Il Re di Napoli al ‘Mattin8’

rdn_coverLa curiosità è un motore che mi tiene acceso, e che accende anche gli altri quando sentono l’identità parlare servendosi di me. Quando parlo di ciò che scopro e imparo vorrei che tutti ne sapessero. Non deve restare a me.
Le riflessioni dell’ottimo Salvatore Calise, conduttore del Mattin8 (Canale 8), in una piacevole discussione che non è semplice copertura di un palinsesto televisivo, sono di quelle che mi fanno capire che sono un folle, sì, ma anche che la follia può essere contagiosa.

Storia del pomodoro e della sua diffusione nel mondo

Angelo Forgione Il pomodoro è uno degli alimenti-ingredienti più conosciuti nel mondo, grazie alla sua versatilità e alla capacità di associarsi a numerosi altri generi commestibili e a una grande varietà di erbe aromatiche. Ma per arrivare a questa diffusione ci sono voluti secoli e processi storici tra l’America del Sud, l’Europa occidentale e il Sud dell’Italia, che però non sono del tutto chiari ai più. Qual è la prima zona americana d’origine? Chi l’ha portato nel Vecchio Continente? Come si è diffuso? Domande apparentemente facili, alle quali si associano risposte spesso grossolane.

Il pomodoro è un frutto nativo del Sudamerica, della costa occidentale tra Ecuador, Perù e Cile, poi diffusosi in America centrale. Gli Aztechi lo chiamavano xitomatl, mentre il termine tomatl indicava i frutti in genere sugosi. La salsa di xitomatl divenne parte integrante dell’antichissima cucina azteca.

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zona nativa del pormodoro

El xitomatl azteco aveva due colorazioni: o rosso o tra il verde e il giallo. La data del suo arrivo in Europa è il 1540, e non per mano di Cristoforo Colombo, come molti pensano. Nei prodotti che il navigatore italiano presentò ai regnanti di Spagna, secondo la testimonianza di Lopez de Gomora, il pomodoro non figurò. Il vero “corriere” fu lo spagnolo Hernán Cortés, conquistatore del Messico nel 1519, che rientrò in patria e portò con se anche un carico di xitomatl aztechi.

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Hernán Cortés

Per gli spagnoli, la novità delle terre messicane divenne el tomate, ma non fu troppo apprezzata. Confusa con una variante di melanzana, altra introduzione del periodo, venne considerata un cibo dannoso e di poco nutrimento dai medici del ‘500 e del ‘600 e addirittura velenoso nella credenza popolare, sicché, nell’Europa barocca, restò confinato a lungo negli orti botanici e, come pianta ornamentale, nei giardini principeschi.
Il pomodoro giunse in Italia da Siviglia, centro principale di scambio internazionale coi possedimenti spagnoli, e fu proprio la varietà giallastra a dargli il nome italiano. Il medico toscano Pietro Andrea Mattioli, nella prima edizione del suo commento a Dioscoride (1574), parlò di sola qualità gialla. Di qui il termine da lui usato “mela aurea” o “pomi d’oro”, con riferimento alle mele d’oro che crescevano da un albero del leggendario Giardino delle Esperidi.

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un “pomo d’oro”

Nella seconda versione dello scritto del Mattioli, dieci anni più tardi, fu contemplata anche la qualità rossa: «in alcune piante rosse come sangue, in altre di color giallo d’oro».
Il medico umbro Castor Durante, nel suo Herbario nuovo (1585), scrisse delle specie gialle e rosse, e pur sapendo che “i pomi d’oro mangiansi nel medesimo modo che le melanzane con pepe, sale e olio”, aggiunse che “danno poco o cattivo nutrimento”.
S
olo più tardi, trovando condizioni climatiche favorevoli nel Sud Italia, più simili a quelle del Sud America, se ne diffuse la coltivazione. La prima significativa presenza in un ricettario fu firmata dal cuoco marchigiano Antonio Latini, scalco (capocuoco) al servizio del reggente spagnolo del viceregno di Napoli Esteban Carillo y Salsedo. Nel suo Scalco alla moderna, o vero l’arte di ben disporre i conviti, pubblicato a Napoli in due parti, tra il 1692 e il 1694, comparve una salsa di pomodoro “alla spagnuola”, fatta con cipolle, timo, sale, olio, aceto, peperoncino e pomodoro:

Piglierai una mezza dozzina di pomadore, che sieno mature; le porrai sopra le brage, a brustolare, e dopò che saranno abbruscate, gli leverai la scorza diligentemente, e le triterai minutamente con il coltello, e v’aggiungerai cipolle tritate minute, a discrezione, peparolo [peperoncino] pure tritato minuto, serpollo in poca quantità, e mescolando ogni cosa insieme, l’accommoderai con un po’ di sale, oglio e aceto, che sarà una salsa molto gustosa, per bollito, ò per altro.

Grande impulso all’uso del pomodoro venne sempre da Napoli, nel secondo Settecento, sotto il regno indipendente di Ferdinando di Borbone e nel segno dell’incredibile rivoluzione agricola che fu da questi stimolata attorno alla capitale.

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Ferdinando di Borbone

Nel 1770, l’appena maggiorenne Re, raggiunta la maturità per governare, fu omaggiato di simbolici e preziosi doni dal viceré del Perù. Quel territorio era a quel tempo una colonia borbonica di Spagna, governata da Manuel de Amat, militare catalano che aveva partecipato nel 1734 alla liberazione di Napoli dagli austriaci nelle file dell’esercito di Carlo di Borbone, padre di Ferdinando e Re di Spagna da undici anni. Si trattò di un gesto di cordialità tra territori lontani, ma riconducibili a legami fortissimi.

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Manuel de Amat

Tra i vari doni vi erano anche dei semi di tomate, che Ferdinando, ben consigliato, fece piantare nelle terre tra Napoli e Salerno, dove la fertilità del terreno vulcanico e il clima adatto produssero nel tempo, con varie azioni di selezione, la saporitissima varietà San Marzano.

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Pomodoro San Marzano DOP

A Napoli si diffuse anche l’uso della pasta, che ampliò l’offerta alimentare e garantì un prodotto di più lento deperimento rispetto alle tantissime verdure di cui facevano uso “i mangiafoglia” – così erano detti i napoletani, il cui piatto tradizionale era la minestra maritata – ma che non bastavano più a soddisfare l’esigenza di un popolo che cresceva enormemente in una città tra le più affollate d’Europa, insieme a Londra e Parigi. I napoletani divennero per tutti “i mangiamaccheroni”, ma il condimento non era il pomodoro, bensì, secondo la prima tradizione, con formaggio e spezie. Goethe, nel 1787 a Napoli, scrisse proprio di aver visto mangiare gustosi maccheroni in bianco con solo formaggio grattugiato.

«i maccheroni… si trovano da per tutto e per pochi soldi. Si cuociono per lo più nell’acqua pura, e vi si grattugia sopra del formaggio, che serve a un tempo di grasso e di condimento»

La salsa di pomodoro restò per lungo tempo il complemento di carne e pesce, e il pomodoro, come ingrediente, di minestre e stufati, di carni o di verdure, anche se già nel 1773 il cuoco pugliese Vincenzo Corrado, nel suo trattato culinario Il Cuoco galante, aveva accennato alla preparazione dei pomidoro.

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Il Cuoco Galante di Vincenzo Corrado

Il pomodoro non tardò molto a diventare lo sfondo di ogni sviluppo in cucina, a cambiare la pasta e anche la pizza, da bianca a rossa, colorandola come la conosciamo oggi. Va evidenziato che dal 1734 era già famosa a Napoli la ‘marinara’, ma diversa da quella attuale: acciughe, capperi, origano, olive nere di Gaeta e olio. Tutto cambiò nella prima metà dell’Ottocento, quando il pomodoro napoletano lungo fece irruzione in ogni parte del Regno. Ad esempio, venne aggiunto alla gricia, un guazzetto fatto coi pezzi di pecorino, pepe nero, guanciale e strutto che mettevano insieme i pastori abruzzesi di Amatrice, nella provincia dell’Abruzzo Ulteriore II del Regno. Nacque così la salsa all’Amatriciana, che si prese ad abbinare agli spaghetti napoletani (non ai bucatini; ndr), come da ricetta ancora in uso.
Nel 1839 fu stampato il trattato di Cucina teorico-pratica di Ippolito Cavalcanti, nella cui appendice Cucina casareccia in dialetto napoletano si lesse la prima ricetta dei viermicielli co le pommadoro, ma anche di “sugo di stufato” sui maccheroni, in seguito definito “brodo rosso”, e ancora “sugo di carne ovvero brodo di ragù, terminologia napoletanizzata della parola francese ragoût (risvegliare il gusto, l’appetito) per descrivere la celebre salsa partenopea che iniziò ad arricchire il sapore della pasta.

