Come De Laurentiis ha fatto la rivoluzione copernicana del calcio

Angelo Forgione – Due scudetti in tre anni. Investimenti importanti, a partire da quello per Antonio Conte, e una presenza dominante sul mercato di rafforzamento dei club di Serie A. È la rivoluzione copernicana del calcio di Aurelio De Laurentiis, di fatto la rivoluzione aureliana, che ha cambiato le certezze e invertito le polarità economiche, portando un club del Sud Italia a trainare il calcio italiano per la prima volta da quando, nel 1926, cioè un secolo fa, ai club meridionali è stata data la possibilità di misurarsi direttamente con quelli settentrionali.
Ma come ci è riuscito un uomo che veniva dal mondo in declino del cinema e che ha pensato bene di riciclarsi nel mondo dorato del calcio, di cui non conosceva nulla? Irrotto sul palcoscenico del pallone nel 2004, ha imparato velocemente e lo ha piegato alle sue regole, fino a rivoluzionarlo. Ha issato un club finito in tribunale e nei campi di Serie C fino al trono d’Italia, e lo ha fatto attuando un modello di calcio imprenditoriale, una visione prospettica che gli ha consentito di far fruttare quanto messo insieme in 20 anni, arco di tempo in cui la tendenza del margine operativo lordo del club, cioè della differenza tra ricavi e costi, risulta decisamente positiva.
4 miliardi di ricavi e un utile aggregato superiore ai 100 milioni (fonte: Calcio e Finanza) nell’arco del ventennio aureliano. Non sono certamente tali cifre ad aver fatto la differenza, poiché il fatturato strutturale (introiti dai diritti tv, sponsor, bigliettazione stadio, merchandising e ricavi commerciali) della SSC Napoli, quantunque in progressiva crescita, è ancora inferiore a quello di Inter, Milan e Juventus.

La differenza, il Napoli, la fa per un motivo assai banale, se pensiamo che si tratta pur sempre di un’azienda: l’assenza di debiti. Elemento figlio della sostenibilità economica, cioè di un attento controllo dei costi. Grazie a un oculato player trading, cioè alla strategia di acquisto, valorizzazione e vendita dei calciatori, il Napoli ha generato forti plusvalenze negli anni, reinvestite per sostenere la sua crescita e rigenerare i suoi cicli. Oltre il 95% delle risorse finanziarie prodotte è stata investita in calciatori.
De Laurentiis non si è accontentato di una mediocrità di risultati, ma ha badato prima alla sostenibilità del club e poi ai trofei; non ha sacrificato i conti per inseguire le vittorie, come hanno fatto le altre tre big, quelle del Nord, incastrate in un’esasperata competizione storica non solo calcistica tra Milano e Torino. De Laurentiis, fuori da questa dinamica perversa per questioni geografiche e storiche, ha evitato bellamente ogni rincorsa ossessiva al trionfo ma ha lavorato con lungimiranza per arrivarci senza affanno e con fiato lungo. Ha atteso con pazienza il momento per far valere una solidità economica costruita anno dopo anno. Il momento è arrivato quando ci si è messi alle spalle la forte crisi del calcio generata dalla pandemia da Covid-19, che ha colpito naturalmente anche il Napoli, ma, grazie alla sua solidità, non alla stessa maniera delle concorrenti.
Tra le stagioni 2019/20 e 2021/22, anche per il club partenopeo tre bilanci in rosso, ma zavorrati più da due mancate qualificazioni in Champions League consecutive (2020 e nel 2021) che dall’emergenza sanitaria. Eppure De Laurentiis ne è venuto fuori bene e ha colto l’occasione per svettare.

Basta osservare il grafico dei risultati netti dei quattro top club della Serie A negli ultimi 10 anni, ovvero ciò che è rimasto in cassa o che si è accumulato a debito nei bilanci annuali di Napoli, Milan, Inter e Juventus, per dedurre che il club azzurro è uscito dalla crisi pandemica molto meglio delle altre big, capaci di fatturare di più ma enormemente indebitate e gravate da costi superiori, tra cui quelli di riduzione dei rispettivi deficit.

