Matteo Renzi e il disco rotto del piagnisteo. Vietato evidenziare il dramma Sud.

Angelo Forgione per napoli.comSia lodata la Svimez, ma ancor di più la Grecia in crisi. Che potesse divampare nuovamente la “Questione meridionale” sotto il solleone di Agosto, con la colonnina di mercurio sopra i 40 gradi, nessuno poteva prevederlo, perché da un buon decennio, freddo o caldo che facesse, tra l’abbondante demagogia leghista e la massiccia retorica delle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, il problema Sud era di fatto scomparso dai temi del dibattito politico nazionale.
Sia chiaro che la Svimez non ha detto nulla di nuovo, perché sono anni che nei suoi periodici rapporti preconizza desertificazione industriale e umana al Sud, richiamando attenzione sulla povertà meridionale. Tutto ignorato e relegato a qualche articolo di giornale mai capace di “estorcere” un commento significativo da parte dei leaders dei Governi che si sono succeduti. C’è voluta la Grecia, c’è voluto il suo euro-referendum per fare lo sgambetto al presidente del Consiglio in carica; c’è voluto il dibattito sulla “Questione greca” che sta all’Europa come quella “meridionale” sta all’Italia. L’attenzione internazionale si è concentrata sul dramma economico ellenico e tutti hanno creduto che oltre quel fondo non si potesse scavare nell’Eurozona. E invece la Svimez, riesprimendo gli stessi dati degli anni scorsi, ha condito quanto già detto col riferimento greco, così riaprendo una ferita mai rimarginata. Tutti hanno finalmente e improvvisamente scoperto che esiste un peggio al peggio, che la Magna Grecia sta peggio della Grecia. Il meridionalismo intellettuale lo sapeva già, ma l’imbavagliamento di cui è oggetto non gli consente di diffondere ampiamente la propria voce. E, del resto, nulla hanno potuto neppure i Gramsci, i Salvemini, i Nitti, i Fortunato e tutti coloro che hanno denunciato a gran voce, anche in sede politica, le problematiche affiorate con la creazione del “triangolo industriale” negli anni seguenti l’unificazione nazionale.
Il Sud ha battuto un colpo, finalmente, e la “Questione meridionale” è tornata inaspettatamente sotto i riflettori. Ma al grido d’allarme della Svimez ha risposto la leggerezza interpretativa del premier Renzi, la stessa persona che lo scorso gennaio, con incredibile superficialità, disse al parlamento di Strasburgo che le famiglie italiane incalzate dalla povertà si stavano invece arricchendo. Ora, dal pulpito nipponico di Tokyo, il “rottamatore” della politica italiana ha tuonato: «Basta piagnistei sul Sud! Voler bene all’Italia è smettere di parlarne male. L’Italia, lo dicono i dati, è ripartita. È vero che il Sud cresce di meno e sicuramente il governo deve fare di più, ma basta piangersi addosso». Il Presidente del Consiglio ha chiesto dunque di nascondere sotto il tappeto la polvere, di celare il dramma meridionale, di non parlar male dell’Italia, come se questa fosse una. No, non lo è e non lo è mai stata. Esistono due diverse Italie: ce n’è una che rincorre la ripresa facendo leva su un’economia che si approssima all’Europa che conta e ce n’è un’altra che da un secolo e più è scivolata verso il baratro. C’è una parte del Paese con distretti che procedono come la Germania e un’altra che è in panne alla partenza.
“Piagnisteo”. È così che Renzi liquida la Questione. Se il Sud si fa ascoltare “chiagne”, e magari “fotte” pure. Per cui è meglio che la smetta e che non faccia fare brutta figura all’Italia sullo scenario internazionale, soprattutto a un premier che è in visita nel Paese della terza economia mondiale. Nel Calcio, tanto caro al Capo di Governo, qualcuno dice che l’attacco è la miglior difesa, e Renzi sembra proprio attuare tal teorema per respingere le accuse nei confronti di un Esecutivo, il suo (ma non solo il suo) che per il Mezzogiorno non ha fatto nulla se non arrecare ulteriori danni con continui tagli della spesa in conto capitale e degli investimenti statali. Proprio di tattica si tratta, perché il rifiuto del “piagnisteo”, cioè l’attacco a chi prova ad attaccare, è un classico della dialettica dell’ex sindaco di Firenze. Otto mesi fa, a novembre, era a Sidney, e dai microfoni australiani chiedeva all’Italia di smetterla di vivere nel piagnisteo. Un mese prima – era ottobre – diceva lo stesso nella sua città, durante le celebrazioni per i 150 anni delle Officine Galileo a Campi Bisenzio, ricordando che nel dopoguerra italiano nessuno si è abbandonato al piagnisteo e così l’Italia è ripartita. Inesatto, perché i “piagnistei” c’erano anche allora, ed erano meridionali, ma furono messi a tacere. Quell’Italia in ginocchio ripartì grazie agli aiuti stanziati dal Piano Marshall tra il 1948 e il 1951, con cui furono rimessi in piedi gli stabilimenti industriali del Nord-Italia. Stanziamenti predisposti dagli Stati Uniti con lo scopo recondito di demolire il comunismo italiano (sostenuto esternamente dal grande blocco sovietico), nell’ambito di un piano più ampio finalizzato ad ottenere liberalizzazioni commerciali in Europa per le multinazionali americane e acquisire forte influenza della politica statunitense su quella europea. Eppure il politico sindacalista pugliese Giuseppe Di Vittorio – e non solo lui – chiese di investire parte dei finanziamenti americani per un minimo sviluppo industriale nel Sud, colpito da distruzioni molto maggiori rispetto al Nord, ma trovò opposizione nell’imprenditoria settentrionale, guidata dal genovese Angelo Costa, presidente di Confindustria, che rifiutò con ormai cronico nordismo. Per l’imprenditore ligure era più conveniente trasferire manodopera al Settentrione che creare fabbriche nel Meridione. «E assurdo pensare che l’industria si localizzi nel Sud, è più conveniente trasferire la manodopera verso il Nord». Così disse Costa nel 1946, e non è un caso che l’attività di navigazione per passeggeri immediatamente dopo avviata abbia portato alla nascita del colosso italiano delle crociere, quelle dai fumaioli gialli e la C blu. I soldi del Piano Marshall furono profusi dal Governo italiano in grandissima parte nei territori d’Alta Italia, rivitalizzando il “triangolo industriale” e inaugurando la più massiccia emigrazione da Sud a Nord. È così che l’Italia spaccata è ripartita dopo la Guerra. Si trattò di ripartenza assistita grazie al gettito di capitali esterni, come l’Italia dovrebbe fare per il suo Sud. È se lo Stivale intero non riesce a volare in Europa è proprio perché quel gettito fu maldistribuito, ricreando un fallimentare modello di sviluppo e ricalcando il Paese proprio come la si era lasciato prima dei bombardamenti, con un Nord in progresso industriale e un Sud “destinato a funzionare da colonia d’America per le industrie del Nord”. Il virgolettato si riferisce alle parole pronunciate da Gaetano Salvemini nel 1911, in pieno cinquantenario dell’Unità. Era anche quello il “piagnisteo” di chi sapeva di cosa parlava.