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Cucina Teorico-Pratica di Ippolito Cavalcanti

La tradizione di condire con sugo di pomodoro la pasta si era ormai costituita, ma non era ancora prevalente. A metà Ottocento, i calendari napoletani indicavano le paste con sugo di anguilla, con le vongole, con sugo di carne o di pesce, e la stessa pizza tricolore, che si preparava ben prima dell’omaggio fatto alla regina Margherita di Savoia, era una sporadica opzione estiva.
Dopo l’Unità d’Italia, il piemontese Francesco Cirio, che aveva aperto la strada della conservazione degli alimenti, non perse l’occasione per recuperare vaste aree agricole abbandonate dai contadini meridionali, e aprì alcuni stabilimenti nei dintorni di Napoli, impegnandosi personalmente nel recupero della produzione nelle campagne vesuviane. Nacque così, nel 1875, il mito dei pomodori pelati Cirio.

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Francesco Cirio

Il Primo Ministro Agostino Depretis, socio di Cirio, favorì tra mille polemiche la “legge Cirio”, in sostanza un contratto agevolato anti-concorrenza con la Società Ferrovie Alta Italia per la spedizione di migliaia di vagoni di alimenti all’estero a tariffe di gran favore.

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immagine pubblicitaria dei pomodori in scatola Cirio

Iniziò così l’esportazione in Europa e poi nel mondo delle conserve di pomodoro San Marzano. Da Napoli, attraverso l’inaugurazione dell’export, le immagini pubblicitarie e gli scritti che decantavano la bontà del massiccio uso partenopeo del pomodoro, partì la diffusione delle colture, che oggi, nelle varie tipologie, producono in quantità massicce un po’ ovunque, a partire da Cina, Stati Uniti, India, Turchia, Egitto e Marocco. L’Italia è dietro, ma primeggia per qualità e sapore di diverse tipologie. Provino gli altri a eguagliare il sapore di uno spaghetto al pomodorino “piennolo” DOP del Vesuvio.

un articolo che celebra il matrimonio tra gli aztechi e i napoletani

Un parmigiano a Caserta: «i campani sono legati all’età borbonica»

tatuaggio_giglioDa Parma a Caserta. È la storia di Carlo di Borbone, ma da qualche mese anche quella di Pier Maria Saccani, parmigiano, dallo scorso gennaio alla guida del Consorzio di Tutela della Mozzarella di Bufala Campana dop, ospite a Tagadà (La7) nella puntata dell’11 marzo (insieme al direttore della Reggia di Caserta Mauro Felicori; ndr). La padrona di casa, la napoletana Tiziana Panella, con un passato nella giunta provinciale casertana, gli chiede cosa l’ha colpito di più di Caserta. La risposta è chiara: «L’ospitalità, ma anche il legame col territorio. Ma, soprattutto, la conoscenza che i campani hanno del loro territorio e il grande orgoglio che hanno per la loro storia. Tutti conoscono la storia borbonica, ed è un legame morto forte!».
E se l’identità ha resistito a un secolo e mezzo di oblio storico…

