Spaghetti alle vongole, da Napoli all’Italia

Angelo Forgione – È un fatto che la vongola sia un chiaro esempio dell’influenza del napoletano nell’italiano corrente. Lo è in quanto termine dialettale partenopeo, derivante dal latino conchŭla, cioè conchiglia, per definire sinteticamente il lupino di mare o anche il mollusco bivalve. Geosinonimo scelto da tutti i linguisti e vocabolaristi premoderni per la lingua Italiana.

Leggendo il Vocabolario napoletano-italiano del 1897 di Raffaele Andreoli si apprende che vongola, figurativamente, era usato anche “per cosa non vera, fandonia”, e pure “per parola oscena, parolaccia”, questo significato affine a quello figurativo di oggi, tempo in cui per “caccià ‘na vongola” si intente dire parola volgare o mal pronunciata.

Dei vermicelli alle vongole ne dà la primissima testimonianza scritta Ippolito Cavalcanti nell’appendice Cucina casereccia in dialetto napoletano del trattato Cucina teorico-pratica del 1837. La ricetta è quella dei Tagliarielli con vongole, accompagnata nella parte italiana dello stesso trattato dalla semplice citazione dei Tagliariell’ e Vongole. Due anni più tardi, nella seconda edizione dell’opera, risulta ben più dettagliata la ricetta dei Tagliarelli e Bongole (in napoletano, per betacismo, la V può diventare B – es. viecchio > biecchio), poi illustrata in italiano nelle edizioni successive (Vermicelli all’aglio con vongole).

Esattamente un piatto napoletano con un dialettismo napoletano, vongola, esteso a tutta la Penisola, dunque. Come la pizza, del resto, termine napoletano già presente nei trattati linguistici partenopei del Cinquecento ed esordiente nei vocabolari di lingua italiana solo nel 1905.

Campania Felix a tavola

Angelo Forgione — La Cucina italiana è la migliore al mondo insieme a quella giapponese. E in testa al Globo svetta la cucina regionale della Campania, davanti a quella dell’Emilia Romagna.
Parola degli awards 2023/24 di TasteAtlas, l’autorevole Atlante del Gusto dedicato alla catalogazione e alla promozione dei prodotti locali, delle ricette tradizionali e dei ristoranti tipici di tutti i continenti.
Italia e Giappone hanno fatto registrare lo stesso punteggio medio, davanti alla Grecia, ma anche quest’anno lo Stivale ha conquistato il primo posto grazie alla valutazione più alta del suo piatto più votato: la pizza!
Ma la Campania non è solo la regione del piatto più diffuso nel mondo, e conquista la corona mondiale battendo la fortissima concorrenza delle altre regioni d’Italia, senza dubbio la nazione con più varietà sul pianeta Terra.

Alle origini oscure della “carbonara”, quasi-romana con radice napoletana (?)

Angelo ForgioneGuanciale, uova, Pecorino e pepe. Sono gli unici ingredienti ammessi dalla ricetta canonica e definitiva della carbonara, tipico piatto italiano nel mondo, che non è sempre stato preparato così. Le sue origini sono assolutamente incerte e totalmente irrintracciabili, e vi ruotano intorno diverse ipotesi e tradizioni.

L’epifania del nome avviene nel 1949 nel film Yvonne la Nuit, in cui Totò interpreta il suo primo ruolo drammatico. Nel corso della pellicola, in una trattoria di Trastevere, un cameriere comanda «coda alla vaccinara per due e spaghetti alla carbonara per tre».
L’epifania della ricetta, invece, avviene nel 1952, non in Italia ma negli Stati Uniti, sulla guida illustrata dei ristoranti di un distretto di Chicago scritta da Patricia Brontè dal titolo Vittles and vice: An extraordinary guide to what’s cooking on Chicago’s Near North Side” Il libro descrive diversi locali tra i quali anche il ristorante “Armando’s” in cui si serve la carbonara. I proprietari, Pietro Lencioni e Armando Lorenzini, sono di origine italiana e dettano la ricetta lasciando anche qualche termine italiano. Gli ingredienti sono quelli che domineranno la preparazione per diversi anni: taglierini all’uovo, uova, pancetta e Parmigiano.

La prima ricetta pubblicata in Italia risale all’agosto del 1954, sulla rivista La Cucina italiana. Tra gli ingredienti sono elencati la pancetta, il Gruviera e l’aglio, oltre alle solite uova e al pepe, e si indica di cuocere gli spaghetti e poi di ripassare tutto in padella fino a che “le uova si saranno un poco rapprese”.

Un anno dopo, la carbonara entra per la prima volta in un ricettario vero e proprio, La signora in cucina di Felix Dessì, e in una versione più simile a quella odierna, con la presenza di uova, pepe, Parmigiano (“ma se si preferisce il piccante, un buon pecorino lo può sostituire”) e pancetta.