Tra l’esercizio del 2020 e quello del 2022, i risultati netti del Napoli hanno prodotto un passivo di -129,7 milioni. Passivo comunque decisamente inferiore ai quelli di -357,5 milioni del Milan, -488 dell’Inter e -553,9 della Juventus. Peraltro, il club azzurro, prima della pandemia, aveva fatto segnare alcuni attivi di bilancio, diversamente da Milan e Inter, che avevano accumulato debiti enormi, e dalla Juventus, che a partire dall’acquisto di Cristiano Ronaldo aveva infilato due passivi importanti (-59,2 miliardi in totale). L’azzardo di Andrea Agnelli, nel tentativo di vincere una Champions per incrementare i ricavi e il blasone, non poteva permettersi imprevisti, come quello che poi sopraggiunse al secondo anno di CR7.

La Juventus si è ritrovata a perdere 553,9 milioni tra il 2020 e il 2022, dovendo provvedere a diversi aumenti di capitale per un totale di 700 milioni e a ricche sponsorizzazioni della casa madre Exor, e provando inutilmente e illecitamente a limitare i danni con plusvalenze fittizie e scorrette manovre stipendi, colpite dalla scure della magistratura ordinaria e di quella sportiva, con anche una penalizzazione di dieci punti in classifica nel campionato 2022/23 e la dannosissima esclusione dalle competizioni europee.

L’Inter ha dovuto far fronte a un rosso complessivo di circa 488 milioni accumulato nel triennio 2020-2022. Nella fase di contrazione dovuta al Covid, anche la presenza di Antonio Conte nell’area tecnica ha fatto sentire il suo impatto sui costi. La proprietà di allora, Suning, ha dovuto limitare al minimo il proprio apporto, aggravando il livello di indebitamento e i connessi oneri finanziari. Da qui l’impossibilità di rimborsare un debito di 395 milioni di euro contratto con il fondo statunitense Oaktree Capital Management e di mantenere la proprietà.

Un po’ meno scura la situazione del Milan, che dall’ingresso di Elliot ha iniziato a ridurre il passivo. Il club rossonero, nel triennio 2020-2022, ha fatto registrare un calo del deficit, comunque pari a 357,5 milioni.

Nell’estate del 2022, i quattro top club hanno adottato politiche di contenimento dei costi, in linea con le esigenze di sostenibilità finanziaria post-Covid, e hanno ridotto i rispettivi monte ingaggi. Il club di De Laurentiis è quello che ha effettuato il taglio più significativo, con una diminuzione del 27%. Ceduti uomini di vecchia militanza come Mertens, Koulibaly, Insigne, ma anche Ospina, Ghoulam e Manolas, svecchiando la rosa e mettendo dentro elementi come Kvaratskhelia, Kim e Raspadori. Nonostante la forte contestazione del tifo napoletano per la perdita di elementi a cui era affezionato, la manovra ha prodotto ottimi frutti: il Napoli ha coniugato il contenimento dei costi con la competitività, arrivando persino alla vittoria dello scudetto 2022/23 e al conseguimento dell’utile più alto della storia della Serie A: +79,7 milioni. Scudetto in campo e fuori. Così, in quel momento, il Napoli ha iniziato a fare la differenza con le altre big.