La mozzarella di bufala fa bene alla salute

Angelo Forgione – La mozzarella di bufala campana è antiossidante, è altamente digeribile e contiene poco sale. Questo il responso di tre ricerche distinte presentate durante un convegno organizzato dal “Consorzio per la tutela del formaggio mozzarella di bufala campana Dop”.
Uno studio condotto dal professor Ettore Novellino, docente di Chimica farmaceutica e tossicologia presso l’Università “Federico II” di Napoli, ha dimostrato che, durante il processo digestivo, la mozzarella di bufala favorisce lo sviluppo di alcuni peptidi che, agendo sulle cellule intestinali, svolgono un’azione antiossidante.
Il professor Vito Corleto, docente di Gastroenterologia a “La Sapienza” di Roma, ha dimostrato invece che la mozzarella di bufala è facilmente digeribile. L’alimento, infatti, ha un contenuto di lattosio inferiore a quello presente nei prodotti ad alta digeribilità.
Infine, il professor Germano Mucchetti, docente di Scienze e tecnologie alimentari presso l’Università di Parma, ha rilevato che il latticino ha un limitato contenuto di sale.
Niente male per un prodotto talvolta sotto attacco e spesso nell’occhio del ciclone per le numerose sofisticazioni che subisce, ma che è comunque garantito dal marchio a dalla denominazione di origine (Dop). Se non è stampato sulla confezione, meglio lasciar perdere.

PM Donato Ceglie: «è in atto la terza guerra contro il Sud»

«dopo i fusti tossici e l’emergenza rifiuti, ora i prodotti meridionali sotto attacco»

Il sostituto procuratore generale della Repubblica Donato Ceglie, ovvero il magistrato che ha indagato sui fusti tossici del Nord intombati in Campania, ha lanciato un allarme: «è in corso un attacco mediatico ai prodotti campani». In un’intervista al Corriere del Mezzogiorno ha spiegato che, dopo il traffico di fusti tossici dalle regioni del Nord a quelle del Sud e l’emergenza rifiuti, ora è il momento dell’attacco all’economia locale.
«C’è un quantitativo impressionante di video, prime pagine e articoli – racconta Ceglie – che presentano una situazione completamente inquinata. Ma lo fanno dando notizie confuse, opinabili, strumentali. La verità è che il problema non è assolutamente così grave come certi media lo vogliono far sembrare. Basterebbe la copertina dell’Espresso dal titolo Bevi Napoli e poi muori. Vogliono mettere al tappeto il Sud, colpire i suoi due asset strategici: turismo e agroalimentare. Vogliono distruggere la mozzarella e il pomodoro per guadagnare un 6 o 7% di quota di mercato. E attenti, ché l’operazione Pomì è solo la prima di una lunga serie che seguirà. I nemici del Sud stanno facendo propaganda, manipolando le coscienze e le emozioni alla ricerca di un tornaconto personale. Oggi vince chi la spara più grossa. Qui non abbiamo né la potenza di informazione né i mezzi dei nostri nemici. E non abbiamo neppure le loro banche. È per questo che, nonostante la soddisfazione per i controlli positivi sulla mozzarella, continuiamo a vivere l’emergenza dei prodotti comuni. I cittadini vogliono sapere. E l’unico modo per difendersi da quest’attacco è fornire loro informazioni. Il ministro della Salute, quello dell’Ambiente e il governatore della Campania si prendano due mesi, valutino tutto, esaminino i dati. Ma poi, per favore, ci facciano sapere. Solo così ne verremo fuori. L’alternativa è l’apocalisse».
Anche Antonio Lucisano, il direttore del Consorzio per la tutela della Mozzarella dop, forte dei risultati sulla sicurezza dei test in Germania, ha lanciato l’allarme: «A repentaglio il destino di migliaia di lavoratori di un settore, quello agricolo, fatto di eccellenze che tutto il mondo di invidia. I nostri prodotti sono sotto attacco perché gli interessi di altre realtà produttive non sono esattamente i nostri. Gli ettari di terreno interessati dal fenomeno della Terra dei Fuochi sono 840 a fronte di 500mila ettari di superficie agricola coltivata. Una percentuale molto piccola, inferiore all’1%.»