Pecorino e Gruviera sono licenze rispetto al Parmigiano, e per molto tempo si lascerà la libertà di scegliere tra pancetta, prosciutto o coppa, mica guanciale, che entrerà tra gli ingredienti solo nel 1960, in una ricetta di Luigi Carnacina, che aggiungerà la panna liquida per rendere più cremosa e avvolgente la preparazione.
Altri ingredienti trovano spazio nelle diverse ricette, come vino, cipolla, prezzemolo, peperone e peperoncino. Insomma, le uniche certezze sono le uova e il pepe.

La definizione della ricetta contemporanea, ormai classica, anche se classica non è mai stata, si concretizza solo negli anni ‘90, quando nessuno la considera una ricetta romana. Livio Jannattoni, un’autorità in materia culinaria, nel suo ricettario La cucina romana e del Lazio del 1991, propone un capitolo di piatti adottati dalla cucina romana il cui titolo non lascia spazio ai fraintendimenti: Spaghetti alla carbonara e altre pastasciutte quasi-romane. Vi inserisce i piatti che “hanno quasi maturato un diritto provvisorio di cittadinanza romano-laziale”.

Acquisito lentamente alla cucina romana, il piatto sostituisce il Parmigiano con il locale Pecorino. Velocemente, guadagna un posto tra i più tipici d’Italia senza avere origini certe, e diviene nel tempo oggetto di discussione sulla sua incertissima genesi. Oggi, la tradizione popolare attribuisce la ricetta alla presenza dei soldati “alleati” angloamericani in Italia, a Roma o forse a Napoli, durante gli ultimi mesi del secondo conflitto mondiale, con le loro “razioni k” fatte di uovo liofilizzato e bacon, sposate alla pasta italiana e al formaggio.

Cosa sia successo prima della comparsa del nome del piatto e poi della sua ricetta è un mistero.
Certamente la carbonara ha come suo antesignano un piatto descritto nel trattato ottocentesco di cucina napoletana Il principe dei cuochi di Francesco Palma. La ricetta, pubblicata nel 1881, è quella dei Maccheroni con cacio ed uova, che indica il condimento della pasta con un mix di uova, formaggio Parmigiano (come da prime ricette del dopoguerra), strutto, sale e pepe, da rapprendere sul fornello con un po’ d’acqua di cottura. Manca il guanciale, o comunque la pancetta delle preparazioni spuntate a metà Novecento, ingrediente suino non tipicamente napoletano ma piuttosto dell’area appenninica abruzzese. Non manca però il grasso animale a dare sapore, lo strutto, che oggi non si usa più ed è surrogato da quello che si ottiene per colatura a caldo del guanciale.

Che sia stato proprio un’aggiunta abruzzese, o comunque appenninica, a completare la ricetta sul retaggio della gricia (guanciale, strutto, formaggio Pecorino amatriciano e pepe)? Non è da escludere, visto che il piatto diventa romano come l’Amatriciana, nata sui monti abruzzesi della Laga aggiungendo alla stessa gricia il pomodoro e la pasta ricevuta da Napoli, del cui regno facevano parte gli amatriciani in tempi preunitari. Questi (abruzzesi fino al 1927, per poi essere assegnati alla nascente provincia laziale di Rieti) si stabilirono a Roma nel secondo Ottocento per vendere i prodotti della loro terra colpita dalla crisi della pastorizia.

Dunque, non è poi così peregrino ipotizzare che la carbonara possa essere nata da una traiettoria culinaria che va da Napoli a Roma, con l’appennino laziale-abruzzese a fare da sponda. Evoluta fino alla versione contemporanea, quella con uova, pepe, Pecorino e guanciale che a cambiarla si commettere sacrilegio. Neanche fosse una ricetta plurisecolare.

Il Parmigiano “casertano” dei Borbone

Angelo Forgione  È di Ippolito Cavalcanti, napoletano di Afragola, il primato divulgativo della ricetta della gloriosa Parmigiana di melanzane, altra gloria della cucina napoletana nonostante sulle sue origini vi sia ancora molta confusione. Fu nell’appendice dedicata alla cucina casareccia napoletana della prima edizione della Cucina teorico-pratica, quella del 1837, che spuntò la preparazione delle “Molignane a la Parmisciana”, tradotta in italiano (“Milinsane alla parmigiana”) sette anni dopo nella quarta edizione del trattato, quella del 1844.