E però, dopo la vittoria del campionato 2022/23, De Laurentiis ha sbagliato la gestione del trionfo e ha inanellato tutta una serie di scelte sbagliate ed enormi errori gestionali che hanno condannato il Napoli a una stagione disastrosa, culminata con un decimo posto e la dannosa esclusione dalle coppe europee dopo quindici anni di presenza continua.
Ma il patron azzurro non è rimasto vittima di se stesso e non ha affatto tirato i remi in barca; anzi, ha dato fondo alle riserve auree – al 30 giugno 2024, il patrimonio netto del club era di 211,5 milioni – e ha rilanciato, ingaggiando nientemeno che l’impegnativo Antonio Conte (con il suo folto staff) e investendo anche 150 milioni sul mercato per ingaggiare Lukaku, McTominay, Neres e Buongiorno. Il nuovo allenatore ha dettato al Presidente un cambio di paradigma rispetto al passato: gli investimenti hanno raggiunto il picco massimo e sono stati impegnati per calciatori con un’età media in rialzo di quasi due anni rispetto alla squadra che aveva vinto lo scudetto un anno prima. Il monte ingaggi è cresciuto a 82 milioni, ma è rimasto comunque di 59 milioni più basso di quello dell’Inter (141), 26 di quello della Juventus (108) e 22 di quello del Milan (104), e anche inferiore a quello della Roma (89). Risultato? Il Napoli, con il quinto monte ingaggi della Serie A, al culmine della stagione di ricostruzione, è tornato immediatamente ad acciuffare il trofeo dello scudetto, il secondo in tre anni.

Il fatto è che De Laurentiis, con la sua politica gestionale, ha messo il Napoli in condizione di poter ben ammortizzare le cadute e rialzarsi in piedi. È accaduto dopo il Covid e le due assenze consecutive dalla Champions League, ed è accaduto dopo il decimo posto. È accaduto nel periodo più nero per il calcio, quello in cui i tonfi sono costati caro alla Juventus, e non solo alla Juventus, ma non al Napoli.

È prevedibile che, per lo sforzo economico profuso per riportare immediatamente il Napoli al vertice e per i mancati introiti UEFA, il bilancio 2024/25 della SSC Napoli si chiuda in negativo, ma il ritorno in una Champions League più remunerativa, la cessione di Kvaratskhelia al Paris Saint Germain, nonché quella di Osimhen al Galatasaray (alle condizioni perentorie dettate da De Laurentiis) e il premio scudetto consentiranno di ammortizzare gli esborsi fatti per ripartire dopo il decimo posto, ma anche di sostenere l’aumento del monte ingaggi per il rafforzamento imposto da Antonio Conte.
Ed ecco che il Napoli di oggi, dopo aver trattenuto il gravoso allenatore con la promessa di esaudirne le esigenti richieste, fa la voce grossa sul mercato con un budget tra i 150 e i 200 milioni.

La bontà della gestione De Laurentiis e la forza della società azzurra è evincibile da un dato eloquente: considerando gli utili degli ultimi dieci anni, alcuni dei quali fortemente condizionati dalla pandemia, il Napoli è l’unico club che fa segnare il segno positivo: +118,8 milioni. Stratosfera, soprattutto se si confronta il dato con quelli in passivo di -816,1 del Milan, di -832,8 dell’Inter e di -888,1 della Juventus.

Ed è il club in testa alla classifica europea dei club più sostenibili sotto il profilo finanziario secondo l’ultimo rapporto pubblicato da Off The Pitch, aggiornato a giugno 2025, che ha analizzato indicatori fondamentali quali ricavi operativi, contenimento dei costi salariali, equilibrio patrimoniale e capacità di generare utili re-investibili nel medio-lungo periodo. Un club che ha saputo coniugare forza delle finanze e forza della squadra, introiti e vittorie.

In conclusione, si può serenamente affermare che il Napoli, per meriti propri, ha paradossalmente beneficiato della crisi pandemica del calcio. Pur essendo ancora un club dimensionalmente inferiore a Juventus, Milan e Inter, è diventato leader in tutti i parametri economico-finanziari, finendo per insegnare ai competitor la strada della sostenibilità quale condizione necessaria per il conseguimento del risultato sportivo, e non viceversa.

Conti in ordine, esborsi mediamente inferiore agli incassi, produttivo reinvestimento delle plusvalenze da player trading, capacità di affrontare gli insuccessi e resilienza. Così si è compiuta la rivoluzione aureliana.

La SSC Napoli la sa lunga

Applausi alla SSC Napoli per non essere cascata nell’errata narrazione delle origini di Napoli. Chiaro che con la maglia speciale “Partenope” ci si è accodati al (falso) 2500esimo compleanno della città, ma già il nome riconduce alle vere origini di 2800 anni or sono. E quanto consapevole sia la scelta lo dimostra la presentazione della maglia sui social:

“2.500 anni di storia e un’origine ancora più antica“.