Renzi e le sue contraddizioni

«La Germania ha unito Est e Ovest. Noi ancora burocraticamente borbonici»
Due settimane fa aveva elogiato il modello delle Due Sicilie.

Angelo Forgione – Ci ha messo dodici giorni il premier Matteo Renzi, trionfatore indiscusso delle votazioni europee, per cadere in contraddizione. Il 14 maggio era stato a Napoli, in prefettura, e si era riferito al modello borbonico delle Due Sicilie per il rilancio del Sud, seppur apparendo già contraddittorio rispetto ad alcune sue dichiarazioni del passato. Storico Matteo! Non lo aveva fatto nessun Primo Ministro o alta carica dello Stato in 153 anni di storia unitaria.
Durante la trasmissione Rai Porta a Porta del 26 maggio, Renzi, da forza emergente al tavolo dell’Unione Europea, ha parlato di rapporti tra Italia e Germania in chiave continentale, anticipando le sue intenzioni rispetto alla cancelliera Angela Merkel. Ed eccolo di nuovo giocare con le parole:
«Siamo in grado di andare dalla Merkel e dire “questa è la semplificazione della pubblica amministrazione italiana, che non può essere borbonica”?».
Certo, si tratta di uso di una parola sbattuta sul dizionario con l’accezione denigratoria della Storia del Sud che ormai non regge più, come da Renzi stesso evidenziato. E pure il suo predecessore Enrico Letta, nel corso del summit dei capi di Stato e di governo dell’Ue dello scorso ottobre, aveva affermato che «bisogna lavorare affinché l’Italia non sia guardata più come il Paese più burocratico e borbonico». Inutile – ma non lo è – ricordare ancora una volta che la burocrazia italiana è sabauda, non borbonica, e che sono stati i piemontesi a imporre e condurre la loro Italia, non i napoletani.
Renzi sia più fedele a quel che dice e non metta maschere diverse in base al palcoscenico che calca. Tanto più se cita l’esempio dell’unione tedesca, vera: «La Germania, negli anni Duemila, che cosa ha fatto? Ha fatto quello che noi non abbiamo fatto: ha fatto delle riforme strutturali per unificare Est e Ovest, investendo fortemente sul mercato del lavoro, e adesso è leader in Europa e fa registrale percentuali di crescita come nessun altro Paese».
Tutto giusto, tutto perfetto, a parole. Dunque, Renzi, ha la ricetta per unire l’Italia – ma non da oggi – e sa come cancellare il divario Nord-Sud, anche quello di stampo sabaudo, non borbonico. Se non lo farà, la colpa non sarà della Merkel.