Il formaggio Parmigiano, molto usato nei territori borbonici nei dintorni di Napoli, era già ampiamente contemplato nelle ricette napoletane, e a fine Seicento figurava anche tra gli ingredienti della Pastiera. Lo stesso Cavalcanti, nella parte in lingua italiana della sua pubblicazione, fece specifico riferimento al “formaggio pareggiano” per preparare diversi ortaggi “alla Parmeggiana”, un modo di cucinare che faceva riferimento ai territori del Ducato di Parma e Piacenza per le modalità di approntamento: ortaggi affettati, infarinati, fritti, accomodati con Parmigiano e poi cotti. Da questa commistione, nelle cucine di Napoli, nella prima metà dell’Ottocento, nacque la divina Parmigiana di melanzane, preceduta da quella di zucchine.

Del resto, Carlo di Borbone, figlio della parmigiana Elisabetta Farnese, era stato Duca di Parma e Piacenza. Esattamente da quel territorio si era slanciato alla conquista del trono di Napoli. Al Sud, volle continuare ad avere sulla sua tavola il burro e il formaggio Parmigiano, e fece quindi arrivare dai territori di provenienza alcuni esperti casari per avviare la produzione in loco di un Parmigiano “casertano”, tra i primi esempi di imitazione alimentare, se non il primo, anche se a quell’epoca non esisteva la denominazione di origine protetta e il Disciplinare di produzione.

Da quel periodo in poi la produzione di Parmigiano calò sensibilmente in Emilia, a causa di due fattori: le continue guerre nei ducati, con conseguenti requisizioni militari delle campagne, e l’espulsione nel 1768 dal Ducato di Parma dei Gesuiti, che detenevano la produzione del particolare formaggio. Poi, a inizio Ottocento, con l’irruzione del regime napoleonico e le ulteriori requisizioni, la crisi del Parmigiano si acuì drammaticamente. Non se ne trovava quasi più, ma ciò non ostacolò Ferdinando di Borbone, vero stimolatore di un’epocale rivoluzione agricola attorno alla capitale Napoli, nel Casertano e nel Salernitano, da cui originarono, tra le tante eccellenze, la produzione e la conservazione della mozzarella di bufala, quella della pasta di grano duro e la coltivazione del pomodoro lungo. Mentre le popolazioni delle zone settentrionali d’Italia pagavano duramente lo squilibrio nutritivo dato da un massiccio consumo di polenta di sorgo o di mais, priva di vitamine e aminoacidi, e facevano i conti con la terribile pellagra, l’offerta nutritiva napoletana andava ampliandosi per impulso del Re, impegnato anche più del padre a rendere Napoli territorio non solo di consumo ma anche di produzione, attraverso la valorizzazione produttiva di una rete di aziende agricole che andavano creando la matrice per quelle che oggi sono considerate a pieno titolo eccellenze alimentari del territorio campano e anche italiano.

L’irreperibilità del formaggio emiliano, così utile alla cucina borbonica, non fu un insormontabile problema per i cuochi napoletani, dacché Ferdinando implementò la produzione del Parmigiano “casertano” presso la Real Tenuta di Carditello.

Jakob Philipp Hackert, il pittore tedesco convocato nel 1786 per affrescare i siti reali, di Carditello scrisse:
“(…) c’è anche un allevamento, in parte per le mucche che allora erano più di duecento. Nella masseria si faceva buon burro e formaggio parmigiano. (…)”

In un avviso pubblicato sul Giornale del Regno delle Due Sicilie del 10 gennaio 1826 si informava che dalle vacche svizzere del Real Sito di Carditello venivano fuori sufficienti quantità di latte “pel formaggio ad uso parmeggiano” (e per il butiro/burro).

La ripresa produttiva del secondo Ottocento, il supporto delle nuove tecnologie di inizio Novecento e lo slancio del secondo dopoguerra hanno finito per lanciare il Parmigiano su scala internazionale. Oggi, per essere DOP, deve essere prodotto nelle province di Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna alla sinistra del fiume Reno e Mantova, alla destra del fiume Po. Se lo si producesse nel Casertano, come al tempo dei Borbone, sarebbe un Parmigiano falsificato. Eppure, anche grazie alla disponibilità di quel formaggio taroccato, nelle cucine di Napoli, è nata quella meraviglia che è la Parmigiana di melanzane.

Recentemente il professor Alberto Grandi, docente mantovano di storia dell’alimentazione all’Università di Parma, è salito alla ribalta per alcune sue dichiarazioni eclatanti sull’origine dei cibi italiani più famosi, sostenendo tra l’altro che il Parmigiano, sparito in un buco di 150 anni tra il 1700 e il 1850 (per i motivi che ho elencato precedentemente, ndr), è riapparso alla fine del XIX secolo nel Wisconsin, nominato Parmesan. E invece, nelle sue ricerche, il Parmigiano scomparso doveva trovarlo dalle parti di Napoli, dove non è mai mancato, piuttosto che concentrarsi sull’emigrazione degli italiani in America di fine secolo.

per approfondimenti: Il Re di Napoli (Magenes, 2019)

Alberto Grandi: “Sulla pizza ho detto delle sciocchezze”

Angelo Forgione  Rieccoci al professor Alberto Grandi, il docente mantovano di storia dell’alimentazione all’Università di Parma, colui che qualche tempo fa ha sostenuto che la pizza, come la conosciamo oggi (pomodoro e mozzarella), sarebbe nata in America, là dove di fatto la conobbero grazie agli emigranti napoletani.