Quell’origine più antica, di 300 anni, è esattamente Parthenope.

E in un altro post:

“Il mito ci ha dato un nome. Siamo figli di Partenope: mammà!”

Certo che sì. Siamo “partenopei” prima che, banalmente, “napoletani”.

2800 e sto! Anzi, stiamo!

Se dici Napoli

Parte la nuova stagione del Napoli, e parte anche “Se dici Napoli“, il nuovo programma televisivo post-partita dei Campione d’Italia (esclusi quelli della domenica sera) per approfondirne risultati e prestazioni. In onda su Otto Channel, Canale 16 in Campania, ma visibile dappertutto in streaming (www.ottochannel.tv/diretta-live) e pagine facebook.
Alla conduzione, Arturo Minervini. In studio, analisi di Angelo Forgione e Maurizio Zaccone. Al touch, per interagire con il pubblico sui social, Eugenia Saporito. Voci partenopee per commentare i risultati e le prestazioni degli Azzurri.
Segui la napoletanità. Quest’anno, “se dici Napoli”… dici Canale 16 del digitale terrestre in Campania.

Il Cavallo, simbolo ed eccellenza di Napoli (anche nel marchio Ferrari)

Angelo Forgione — Se divulgo storia identitaria di Napoli, del Sud e oltre, è perché lì c’è dell’eccellenza sotterrata da altra storia, da riportare alla luce. E se insisto sull’importanza del cavallo nella storia di Napoli non è per capriccio.
Oggi ci ha pensato il piemontese Guido Crosetto, ministro della Difesa delle Repubblica italiana a fare da sponda importante. Questi, a margine del suo intervento all’Aerospace Power Conference di Roma per i 100 anni dell’Aeronautica Militare, ha accennato alla genesi del cavallino rampante della Ferrari (nel videoclip), dimostrando di aver recepito la grandissima valenza del cavallo in quanto eccellenza di Napoli e del Sud Italia.

“Oggi siamo qua a parlare di futuro — ha detto il Ministro — ma un futuro esiste quando esiste un passato, e noi in questo settore abbiamo un grande passato. Molti di voi collegano l’immagine del cavallino rampante a quello della Ferrari, ma è il cavallino rampante che era sull’aereo di Francesco Baracca. Ma in realtà, se andiamo ancora più indietro, è la rappresentazione di un cavallo di razza Persano allevato dai Borbone, che governavano l’Italia del sud ancora prima che nascesse l’Aeronautica. Questo per ricordare che abbiamo una storia che si intreccia…”.

Intercettate le parole di Crosetto, riporto a corredo alcuni passaggi del mio Napoli svelata, a beneficio di chi vuol saperne di più:

“La tradizione equestre di Napoli fu alimentata enormemente in epoca borbonica, partendo dalla volontà di Carlo di Borbone di ottenere dei cavalli ancor più agili e resistenti, facendo avviare presso la tenuta di caccia di Persano un incrocio tra giumente del Regno di Napoli e veloci stalloni turchi che diede origine, alla metà del Settecento, alla pregiata Razza reale di Persano. Poi incrociata a stalloni spagnoli nella specialissima tenuta di Carditello, dotata da Ferdinando di un apposito ippodromo, divenne razza dei cavalli di Stato, la migliore dell’epoca, di fama internazionale alla fine del secolo.
[…]
Nel 1929 nasceva la Serie A, il torneo a girone unico, e contemporaneamente, con le automobili che sostituivano i cavalli, veniva fondata a Modena la Scuderia Ferrari per la gestione sportiva delle Alfa Romeo da corsa. Tre anni più tardi anche quei bolidi mostrarono in gara uno scudetto con il cavallo rampante su fondo giallo assai somigliante all’emblema della città di Napoli, e un legame c’era. Il pilota Enzo Ferrari aveva ricevuto quello stemma in dono dalla contessa Paolina Biancoli, madre del capitano Francesco Baracca, cavaliere e fuoriclasse dell’aviazione italiana durante la Prima guerra mondiale, defunto in battaglia nel 1918 dopo aver vinto trentaquattro duelli aerei. Sulla fusoliera del suo areoplano, il mitico aviatore romagnolo aveva fatto dipingere un cavallo rampante nero su fondo bianco in onore del suo reggimento di cavalleria, e la madre aveva invitato l’amico Ferrari a mettere quell’effigie sulle sue vetture da corsa, ché gli avrebbe portato fortuna. Suggerimento accolto, sostituendo il bianco di fondo con il giallo canarino per tributare la città di Modena. I puledri montati abilmente da Francesco Baracca erano di Razza reale di Persano; quella specie, ridotta a pochissimi esemplari dal Ministero della Guerra dei Savoia dopo l’Unità d’Italia in quanto simbolo della dinastia napoletana, era stata ripresa opportunisticamente intorno al 1900 dallo stesso ministero, resosi conto del grande errore commesso. Le originali doti di resistenza e agilità della ribattezzata Razza Governativa di Persano erano tornate utili per le esigenze militari ma anche sportive, e avrebbero fruttato medaglie alle Olimpiadi negli anni Sessanta con i fratelli Raimondo e Piero D’Inzeo. Il famoso “cavallino rampante” di Baracca, quello che oggi è il marchio di maggior valore al mondo, potrebbe davvero essere un superbo cavallo “borbonico”, dismesso nuovamente dall’Esercito italiano negli anni Novanta e salvato ancora dall’estinzione dall’appassionato principe siciliano Alduino da Ventimiglia di Monforte, che è riuscito ad assicurarne alcuni esemplari all’anch’essa recuperata tenuta casertana di Carditello, dove ancora oggi le stesse scuderie in cui fu selezionata la razza e il bellissimo ippodromo settecentesco, il più grande al mondo all’interno di un complesso reale, consentono la vita in libertà a una specie che rappresenta l’eccellenza napoletana al tempo in cui il cavallo era elemento determinante.”

Ma la tradizione equestre di Napoli risale almeno al Cinquecento, ovvero all’arte dell’Alta Scuola napoletana di Equitazione, fondata da Federico Grisone:

“Una maestria applicata all’insegnamento ma anche all’addestramento del nobilissimo Cavallo Napolitano, preferito a tutte le razze dall’esperto Carlo V e da altri grandi sovrani del tempo per la sua incredibile obbedienza e per la sua meritata fama di gran corsiero da guerra. Frutto di una selezione iniziata nel XIII secolo in territorio campano per ottenere cavalli più eleganti, veloci e leggeri di quelli ben più massicci necessari alla decaduta cavalleria medievale, veniva allevato in tutto il Regno di Napoli, di cui era in qualche modo rappresentativo, e da qui esportato verso il resto d’Italia e d’Europa anche come miglioratore di altre specie, apprezzato dappertutto per superiorità di intelligenza, mitezza, forza, bellezza, eleganza, leggerezza, portamento e andatura”.

Il Cavallo Napolitano era già allora considerato tra i più pregiati al mondo, insieme al turco e al berbero. E i maestri dell’accademia di Equitazione partenopea diffusero in tutta Europa uno straordinario metodo per addestrare i cavalli, quello che oggi è il Dressage, disciplina non più accademica ma sportiva, e olimpica.

Andando ancora più indietro, è nel Duecento che il cavallo diventa simbolo di Napoli, incarnando il popolo napoletano, indomito e scalciante…


per approfondimenti: NAPOLI SVELATA e MADE IN NAPLES


Applausi a De Laurentiis, artefice di una corretta gestione del Napoli

Angelo Forgione — Il Napoli vola, e raccoglie i frutti di una virtuosa e corretta gestione aziendale. Lo fa proprio nella stagione iniziata con l’apice di una contestazione alla Proprietà che viene da lontano, e che si è spenta in men che non si dica solo grazie a una dirigenza che ha retto al clima irrespirabile creato da un mix velenoso di miopia e antipatia, e ha operato secondo i propri dettami.