La Mozzarella di Bufala Campana Dop è salva. Viva la Mozzarella!

dal sito del Consorzio Tutela Mozzarella di Bufala Campana – La Mozzarella di Bufala Campana Dop è salva. È stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale di oggi il decreto del ministro delle Politiche agricole, Mario Catania, con cui il Governo ha sostanzialmente recepito le richieste del Consorzio di Tutela, emanando nuove norme di attuazione della legge 205/2008.
Il provvedimento contiene novità fondamentali: per tutti coloro che fanno parte del sistema Dop sarà infatti possibile continuare sempre a produrre nello stesso stabilimento mozzarella Dop e altre tipologie (ricotte e mozzarelle non Dop), ma, come richiesto dal Consorzio di Tutela già 18 mesi fa, si obbligano i produttori ad acquistare esclusivamente latte di bufala proveniente dall’area Dop, per qualunque prodotto intendano realizzare.
“Così il Governo dice sì alla nostra proposta sulla provenienza esclusiva del latte dal territorio della Dop, contenuta nella bozza di modifiche al disciplinare che da un anno e mezzo attende l’approvazione delle istituzioni interessate”, commenta il presidente del Consorzio di Tutela, Domenico Raimondo e aggiunge: “Siamo molto soddisfatti del provvedimento. In questo modo si rafforza il marchio Dop, s’innalza la qualità del prodotto, si assicura la tracciabilità totale e non si costringono i nostri allevatori a morire. Ringraziamo il Governo e il ministro delle Politiche agricole, Mario Catania, per aver compreso appieno il nostro appello”.
Per il direttore del Consorzio di Tutela, Antonio Lucisano, “ora si apre una nuova fase per la Mozzarella di Bufala Campana Dop” e spiega: “Con le nuove regole siamo di fronte a innovativi scenari di produzione e di mercato. Con l’obbligo di utilizzare solo latte di area Dop, il nostro auspicio è ora che tutto il latte Dop possa essere trasformato in mozzarella Dop, con prospettive di crescita, dunque, ancora tutte da esplorare. Sul mercato i consumatori avranno un quadro più semplice e chiaro, potranno scegliere solo tra tre tipi di prodotto: la Mozzarella di Bufala Campana Dop; la mozzarella di bufala non Dop ma realizzata comunque con latte di area Dop dai produttori aderenti al Consorzio; e infine il prodotto non certificato, realizzato da tutti gli altri con latte e semilavorati bufalini qualsiasi, proveniente da ogni dove”.
Le nuove norme sono anche il frutto della mobilitazione lanciata dal Consorzio, dal titolo “Salviamo la Mozzarella di Bufala Campana DOP”, “che ha coinvolto chef, giornalisti, foodies e cittadini, uniti dalla passione per questo prodotto unico”, fa sapere Lucisano: “A ciascuno di loro – conclude – va il nostro grazie di cuore, ci hanno sostenuto e aiutato a produrre ogni sforzo per non far scomparire il più importante marchio Dop del centro-sud Italia. Insieme ce l’abbiamo fatta”.

Leggi il testo integrale del decreto ministeriale

SOS Mozzarella di Bufala DOP, il Consorzio lancia la petizione

Avvelenamento dei terreni agricoli della Campania coi rifiuti tossici, boicottaggio della pizza, attacco alla mozzarella di bufala… di esempi se ne potrebbero fare tanti, ma ognuno ha una testa per pensare e trarre delle conclusioni su un Paese fatto di chi decide per sé e contro gli altri, e chi si comporta da colonizzati. La situazione è ormai insostenibile e occorre darsi una mossa prima che del patrimonio meridionale restino solo le briciole.
Il Consorzio di Tutela della Mozzarella di Bufala DOP ha lanciato una petizione per salvare un tesoro che fa parte della storia e della tradizione gastronomica della Campania dall’offensiva di una legge definita “assurda” (leggi qui). Le firme possono essere apposte su un form (clicca qui).
Lassù sanno che non riusciranno mai a eguagliare la mozzarella bufalina campana, perché le loro bufale non sono particolari e non forniscono un latte superiore come quello degli esemplari mediterranei della Campania. Non si può consentire di lascirgli mollare un altro ceffone storico al Sud. Le chiacchiere dei politici meridionali non bastano più.

servizio tratto da 8NEWS (Canale 8)