Ora, in un’intervista data al Corriere della Sera, sostiene che anche le pizzerie sono nate negli USA:

Le pizzerie nacquero in America. Fu là che si cominciò a mangiare la pizza stando seduti. Nel nostro Sud era un cibo di strada”.

Ho contattato Grandi perché davvero non capivo dove poggiassero le sue ricerche e le sue teorie. Gli ho spiegato che la prima pizzeria americana con tavoli e sedie la apre l’emigrante napoletano Gennaro Lombardi nel 1905, 75 anni dopo le prime pizzerie “comode” di Napoli. E se è vero che a Napoli la pizza nasce come cibo di strada cotto nei forni e distribuito dagli ambulanti nel Settecento, è proprio dal primo Ottocento che si diffondono le pizzerie in quanto locali dove mangiare seduti solo la pizza. Presso l’Archivio di Stato di Napoli è consultabile l’Elenco dei pizzajoli con bottega del 1807, testimoniante il fatto che almeno dal principio dell’Ottocento chi preparava le pizze non riforniva solamente i venditori ambulanti ma le vendeva in proprio in un suo esercizio, anche se magari non disponeva ancora di tavoli e stoviglie. Di pizzerie come quelle di oggi ce ne dà testimonianza nientepopodimeno che Francesco De Sanctis nelle sue memorie di giovinezza:

“La sera s’andava talora a mangiare la pizza in certe stanze al largo della Carità.”

Scrisse di avere sedici anni, il grande letterato e politico campano, quando andava in quella pizzeria tra le prime con i compagni, ed era quindi il 1833, non a caso l’anno in cui al largo della Carità, oggi Piazza Salvo D’acquisto, Antonio La Vecchia aprì “Le stanze di Piazza Carità”, oggi ancora operanti sotto l’insegna Mattozzi.

La pizzeria Port’Alba era già dotata di sedute dal 1830. E tantissime furono le pizzerie con tavoli, sedie e stoviglie che operavano a Napoli ben prima del 1905, anno dell’apertura a New York della prima pizzeria, quella di Gennaro Lombardi, che replicò lì la pizza con pomodoro e mozzarella, sostituita con il formaggio locale. Che poi, come ho già detto, pizze e pizzerie si siano diffuse nel resto d’Italia solo dopo la Seconda guerra mondiale non significa che i primi a mangiare la pizza comodamente seduti siano stati gli americani. Loro l’hanno fatto prima degli italiani, vero, ma dopo i napoletani, che gli fecero conoscere pizze e pizzerie a casa loro.

Il professor Grandi, che almeno non è tra quelli che credono alla leggenda dell’invenzione della pizza “margherita” posticipata al 1889, vivaddio, ha correttamente ammesso di aver rilasciato dichiarazioni errate sull’argomento, di cui si è detto non troppo esperto e di averlo tenuto ai margini dei suoi scritti rispetto a tante altre trattazioni. Si è anche detto “illuminato” dalla citazione delle memorie giovanili di Francesco De Sanctis che gli ho sottoposto, da cui ha preso certezza che le pizzerie con tavoli e sedie esistevano a Napoli almeno ottant’anni prima di quelle americane, insieme ad altre nozioni sulla storia della pizza, da Napoli a New York, fino alla conquista del mondo.

Quello che intendeva evidenziare – mi ha detto – è l’importante ruolo che hanno rivestito gli Stati Uniti nel rendere globale la pizza, ovvero la triangolazione Napoli-USA-Italia e il cosiddetto “pizza effect“, il fenomeno sociologico per cui un elemento della cultura di un particolare popolo viene conosciuto e diffuso maggiormente in un’altra nazione, e successivamente reimportato nella nazione del popolo che l’ha creato. Così la pietanza, partendo da Napoli con gli emigranti a inizio Novecento, è stata conosciuta prima negli States e poi nel resto d’Italia, fino a conquistare l’Europa e il mondo.

Nella cordiale chiacchierata abbiamo parlato anche di origini abruzzesi-napolitane dell’Amatriciana e d’altro ancora. Mi ha infine invitato con cordialità a raccontare la vera storia della pizza in uno dei suoi prossimi podcast su Spotify, così tanto ascoltati da generare interesse sulle sue stravolgenti affermazioni circa le origini delle più note pietanze italiane tra giornalisti e food-blogger.