Nel mio libro Dov’è la Vittoria, qualche anno fa, ho chiarito con la storia e con i fatti che il calcio del Sud non può competere con quello del Nord per le sperequazioni territoriali di diverso genere, ma ho anche avvertito che qualche eccezione può riuscire a mettere i bastoni tra le ruote alle big di Milano e Torino: “in una Serie A poco attraente e senza più mecenatismo, dove ci si indebita facilmente, le variabili sane sono la competenza manageriale e i conti in ordine. Fattori che potrebbero consentire almeno alla coppia Napoli-Roma di ridurre le distanze dalle tre grandi del Nord”. Il Napoli ci sta riuscendo, e ora, con i guai delle finanze altrui, si propone addirittura come punta di diamante del calcio italiano. La sfida, a questo punto, è reggere. Questo Napoli può farlo, perché è guidato da una Proprietà che assicura una solidità mai garantita prima al club nella sua centenaria storia.

Il dato di fatto è essenziale: lo scudetto all’orizzonte e gli schiusi scenari internazionali non peseranno sulla sussistenza futura del club, così come avvenuto alla Roma e alla Lazio degli anni giubilari, salvate dal fallimento con il decreto “spalma-debiti”, e allo stesso Napoli di Maradona, non di Ferlaino, perché Ferlaino si ritrovò D10S su un vassoio d’argento e, per trattenerlo, dovette poi assecondarne le logiche ambizioni, obbligato a spendere più di quanto entrasse in cassa, così decretando consapevolmente gli affanni successivi e il fallimento del club per i debiti accumulati con l’insostenibile sforzo. Paragonare Ferlaino, vincente per perversa inerzia, a De Laurentiis, basandosi sui trionfi maradoniani dettati da condizioni storiche e ambientali che nulla avevano a che vedere con un progetto sano, è esercizio sbagliato almeno quanto contestare per antipatia un Presidente certamente stigmatizzabile per alcune esternazioni inopportune nei confronti della piazza ma non certo per capacità manageriali. De Laurentiis ha talvolta speso anche parole importanti per Napoli e la sua storia, quantunque i suoi detrattori rilancino solo quelle spiacevoli, spesso tirando fuori una frase su tutte, rivolta a un solo soggetto ma manipolata affinché diventasse il manifesto dell’irrispettosità nei confronti di tutti i napoletani. Malafede.

Da sempre fiducioso in questa proprietà illuminata, e incurante delle illazioni e degli attacchi ricevuti per questo, invito tutti a bandire le divisioni concettuali e a partecipare alla gioia del popolo ora che il Napoli vola, a patto che non si dimentichi poi di averlo fatto solo per festeggiare qualcosa di cui non si comprende il valore. Per vincere a Napoli è dovuto piovere dal cielo il più grande calciatore della storia del calcio. Questo Napoli non ha Maradona, e se vincerà sarà per progetto fruttifero, non per un caso. Sarebbe una grande impresa; rarissima per il Sud del calcio. Sostenere questa proprietà che prova a volare a Istanbul piuttosto che a Bari, badando alla missione sportiva e abbandonando volgarità e basse pulsioni da ventre molle, significava e significa capire il calcio italiano e, soprattutto, la dimensione del Napoli, attualmente ingrandita. Cioè, significa maturare come tifoseria. E lo dico da napoletano che da anni divulga la napoletanità con comprovata passione e conoscenza ma senza lacci e interessi di sorta.

Ne ho discusso a Campania Sport (Canale 21), partendo da un chiarissimo e condivisibile editoriale di Umberto Chiariello, sintetizzato nel video.

Juventini di Napoli e tifosi napoletani: una difficile convivenza in una città di forte identità

Angelo Forgione “Juventini disturbati”. Una mia definizione del 2017 proferita dopo una delle tante incursioni vuote degli juventini di Napoli in una trasmissione televisiva locale dedicata al Napoli e alla cultura napoletana, ripescata strumentalmente dai tifosi bianconeri in questo periodo per loro difficile, diventa l’occasione per un ben più interessante dibattito tra me, Paolo De Paola e il conduttore Vincenzo Marangio (tre napoletani di nascita) sulla difficile convivenza tra juventini e napoletani a Napoli e dintorni e, soprattutto, sui diversi aspetti del tifo meridionale in genere.

