di colesterolo molto più alto che negli operai.

In fondo, prima di essere i “mangiamaccheroni”, i napoletani erano i “mangiafoglia”, i più grandi vegetariani d’Europa per secoli, e il broccolo era stato il loro stereotipo alimentare prima di pizza e spaghetti.

Il fatto è che i napoletani seguivano da tempo una dieta molto prossima a quella che è oggi è considerata la più sana ed equilibrata del pianeta. Consumavano molta frutta e verdura, divoravano pasta e pizza, e condivano con olio di oliva. La dieta napoletana era la madre di quella “mediterranea”.

La scintilla napoletana fu l’origine di un’ampia indagine ventennale che portò Ancel Keys, insediatosi nella cilentana Pioppi, a sondare le diete di vari paesi con culture e stili di vita differenti, elaborando e codificando il modello nutrizionale dei popoli del Mediterrano quale misura alimentare per prevenire l’infarto, ispirata alle usanze di Italia, Grecia, Spagna e Marocco, osteggiata dai potentati americani e riconosciuta patrimonio culturale immateriale dell’umanità dall’UNESCO nel 2010.

L’apprezzata e salutare tradizione culinaria partenopea ha mantenuto nei secoli tutta la sua qualità e varietà, resa ancor più rinomata dagli studiosi della nutrizione, che si sono precipitati a certificarne la completezza di valori alimentari su base scientifica durante la penetrazione globale dell’alimentazione veloce all’americana, nefasta a tal punto da rendere proprio la Campania la regione più affetta da obesità d’Italia (che è uno dei Paesi europei più affetti da sovrappeso adulto e infantile), a causa di scarso consumo di frutta e verdura e alto di bevande zuccherate o gassate.

Insomma, è necessario tornare a mangiare alla napoletana e respingere lo stile americano per neutralizzare l’influenza negativa del mondo esterno globalizzato che, inquinando il pensiero individuale, omologa e sconvolge la specificità.

Napoletani broccoli e mandolino

Angelo Forgione I napoletani di quattro secoli fa? Famosi per i loro broccoli prima che rivoluzionassero le loro abitudini e quelle altrui col pomodoro e lo diventassero per la loro pizza e per gli spaghetti.
Basta andare nel Seicento e osservare il Gioco di Cuccagna illustrato dall’incisore bolognese Giuseppe Maria Mitelli, in cui si mostravano “le principali prerogative di molte città d’Italia circa le robbe mangiative”, per vedere i miti alimentari del tempo barocco, diversi da quelli di oggi. Non tutti, perché le mortadelle di Bologna, i torroni di Cremona e i cantucci di Pisa, ad esempio, hanno resistito ai secoli. Ma i broccoli dei napoletani, non a caso detti “mangiafoglia” a quel tempo in cui attorno la città insistevano ricchissimi orti, sembrano curiosi assai, come pure le provole di Roma o, in qualche misura, il formaggio di Piacenza, allora più famoso del pure antico Parmigiano Reggiano delle vicine Parma (culatello) e Reggio. E invece tanto curiosi non sono. I tipici broccoli di rape amari, i friarielli, rappresentano il retaggio di quella cucina napoletana barocca, così ribattezzati qualche secolo dopo, una volta finiti in padella per essere scottati con la sugna anziché bolliti. Qualcosa è cambiato, ma non troppo.

abitudini alimentari barocche.jpg

Bonghi nell’Ottocento, oggi Cantone. Napoli fa Milano “capitale morale”

ll presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, Raffaele Cantone, ha ricevuto dalle mani del sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, il Sigillo della Città. «È una soddisfazione per un terrone – ha detto il magistrato napoletano – essere insignito di un’onorificenza della città più importante d’Italia, quella che ha sempre avuto l’idea di essere la capitale morale della Repubblica. Milano si è riappropriata di questo ruolo, mentre Roma sta dimostrando di non avere quegli anticorpi di cui ha bisogno e che tutti auspichiamo possa avere. Il modello Milano messo in campo per l’Expo ha mostrato sinergie che a Roma mancano».
Cantone e Pisapia, dunque, proprio mentre l’Expo di Milano volge al termine, hanno in qualche modo decretato il compimento positivo della missione di pulizia della fase organizzativa dell’esposizione meneghina, dopo il grave danno di immagine generato dalle vicende giudiziarie legate agli appalti. Cantone, il salvatore della moralità di Patria, ha probabilmente evitato che quel danno fosse ancor più grande, ma è impensabile che un paragone con Roma possa bastare per riabilitare Milano e porre fine a un periodo buio esploso con la Tangentopoli di Mani Pulite degli anni Novanta.
Oggi, in concomitanza dell’Expo dell’alimentazione, un napoletano restituisce a Milano il ruolo di “capitale morale del Paese”, 134 anni dopo un altro napoletano che, in occasione di un’altra esposizione milanese, quella industriale del 1881, quella lusinghiera definizione la coniò scrivendola per la prima volta sulle pagine del giornale che dirigeva. Da Ruggero Bonghi a Raffaele Cantone, la storia si ripete, ed è sempre un napoletano a mettere Milano alla guida della Nazione.