Restano alcune inesattezze riportate su Il Corriere della Sera e su Il Fatto Quotidiano, dal Grandi onestamente riconosciute. Inesattezze che tanto fanno presa sui media nazionali perché la cucina italiana fa parte della nostra identità, nazionale e locale, e rappresenta orgoglio per tutti. Ancor di più la pizza, che è il più famoso dei piatti napoletani e poi, grazie agli americani, anche italiano. Quei quotidiani nazionali, da me pure contattati al pari di Alberto Grandi, dovrebbero correttamente proporre la rettifica di chi fa chiarezza con testi e documentazione archivistica, non restando ancorati a quel sensazionalismo utile a richiamare l’attenzione dei lettori con cui si contribuisce a mettere disordine nella storia e a creare disinformazione e diversa ignoranza.

È napoletana la prima ricetta della cotoletta (fritta)

Angelo Forgione — Milano e Vienna, città legate dalla storia, condividono il tipico piatto della fetta di vitello impanata e fritta. Wiener Schnitzel e Cotoletta alla milanese, due piatti simili per certi aspetti eppure assai diversi per particolarità di preparazione, a partire dalla presenza dell’osso (milanese) o meno (viennese), ma certamente imparentati, dacché all’inizio del Settecento la città lombarda cadde sotto il dominio austriaco e, passando per il periodo francese-napoleonico, vi rimase fino al 1859. In quel periodo vi furono certamente fitti scambi culturali tra dominati e dominanti.

Sebbene Vienna e Milano abbiamo affermato la cotoletta secondo i loro dettami, la paternità della pietanza non è di nessuna delle due. Di fatto, l’esordio della ricetta della cotoletta di vitello impanata e fritta avviene a Napoli con Vincenzo Corrado, che la descrive nel 1773 nel suo Il Cuoco Galante. A pagina 14, la ricetta delle Coste di Vitello imboracciate indica di tirare la carne al burro per portarla a mezza cottura, e poi, una volta raffreddata, bagnarla nelle uova sbattute, impanarla con pan grattato e formaggio parmigiano (grattugiato), e infine friggerla nello strutto.

Nel 1814, il Dizionario milanese-italiano curato da Francesco Cherubini riporta la parola “coteletta“, così tradotta: “Braciuola. Spezie di vivanda nota. Dal francese cotelette”. Erano infatti i cuochi francesi a fare particolari braciole insaporendo le costolette (con l’osso) di vario tipo, cuocendole e ricoprendole di una panatura complicata, per poi cuocere in forno. È dunque chiaro che ancora alla vigilia della Restaurazione, quindi del crollo di Napoleone e del ritorno degli austriaci a Milano, la coteletta/cotoletta non fosse per i meneghini qualcosa di fritto.

La comparsa della ricetta della “cotoletta alla milanese” è infatti datata 1855: nel ricettario Gastronomia Moderna di Giuseppe Sorbiatti si legge di “Costoline di vitello fritte alla Milanese”, immerse nell’uovo battuto, “imborraggiate” di pane e soffrite. Sono già trascorsi più di ottant’anni dalla comparsa a Napoli delle “Coste di Vitello imboracciate”.

Ed è del 1831 la comparsa della ricetta della Wiener Schnitzel von Kalbfleisch (Cotoletta viennese di Vitello) nel ricettario tedesco Allerneuestem allgemeinen Kochbuch di Maria Anna Neudeckers.

Secondo i ricettari, dunque, Vienna prima di Milano, e Napoli prima di Vienna. Va da sé che la prima cotoletta impanata e fritta sia napoletana. Verosimilmente, i cucinieri napoletani, a contatto con i monzù francesi alla corte dei Borbone, la frissero nello strutto invece di cuocerla in forno. Vienna e Milano, finalizzandola e sublimandola alla propria maniera, ne hanno fatto evidentemente specialità locali.

Maradona e la cucina napoletana, amore al primo assaggio

Angelo Forgione La governante napoletana di Diego Maradona rivelò che lui le chiedeva spesso di preparargli i capellini in bianco con scaglie di parmigiano. Mary Bruscolotti disse che una sera gli preparò spaghetti aglio, olio e peperoncino, e da allora divenne il suo primo piatto preferito. Confermato dal D10S in persona a Gigi D’Alessio, qualche anno fa in visita al fuoriclasse argentino nella sua casa di Dubai per un programma televisivo.