Tratto da “Radio Bianconera” (TMWradio) del 5/12/22

1922-2022: il silenzioso centennale del Calcio Napoli

Angelo ForgioneOttobre 1922, ottobre 2022. Avviene oggi quel che sarà celebrato tra quattro anni: i 100 anni del Calcio Napoli. Scorre da decenni una narrazione errata della fondazione del club partenopeo, consolidata nel dopoguerra e poi mai messa in discussione, eccezion fatta per i pochissimi topi d’archivio che la storia di quegli anni l’hanno letta e ricostruita. Tra questi, chi scrive questa ricostruzione, che da qualche anno va insistendo su una narrazione aderente ai fatti, ora proponendo una prova inoppugnabile del fatto che sia errato l’anno 1926, indicato come data di fondazione dallo stesso club e tatuato a bella posta sulla pelle di tanti tifosissimi azzurri. Si tratta di una lettera ufficiale scritta nel 1931 dal terzo presidente azzurro, ma prima è opportuno ricostruire la vicenda.

Nell’ottobre del 1922, mentre a Napoli si preparava l’adunata del Partito Nazionale Fascista che avrebbe dato il via alla Marcia su Roma, fu operata la fusione tra due club cittadini, il Naples Foot-Ball Club 1905 e l’U.S. Internazionale Napoli 1911, entrambi gravati da critiche situazioni finanziarie. Ne venne fuori l’Internazionale Naples Foot-Ball Club, abbreviato in Internaples, presieduto da Emilio Reale, già patron della vecchia U.S. Internazionale Napoli. Ed è proprio l’Internazionale Naples FBC (Internaples) il club che arriva a noi, perché nell’agosto del 1926, in piena continuità sociale, cambiò denominazione e divenne A.C. Napoli.

Era un tempo in cui i quotidiani sportivi riportavano soprattutto notizie e cronache di ciclismo, e il foot-ball, in crescita soprattutto nel Nord industrializzato, difficilmente trovava spazio nei quotidiani del Sud, il cui movimento calcistico risentiva di ritardi propri e di disinteresse da parte della Federazione a trazione settentrionale. Non esisteva il girone unico di Serie A, e lo scudetto era un affare delle squadre del “triangolo industriale”. Difficilissimo, pertanto, individuare la data precisa della fusione tra Naples e Internazionale, conclusa senza che la stampa dell’epoca ne desse sufficiente rilievo. E però, in virtù delle approfondite ricerche (ancora in corso), si può fare certamente riferimento al giornale napoletano Il Mezzogiorno, il più attento alle vicende del calcio campano.

Nell’edizione del 28-29 settembre del 1922 (1) fu preannunciata “una fusione fra i due più gloriosi ed anziani circoli calcistici della Provincia: Naples e Internazionale”.

L’edizione del 2-3 ottobre (2) informò che, in vista di una partita amichevole contro la U.S. Puteolana, l’Internazionale Napoli avrebbe schierato “una formazione ben poderosa”, per effetto de “l’accordo quasi raggiunto” per la fusione dei due club cittadini.

Ancora l’edizione del 13-14 ottobre (3) dava avviso che nella sede sociale dell’ U. S. Internazionale era convocata un’Assemblea Generale e pregava i soci di non mancare “dovendosi discutere argomenti di alto interesse”. Possibile che in quell’occasione si dovesse approvare proprio la fusione con il Naples Foot-Ball Club.

Infine, l’edizione del 30 ottobre (4), notificava l’assenza di alcuni elementi dell’Internazionale nel match amichevole contro la Bagnolese, “pur inquadrando nelle proprie fila alcuni degli elementi del vecchio Naples, la cui fusione col club del cav. Reale è ormai un fatto compiuto”.

Si può dunque affermare con ragionevole certezza che la fusione, ovvero la nascita dell’Internazionale Naples Foot-Ball Club (Internaples), cioè il Napoli, avvenne nella seconda metà del mese di ottobre del 1922.