La dieta mediterranea ha smarrito casa

alimentazione sana nata a Napoli e codificata al Sud, dove ora cresce l’obesità

Angelo Forgione Anche l’Expo di Milano, con uno spot istituzionale, apre una triste riflessione sulla tradizione alimentare meridionale: La dieta mediterranea, che nasce a Napoli e viene codificata nel Mezzogiorno negli anni Cinquanta, non abita più a casa sua (nel video). Nel mio Made in Naples ho espresso una riflessione sull’argomento, che riporto in sintesi di seguito con qualche passaggio del libro.
Ancel Keys, in un convegno mondiale sull’alimentazione svoltosi a Roma nel 1951, apprese dal collega napoletano Gino Bergami della ridottissima incidenza delle patologie cardiache in Campania. E così studiò l’alimentazione dei napoletani, ricca di carboidrati, verdure, olio di oliva, pane, legumi e pesce, convincendosi con le sue ricerche nei laboratori del Vecchio Policlinico di Napoli che la riduzione dei grassi animali era alla base della buona salute della popolazione locale.

“A Napoli la dieta comune era scarsa di carne e prodotti caseari, la pasta generalmente sostituiva la carne a cena. Nei mercati alimentari scoprii montagne di verdura e le buste della spesa delle donne erano cariche di verdura frondosa. Nello stesso tempo, i campioni di sangue degli uomini sotto controllo medico che noi stavamo visitando presentavano un basso livello di colesterolo. I pazienti con disturbi cardiaci alle coronarie erano rari negli ospedali e i medici locali ci dissero che gli attacchi di cuore alle coronarie non erano molto frequenti. I disturbi cardiaci alle coronarie erano ritenuti essere più comuni nelle classi benestanti dove la dieta era più ricca di carne e prodotti caseari. Mi convinsi che la dieta salutare era un motivo dell’assenza di disturbi cardiaci.”

Keys girò per il Meridione, trovando ulteriori spunti di ricerca nella località calabrese di Nicotera e in quella cilentana di Pioppi, e giunse alla codifica delle diete di vari Paesi con culture e stili di vita differenti, codificando il modello nutrizionale della dieta mediterranea quale misura alimentare per prevenire l’infarto, ispirata alle usanze di Italia, Grecia, Spagna e Marocco, riconosciuta patrimonio culturale immateriale dell’umanità dall’UNESCO nel 2010.
Tutto questo, descritto in maniera più chiara e completa in Made in Naples, mi ha condotto ad una riflessione nella trattazione della “denapoletanizzazione” da arginare.

[…] Così Napoli si è fatta, più di ogni altro luogo, cuore di una riflessione che riguarda le metropoli più antiche del mondo che hanno smarrito il loro orientamento. Il suo limite, il più devastante, autentico dramma sociale della miseria, è identico a quello del 1750, quando Antonio Genovesi e Bartolomeo Intieri individuarono nella carente formazione intellettuale il freno di un popolo dalle grandi potenzialità. È l’ignoranza diffusa la vera inibizione della Napoli del Duemila, figlia della dispersione scolastica che tocca percentuali inaccettabili. A questa si associa l’influenza negativa del mondo esterno globalizzato che, inquinando il pensiero individuale, omologa e sconvolge la specificità. Il popolo che nel 1951 stupì Ancel Keys per la sua alimentazione, presa a modello per la formulazione della dieta mediterranea, è oggi il più affetto da obesità d’Italia.

Purtroppo la dieta mediterranea, globalizzata dall’Unesco, è sempre meno seguita in Italia, dove i potentati del cibo spazzatura impongono i propri stili, soprattutto tra i giovani e le fasce con un basso livello socio-economico. Numerose indagini hanno infatti mostrato un aumento di sovrappeso e obesità e il fenomeno è più diffuso al Sud, particolarmente in Abruzzo, Molise, Campania, Puglia e Basilicata, ovvero lì dove è nata la dieta mediterranea.