tratto da Made in Naples (Magenes, 2013):
Sono stati i Savoia a governare l’Italia piemontesizzata per circa ottantacinque anni, non i Borbone. Dunque, può mai essere borbonico il retaggio governativo della Nazione italiana? La burocrazia italiana non è borbonica ma, semmai, figlia di quella sabauda e piemontese instaurata negli anni del Regno d’Italia, esasperata e finalizzata alla sparizione di soldi pubblici. Un modo d’intendere l’amministrazione statale da cui derivò una sfrenata “creatività” tributaria a Torino e la necessità di unirsi con chi aveva i conti in ordine e poche tasse. Perché, dopo il 1855, il Regno di Sardegna non compilò più il bilancio statale? Forse “per oscurare le informazioni”, come denunciò nel 1862 l’economista Giacomo Savarese. Fu questa l’origine del debito pubblico italiano, prettamente piemontese, come conferma la ricerca Un’Italia unificata? – Il Debito Sovrano e lo scetticismo degli investitori di Stéphanie Collet, pubblicata nel luglio 2012.

Fischi all’inno nazionale, segnale non nuovo che va interpretato

Angelo Forgione – Nel corso della trasmissione radiofonica Si gonfia la rete di Raffaele Auriemma, ho espresso il mio parere sui fatti dell’Olimpico e motivato i fischi all’inno nazionale, che nulla o quasi hanno a che vedere coi tumulti avvenuti dentro e fuori lo stadio. Quei fischi hanno un significato che il Paese bolla come manifestazione di ignoranza, ostinandosi a non volerli comprendere. Eppure già due anni fa si erano verificati in occasione della finale della stessa competizione contro la Juventus. Nessuno si è preoccupato di capire il malessere e la disaffezione di Napoli verso i simboli della Nazione, concentrandosi sulla più deleteria e volgare gogna mediatica a danno dei napoletani.
Nel corso della trasmissione è intervenuto anche il direttore del Corriere del Mezzogiorno Antonio Polito, il quale ha invitato a non individuare nella questione sociale e storica la matrice dei fischi, trovando il disaccordo di Raffaele Auriemma.

Renzi, il Sud e i Beni Culturali orfani di Bray

ecco perché l’apprezzato ministro uscente del MiBAC è stato silurato

renzi_brayAngelo Forgione – L’incoronazione di Renzi, terzo premier consecutivo senza maggioranza eletta, non ha entusiasmato affatto chi ha criticato l’assenza nel suo intervento di riferimenti al Mezzogiorno durante la replica al Senato per la fiducia. La questione meridionale continua ad essere ignorata dall’agenda politica nazionale, ma Renzi ha risposto così: «erano meglio gli impegni verbali e i disimpegni sostanziali degli ultimi decenni, le parole in libertà?», che può avere due interpretazioni: o questo Governo non fa proclami per passare ai fatti oppure, sapendo di non voler fare i fatti, preferisce non parlare del Sud.
Brutti segnali sono arrivati dal totoministro ai Beni Culturali. In quel Dicastero, da più parti è stata chiesta la riconferma di Massimo Bray, promosso cum laude. Un vero e proprio plebiscito sui social network per il ministro uscente, sostituito per logiche partitiche da Dario Franceschini, proprio colui che Renzi aveva definito “il vice-disastro” quando questi, nel 2009, era stato eletto segretario del PD.
Bray è già rimpianto per l’autentica passione dimostrata e per i passi compiuti, cercando di riportare la cultura al centro delle politiche del Paese e puntando a cambiamenti sostanziali senza troppo chiasso ma instaurando un rapporto più vicino ai cittadini, ringraziati nel suo commosso commiato. Ha interrotto la disastrosa serie di Sandro Bondi, Giancarlo Galan e Lorenzo Ornaghi, parlando del patrimonio umiliato, ma è stato messo da parte nonostante abbia evitato che Pompei finisse in mani inaffidabili, abbia rimesso in vetrina i Bronzi di Riace, abbia mantenuto la promessa di ricomprare la Reggia di Carditello (e ora?), e abbia fatto qualcosa di significativo in tutto l’arco del suo operato. È stato proprio questo il freno di una persona fattiva che ha trovato opposizione da parte dei “vertici” a ogni tentativo di riorganizzazione radicale del suo Ministero. Un nuovo mandato avrebbe probabilmente permesso a Bray di proseguire in direzione di una vera e necessaria riforma, altro motivo per cui era caldeggiata la sua riconferma. Lui ha parlato di tutto il patrimonio nazionale e si è interessato finalmente anche a quello del Sud. Infine, fatto non trascurabile, è andato in Rai a parlare di intelligenza dei Borbone (clicca qui), dimostrando di essersi immerso senza pregiudizi nella grande storia del Sud e di volerla valorizzare rivisitandola. Anche questo ha pagato chi ora, insieme a tutti i suoi sostenitori, deve confidare nella buona sorte dei nostri monumenti, affidati a Franceschini, il “vice-disastro”.