Attacco finale alla Mozzarella di Bufala DOP

Angelo Forgione per napoli.com La mozzarella di bufala campana è sotto attacco. Da anni, cioè da quando la grande industria si è accorta del fenomeno commerciale che ha assunto e le multinazionali hanno cominciato a doversi preoccupare della nuova coscienza dei consumatori verso i prodotti artigianali. Il Nord non poteva mettere in competizione le sue vacche con le bufale campane (ma anche bassolaziali e foggiane) che pure Goethe ammirò stupito tra la Real tenuta di Carditello e i templi di Paestum. E così il leghista Luca Zaia, ex ministro delle Politiche agricole, oggi presidente della Regione Veneto, ha iniziato a mettere i bastoni tra le ruote all’economia agricola meridionale, pizza compresa, prima tentando di sciogliere il Consorzio di tutela della Mozzarella di Bufala Campana DOP e poi varando una legge nel 2008 (205), divenuta attuativa il 21 marzo scorso, con la quale si obbligano i caseifici a preparare il prodotto in laboratori dedicati e specializzati, separati da quelli per i formaggi, pena la perdita del marchio DOP. In sostanza, si chiede ai casari di raddoppiare l’investimento, costruendo un secondo opificio. È come dire a un’azienda dolciaria del Nord di creare due stabilimenti, uno in cui produrre il panettone e un altro per il pandoro. Follia!
Tutto questo è avvenuto nel perfetto silenzio dei politici campani e meridionali, incapaci di fronteggiare l’insidia-trabocchetto che ora obbligherà i produttori a scegliere cosa fare dal 30 Giugno in poi. O i formaggi o la mozzarella DOP. Tantissimi sceglieranno i primi per non buttare il latte in eccesso. A rischio un comparto alimentare da 500 milioni di fatturato annuo e un marchio d’eccellenza. Il Sud assisterà ancora una volta senza far nulla? Per il momento, i 110 soci del Consorzio hanno proclamato uno stato di agitazione e scritto una lettera accorata all’attuale ministero delle Politiche agricole Mario Catania. Il prossimo 3 aprile si terrà un summit al palazzo della Regione a Santa Lucia. E già si ipotizza un ricorso al Tar o, addirittura, alla Consulta, invocando profili di incostituzionalità di una legge contraria ai principi di libera concorrenza.
Riuscirà la mozzarella di bufala campana DOP a resistere? Già nel Ventennio sopravvisse al primo grande attacco, andando incontro ad un forte declino che rischiò di far scomparire il prodotto. Le bonifiche delle paludi effettuate nel periodo fascista fecero felici gli agricoltori, che beneficiarono dei terreni prima destinati al pascolo. Gli allevamenti bufalini rischiarono l’estinzione, ma il radicamento della tradizione consentì una ripresa lenta ma costante. Anche grazie alle bufale, che si abituarono al nuovo habitat, ben diverso da quello palustre di un tempo, scongiurando la scomparsa di un prodotto tipico ormai prezioso. Stavolta le bufale potranno fare ben poco. Dipenderà solo dai politici. Signore e Signori, questa è l’Italia unita.

La mozzarella di bufala dop sottratta alla camorra

La mozzarella di bufala dop sottratta alla camorra

da oggi necessari certificato antimafia e latte di allevamenti dop

La mozzarella di bufala campana è un vanto tutto campano, da Mondragone a Battipaglia; una di quelle leccornìe irrinunciabili, simbolo di tradizione e cultura millenaria di origini normanne anche se il vero grande impulso produttivo è di epoca settecentesca.
Da oggi più sicura visto che il Consorzio di tutela della mozzarella di bufala campana dop, nell’assemblea annuale svoltasi per la prima volta in un bene confiscato alla camorra a Castel Volturno (Caserta), ha stabilito che per produrla occorreranno due requisiti fondamentali: l’obbligo di presentare ogni anno il certificato camerale antimafia e l’utilizzo di latte proveniente da allevamenti dop. Occhio al bollino dunque; da oggi la mozzarella sigillata col marchio del consorzio assicurerà non solo che si tratta di un prodotto di altissima qualità ma che non è frutto del riciclaggio della camorra.