La minestra maritata, sapore antico di Napoli che torna nelle Feste

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Angelo Forgione – I campani che amano la tradizione, nei giorni di Natale e Pasqua, a tavola, vanno di menesta mmaretata, anche detta ‘pignato maritato’ e ‘pignato grasso’, pietanza a base di verdure e carne sposate, oggi riscoperta solo in occasione delle feste religiose, magari a Santo Stefano e Pasquetta per depurarsi dai pasti abbondanti del giorno precedente, ma tra le più gradite a Napoli e dintorni lungo tutto l’anno nel periodo post-rinascimentale, allorché il cliché alimentare del territorio non erano i maccheroni e la pizza, ma i broccoli. Nel Quattrocento, il poeta fiorentino Luigi Pulci, in missione diplomatica presso la corte aragonese di Napoli per conto di Lorenzo de’ Medici, scrisse in uno sprezzante sonetto alla toscana che i “minchiattar Napoletani”, privati de “la foglia”, ossia degli ortaggi, del gioco della pallamaglio e della bellezza del luogo, sarebbero sembrati gente senza peculiarità e pregi. Da lì nacque l’appellativo di “mangiafoglia” per i napoletani, di fatto abituati a mangiare in gran quantità quelle verdure che difettavano ai toscani e ai settentrionali in genere, le cui cucine erano piene di selvaggina.
E i napoletani le verdure le maritavano alle carni per una saporitissima minestra nelle occasioni importanti. A Natale con un condimento povero di gallina ruspante. A Pasqua nella sua versione più ricca con carni miste. Gettonatissima da letterati e artisti di ogni genere che si recavano nella Napoli del Cinquecento, e puntavano all’ancora oggi esistente Locanda del Cerriglio al Sedile di Porto, scenario, nel 1609, del truce sfregio al volto dell’irrequieto e tormentato Caravaggio. La gustò certamente anche Miguel de Cervantes, per il quale la Napoli del Chorrillo era “madre di abbondanza”, beneficiaria di ogni dono della natura e circondata da floridi orti immediatamente al di fuori della sua cinta muraria. Il grande scrittore iberico ebbe modo di capire che si trattava di un bollito simile alla Olla podrida spagnola, di cui è reinterpretazione napoletana probabilmente dal periodo aragonese. Lo scalco (cuoco) marchigiano Antonio Latini, per qualche tempo nella Napoli di fine Seicento al servizio di Esteban Carillo y Salsedo, primo ministro del viceré Francisco de Bonavides, scrisse di diverse minestre nobili nel suo ricettario Lo Scalco alla moderna del 1692, e citò, una dopo l’altra, la minestra di Foglia alla Napolitana e quella di Foglia alla Spagnola, appunto la Minestra maritata e la Olla podrida.
Il godereccio veneziano Giacomo Casanova, amante della cucina raffinata, scrivendo al tramonto del Settecento e della sua vita l’introduzione delle proprie Memorie, mise in cima alle sue preferenze a tavola “il pasticcio di maccheroni, fatto da un buon cuoco napoletano” e “l’olla podrida degli Spagnoli”, che equivaleva alla menesta mmaretata dei napoletani.
Era il tempo in cui l’ingrandimento urbano di Napoli capitale stava invadendo gli orti e la pasta di grano duro, utile a sfamare la crescente popolazione, stava iniziando a prendere il sopravvento sulle verdure. I “mangiafoglia” stavano per diventare i “mangiamaccheroni”. Seguendo loro, lo sarebbero diventati tutti gli italiani.

Storia delle Lasagne, da Napoli a Bologna

Angelo Forgione È uno dei piatti-bandiera dell’Italia nel mondo, una squisitezza la cui origine è spesso confusa. Chiedete in giro dove siano nate le Lasagne e probabilmente vi diranno «a Bologna». Ma è davvero così?

Prima di ricostruire la storia della pietanza bisogna che sia chiara la differenza tra Lasagna e Lasagne. La Lasagna è un “foglio sottile” di farina di grano o di farro d’epoca romana, a quel tempo noto come laganum. Le Lasagne, invece, al nostro tempo, vanno intese come più sfoglie sottili sovrapposte e inframezzate da strati farciti. Il linguista Carlo Alberto Mastrelli, emerito cattedratico di Glottologia all’Università di Firenze, decano ed ex-vicepresidente dell’Accademia della Crusca, autore del saggio Le ‘mentite spoglie’ della Lasagna, spiega che il termine “Lasagna” deriva dal vocabolo latino scomparso rasanea, cioè “pasta spianata” o rasaneolum, “cilindro di legno per spianare la pasta”, da cui rasagnolo, versione dialettale locale dell’italiano “matterello”.

La comparsa del termine “Lasagne” si fa risalire ai Memoriali Bolognesi del 1282: Giernosen le comadre trambedue a la festa, de gliocch’e de lasagne se fén sette menestra. Cioè, “Ieri le comari sono andate entrambe alla festa, con gnocchi e lasagne hanno fatto sette minestre”. Per lasagne, a quel tempo, si intendeva una pasta più simile a gnocchi tirati a mano, e del resto le comari citate facevano minestre, non pietanze al forno.