Premier Letta: «basta con l’Italia considerata Stato borbonico»

Angelo Forgione – Il presidente dei Consiglio Enrico Letta, in un incontro sulla semplificazione normativa nel programma del summit dei capi di Stato e di governo dell’Ue, ha affermato che «bisogna lavorare affinché l’Italia non sia guardata più come il Paese più burocratico e borbonico».
Un classico modo di comunicare con quell’aggettivo dall’accezione sbagliata e offensiva della Storia del Sud che ormai non regge più. Traggo dal “passepartout” Made in Naples la già pronta risposta:
Sono stati i Savoia a governare l’Italia piemontesizzata per circa ottantacinque anni, non i Borbone. Dunque, può mai essere borbonico il retaggio governativo della Nazione italiana? La burocrazia italiana non è borbonica ma, semmai, figlia di quella sabauda e piemontese instaurata negli anni del Regno d’Italia, esasperata e finalizzata alla sparizione di soldi pubblici. Un modo d’intendere l’amministrazione statale da cui derivò una sfrenata “creatività” tributaria a Torino e la necessità di unirsi con chi aveva i conti in ordine e poche tasse. Perché, dopo il 1855, il Regno di Sardegna non compilò più il bilancio statale? Forse “per oscurare le informazioni”, come denunciò nel 1862 l’economista Giacomo Savarese. Fu questa l’origine del debito pubblico italiano, prettamente piemontese, come conferma la ricerca Un’Italia unificata? – Il Debito Sovrano e lo scetticismo degli investitori di Stéphanie Collet, pubblicata nel luglio 2012.
Magari l’Italia fosse considerata borbonica all’estero! Avrebbe ancora il rispetto perduto e che è ancora vivo per Napoli nelle corti europee esistenti per le quali la città è vista ancora come una capitale, più capitale delle capitali d’Italia Torino, Firenze e Roma.
Chissà poi cosa pensano di certe affermazioni i colleghi spagnoli di Letta. A giudicare dai radiosi sorrisi dei Borbone-Spagna alla parola “napoletano” pronunciata da Riccardo Muti (clicca qui per vedere) nel corso della consegna del “Premios Príncipe de Asturias” a Oviedo, tutto questo sdegno proprio non si avverte.

Enrico Letta l’illuminato e quel dibattito meridionalista

Angelo Forgione – In un Paese dove ogni decisione è presa dall’alta politica e non dal popolo che non ha più il potere sovrano, il rieletto presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha incaricato il 46enne Enrico Letta a ricoprire il ruolo di premier. Il vicesegretario del Partito democratico, membro come Monti di Bilderberg e componente del comitato esecutivo dell’Aspen Institute Italia (un’organizzazione americana finanziata anche dalla Rockefeller Brothers Fund, che si pone come obiettivo quello di incoraggiare le leadership illuminate), ha accettato con riserva di formare un governo di larghe intese. E promette un esecutivo “di servizio” che dia risposta alle emergenze.
In occasione di questo incarico, propongo l’intervento di Letta durante la presentazione del libro Domani a Mezzogiorno di Gianni Pittella del 29 Aprile 2010. In un dibattito meridionalista (in cui partecipò anche Marco Esposito, attuale assessore allo sviluppo del Comune di Napoli), il neo-presidente del Consiglio snocciolò le sue idee sul Sud arretrato che necessita di una classe dirigente adeguata. Concordo… sulle chiacchiere. Perchè tali restano, insieme a tutti i bei discorsi.

Per ascoltare, cliccare qui e premere il tasto play sul quinto intervento

La nazionale specchio dell’Italia? Speriamo di no!