Delle Lasagne ante litteram, cioè sfoglie a strati farciti, erano sicuramente preparate in quegli anni nella Napoli angioina, ed erano farcite con formaggio grattato e, a piacere, spezie in polvere. Se ne poteva leggere nel primo trattato di cultura gastronomica napoletana, scritto da un anonimo napoletano a corte. Il testo si chiamava Liber de coquina e la ricetta era sotto la dicitura De lasanis. Questa la traduzione in italiano:

Per fare le lasagne prendi la pasta fermentata e rendila il più sottile possibile. Quindi dividila in quadrati di tre dita per lato. Prendi poi dell’acqua bollente salata e facci cuocere le lasagne. E quando sono completamente cotte aggiungi formaggio grattugiato. E, se vuoi, puoi anche aggiungere delle buone spezie in polvere e spargerle sopra, quando avrai messo le lasagne nel vassoio. Quindi metti di nuovo uno strato di lasagne e polvere [di spezie]; e sopra un altro strato e polvere, e continua fino a quando il vassoio non sarà pieno. Poi mangiale prendendole con un bastoncino di legno appuntito.

Dunque, alla corte angioina di Napoli, la sfoglia di origine romana si tagliava in forme quadrate da bollire in acqua, sovrapporre a strati alterni e condire appunto con abbondante polvere di formaggio e, volendo, di spezie varie.
Col tempo, i gusti e gli ingredienti cambiarono, soprattutto con la massiccia introduzione del pomodoro nella cucina di Napoli all’inizio dell’Ottocento, mentre altrove, Bologna compresa, neanche si coltivava. Il re Ferdinando II di Borbone, verso la metà del secolo XIX, chiamava affettuosamente il figlio Francesco col soprannome «Lasà» poiché ghiottissimo di Lasagne.
I napoletani, in epoca risorgimentale, facevano delle antiche Lasagne un piatto dell’abbondanza per il martedì grasso di Carnevale, inframezzandole con formaggi più o meno stagionati, salsicce cervellate affettate, polpettine fritte e ricotta a scelta, oltre a zucchero e cannella, poi definitivamente banditi. Vi si aggiunse poi il ragù napoletano.
Le ricette delle Lasagne (napoletane) più o meno corrispondenti a quelle moderne erano scritte in lingua partenopea dai grandi cuochi locali del primo Ottocento. La primissima ricetta in lingua italiana delle Lasagne di Napoli più o meno corrispondenti a quelle moderne fu pubblicata nel 1881 ne Il Principe dei cuochi, o la vera cucina napolitana, scritto dal cuoco Francesco Palma. La ricetta dei Maccheroni detti lasagne. era elencata a pagina 24, nella sezione “in Maniera di fare i maccheroni”, e indicava quanto segue:

Farai la pasta col fior di farina, e nello istesso modo delle laganelle, solamente però la devi tagliare a fette due dita larghe. Cotte che saranno, prenderai il piatto in cui dovrai servirle, il quale dovrà contenere il suo fondo di caciocavallo di regno, e di provola grattugiata, di zucchero polverizzato e cannella pesta, e gliele porrai suolo per suolo, mettendovi al di sopra di ognuno e finché te ne resteranno, li stessi formaggi anzidetti, nonché delle fette di cervellate, delle polpettine, ed un coppino di brodo di ragù. Indi adatterai il piatto sulla cenere calda, ed il fornello con fuoco al disopra, affinché tutto s’incorpori.
Puossi ancora aggiungere per ogni suolo della ricotta, ed allora sono squisitissimi.

Pellegrino Artusi, noto gastronomo del secondo Ottocento originario della romagnola Forlimpopoli, compilò il ricettario La Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene del 1891, quando solo da poco dalle parti della vicina Parma Carlo Rognoni aveva iniziato a coltivare il pomodoro, quello tondo, perché quello lungo utile ai sughi e al ragù era tipologia conosciuta solo nei dintorni del Vesuvio, e da almeno un secolo. Nel ricettario dell’Artusi non vi era nessuna traccia di Lasagne, perché egli, in realtà, snobbò grandissima parte della cucina meridionale. Il suo modello di cucina nazionale era di fatto centro-settentrionale, con grande attenzione alla Romagna e alla Toscana, la sua terra natia e quella di adozione. Nessun accenno alle Lasagne originali, quelle napoletane, ignorate dall’autore, e ovviamente neanche a quelle bolognesi, che ancora non esistevano. In quel periodo, le Lasagne (napoletane) ancora non erano state reinterpretate dalle regioni del Nord, e in certe zone settentrionali era diffuso il borioso proverbio Lasagne e maccheroni, cibo da poltroni, dove per poltroni si intendevano i napoletani e i meridionali in genere.

Solo nel 1935, 54 anni dopo la ricetta pubblicata a Napoli da Francesco Palma, spuntò la prima traccia scritta di Lasagne alla maniera dei bolognesi, esattamente nel libro Il ghiottone errante del giornalista Paolo Monelli, che non era neanche un ricettario.
La spinta campana al pomodoro, attraverso i numerosi testi di cucina scritti e pubblicati a Napoli, aveva fatto conoscere il succulento piatto partenopeo agli emiliani, che lo avevano reinterpretato a modo loro e con ottima riuscita, inizialmente con strati di spinaci tra le sfoglie (Lasagne verdi), ma poi arricchite alla maniera partenopea: non pasta di semola di grano duro ma larghe sfoglie di pasta all’uovo, con spinaci nell’impasto anziché nella farcitura; ragù alla bolognese al posto del ragù napoletano; cremosa besciamella al posto dei formaggi/ricotta. Così le Lasagne (napoletane) conobbero il piatto gemello del Nord, le “Lasagne alla bolognese”, appunto, non a caso dette tali. Ogni regione, poi, ci avrebbe messo del suo. Il pesto in luogo del ragù in Liguria, il radicchio rosso di Treviso in Veneto, l’aggiunta di melanzane in Sicilia, la variante dei Vincisgrassi condivisa da marchigiani e umbri e le Lasagne bastarde della Lunigiana, fatte con un impasto misto di farina di grano e farina di castagne. È così sparì opportunisticamente anche il proverbio anti-Lasagne del Nord, oggi in totale disuso.
Lasagne e maccheroni, cibo da terroni piaciuto ai polentoni.


per approfondimenti: Il Re di Napoli – Angelo Forgione (Magenes, 2019)

La malaunità agroalimentare

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Angelo Forgione – Di seguito l’elenco dei 26 prodotti italiani IGP e DOP protetti dal recentissimo mutuo riconoscimento tra Unione Europea e Cina contro la contraffazione agroalimentare. Solo 2 sono del Sud:

Aceto balsamico di Modena
Asiago
Asti
Barbaresco
Bardolino Superiore
Barolo
Brachetto d’Acqui
Bresaola della Valtellina
Brunello di Montalcino
Chianti
Conegliano-Valdobbiadene – Prosecco
Dolcetto d’Alba
Franciacorta
Gorgonzola
Grana Padano
Grappa
Montepulciano d’Abruzzo
Mozzarella di bufala
Parmigiano Reggiano
Pecorino Romano
Prosciutto di Parma
Prosciutto di San Daniele
Soave
Taleggio
Toscano/a
Vino nobile di Montepulciano

Niente pomodoro San Marzano, uno dei più imitati e contraffatti al mondo. Niente Pomodorino del Piennolo del Vesuvio e Pachino. Nessun vino campano, siciliano, pugliese, lucano o calabrese. Niente Pasta di Gragnano o Melannurca campana. Niente cipolla di Tropea e Nduja di Spilinga. Niente lenticchie di Altamura o Arance di Sicilia. Per la macroregione del Mezzogiorno, solo il Montepulciano d’Abruzzo e la Mozzarella di bufala (tra l’altro anche prodotta indiscriminatamente al Nord, basta che non abbia il marchio del consorzio “Campania DOP”), che ha quote trascurabili nel mercato cinese per la storica avversione, da quelle parti, al latte e ai suoi derivati.

E questi sono invece i 32 prodotti inseriti nel CETA, l’accordo di libero scambio tra Unione Europea e Canada, di cui solo 5 del Sud:

Aceto Balsamico di Modena
Arancia rossa di Sicilia
Asiago
Bresaola della Valtellina
Cappero di Pantelleria
Cotechino di Modena
Culatello di Zibello
Fontina
Gorgonzola
Grana Padano
Kiwi Latina
Lardo di Colonnata
Lenticchia di Castelluccio di Norcia
Mela Alto Adige
Mortadella di Bologna
Mozzarella di bufala campana
Parmigiano Reggiano
Pecorino Romano
Pecorino Sardo
Pecorino Toscano
Pesca e Nettarine di Bologna
Pomodoro di Pachino
Prosciutto Modena
Prosciutto di Parma
Prosciutto San Daniele
Prosciutto Toscano
Provolone Valpadana
Ricciarelli di Siena
Radicchio rosso di Treviso
Riso nero Vialone Veronese
Speck Alto Adige
Taleggio

E anche qui niente pomodoro San Marzano. Il pomodoro italiano più famoso nel mondo non solo non è protetto dalla contraffazione in Cina ma non è neanche promosso in Canada.

Così, mentre la trasmissione Report smaschera i furti di Stato alle città del Sud e il Rapporto Svimez 2019 “avverte” ancora una volta che lo Stato italiano ha abbandonato il Mezzogiorno, appare chiaro che anche l’Unione Europea da un lato richiama l’Italia alla mancata distribuzione dei fondi strutturali europei destinati al Sud e dall’altro approva quanto proposto dalla politica italiana, finendo per supportare accordi commerciali internazionali che rispecchiano la malaunità italiana e penalizzano fortemente il prodotto del Sud Italia.