La nazionale specchio dell’Italia? Speriamo di no!

la bacchetta magica che ha cancellato tutti i problemi

Angelo Forgione – C’era da tramere alla notizia dell’invito della nazionale di calcio al Quirinale. Atto giusto dal punto di vista sportivo, dovuto, ma “pericoloso” viste le ombre che avevano accompagnato gli azzurri alla vigilia dell’Europeo e che una finale non cancella. E il presidente della Repubblica Napolitano ha dato corpo ai timori con un discorso preparato a tavolino pregno di retorica e strumentalizzazione. «C’è molta strada da fare, c’è da cambiare molto per cambiare e rinnovarsi fino in fondo. Abbiamo alle spalle dei momenti difficili». Poi l’espressione si fa teatrale. «Certe volte, quando dico queste cose, mi domando: sto parlando del calcio o sto parlando dell’Italia? Badate bene che i discorsi si assomigliano molto ed è per questo che c’è stata grande presa sugli italiani per questa straordinaria impresa».
Nazionale specchio dell’Italia? Speriamo di no! La nazionale è solo lo specchio del calcio italiano sempre vivo e competitivo nonostante gli scandali e la crisi, un calcio in cui il Paese non dovrebbe specchiarsi anche se lo fa spesso. I calciatori della nazionale, a differenza di milioni di italiani, non si specchiano nella crisi e non ne patiscono gli effetti. Non conoscono la disoccupazione e possono consentirsi di rinegoziare i loro già lauti compensi in base agli eventi. Ecco perchè la retorica di Napolitano è fuori luogo e può solo far male.
Già le prime condanne del processo sportivo di “scommessopoli” erano state morbide e ricche di patteggiamenti, all’italiana cioè. Poi l’oblio “azzurro” che ha cancellato con un colpo di spugna i problemi della Nazione e quelli del calcio nazionale. Sotterrati i fischi all’inno di napoletani, spagnoli e croati, ognuno con le proprie motivazioni. Un calciatore è divenuto giudice e redentore del primo ministro: Buffon, intervistato da Mediaset (minuto 26:22), ha così detto di Monti che aveva proposto la chiusura del campionato per tre anni: «Non dobbiamo perdonare nessuno e io non ho sentito cosa ha detto». Qualche metro più in là Bonucci, proprio lui, compiaciuto per aver restituito al Paese l’orgoglio nazionale (minuto 25:28).
Potere del pallone che rotola in un paese calciocentrico e che se lo si fermasse per tre anni risveglierebbe l’attenzione degli italiani nei confronti di problemi e mali. Tutti ai piedi dei calciatori, partiti per gli europei tra le polemiche e tornati sul red-carpet. Tutti ad ascoltare il premier Monti che si prende 6 minuti di diretta TV e annuncia, chissà su quali certezze, che gli enormi sacrifici imposti al popolo e non ai ricchi, tantomeno ai calciatori, stanno per pagare mentre il giornalista Amedeo Goria poneva timidamente la “fatidica” domanda al manovratore («gentilmente, può dirci quando ne uscirermo?»). Tutti a santificare il pianto di un Bonucci indagato dalla procura per calcioscommesse pur restando “azzurro” mentre un suo collega veniva punito. Tutti di nuovo convinti di un’unità nazionale che esiste solo nelle parole del Presidente della Repubblica che, dopo aver scritto prima e confermato a voce poi che gli azzurri rappresentano gli italiani nelle crisi da superare, dimostra quanto il calcio sia strumento politico. Ci aveva offerto emozionanti abbracci e sincera stima all’esempio morale italiano che non ha voluto chiarire a cosa sia servito un milione e mezzo versato ad un tabaccaio per poi indicare alla Spagna e non alla Croazia la via dell’onestà. Aveva scritto a Prandelli di aver apprezzato tanto la sobrietà e serietà dei suoi commenti “senza retorica, ma non è forse questo il discorso da fare per l’Italia e per la sua Nazionale di calcio?». Già, senza retorica… una parola!
Ci uniamo al fronte di quelli che avrebbero accolto la vittoria della nazionale senza altri condimenti, quelli che non ci stavano e non intendono starci al tocco di bacchetta magica orchestrato da istituzioni politiche e calcistiche con la complicità di una certa stampa. Da Travaglio a Grillo ai “No Tav”, ognuno coi suoi motivi e con le sue provocazioni discutibili, ma tutti con ragioni sacrosante. Il calcio fa sempre più paura e si dimostra strumento di distrazione di massa che prima divide e poi finge di unire. Leggere attentamente le avvertenze e le modalità d’uso.