Nonostante l’incoraggiante fusione, la situazione finanziaria del club restò deficitaria, e perciò, nel 1925, il patron Emilio Reale, per garantire sicurezza al club, cedette la presidenza al facoltoso commerciante Giorgio Ascarelli, che iniziò a spendere per rinforzare la squadra. Furono ingaggiati l’allenatore lombardo Carlo Carcano, già calciatore della Nazionale, e la giovane promessa piemontese Giovanni Ferrari. Dalle giovanili fu promosso in prima squadra un certo Attila Sallustro. Quella compagine arrivò a giocarsi, con esito infelice, la doppia finale di Lega Sud del luglio 1926 contro l’Alba Roma, valevole per l’accesso alla doppia finalissima nazionale per lo scudetto contro la vincitrice della Lega Nord.

Nella vignetta, Emilio Reale a sinistra e Giorgio Ascarelli a destra, stanti le difficoltà finanziarie, discutono di una tabella rimossa dai balconi della sede del club presso Palazzo Mastelloni in piazza Carità.

In vista della stagione 1926-27, irruppe a decidere la formula del campionato l’ormai affermato regime fascista, impegnato nel processo di “nazionalizzazione” del Regno d’Italia. Mussolini, non consentendo che il calcio italiano restasse spaccato tra Nord e Sud e mostrasse disgregazione sociale, impose d’ufficio alla FIGC, tramite il CONI, l’unificazione delle due leghe territoriali in un’unica “Divisione Nazionale”, articolata in 20 squadre, di cui 17 del Nord e 3 del Sud. Alle meridionali, il titolo sportivo spettò alle due finaliste dell’ultima Lega Sud, ovvero l’Alba Roma e l’Internaples, più la Fortitudo Roma, quest’ultima ammessa perché presieduta da Italo Foschi, uno degli ideatori della riforma fascista del Calcio.

Ascarelli, di origine ebraica, a quel punto, dovette porsi un serio problema: Mussolini detestava gli inglesismi e il benevolo Fascismo andava “ossequiato” per aver interrotto la dittatura decisionale della FIGC e dei club del Nord, che avevano provato in tutti i modi a tenere spaccata l’Italia del calcio. Il nome “Internaples” andava cambiato, e anche la vera denominazione “Internazionale Naples” ricordava l’Internazionale comunista, avversaria politica del Fascismo. Il presidente suggerì allora la più opportuna adozione del semplice nome italiano della città, che non avvenne il 1 agosto 1926, data trascritta erroneamente da qualche cronista dell’epoca e ripetuta a cascata negli anni, ma il 25. Un articolo de Il Mezzogiorno del 12-13 agosto (5) annunciò che in serata, presso la sede dell’Internaples in piazza della Carità, si sarebbe tenuta un’assemblea dei soci per votare le modifiche allo statuto, per presentare una lista di nomi che potessero affiancare Ascarelli, Reale e gli altri dirigenti nel Consiglio Direttivo e per discutere probabilmente del “nome migliore da dare alla Società”.

Una nuova assemblea dei soci in sede (non al ristorante D’Angelo, come si narra) si tenne il 25 agosto, raccontata il giorno seguente da “Il Mezzogiorno” del 25-26 agosto (6), rivista su cui i napoletani, da un trafiletto intitolato “L’Internaples muta il nome in A. C. Napoli […]” poterono apprendere del cambio di denominazione e dell’ingresso di nuove figure facoltose nel Consiglio Direttivo: “La Società, da oggi in avanti, si chiamerà, in luogo di Internaples, Associazione Calcio Napoli. […] È bello pertanto, è bellissimo, che all’appello dell’A. C. Napoli, figure bellissime delle classi più elevate di Napoli abbiano accettato di essere al fianco di Giorgio Ascarelli e degli altri bravi dirigenti dello scorso anno […]”. Non fu una fondazione, evidentemente, tanto più che nella rosa approntata per la stagione 1926-27 figurarono molti elementi della stagione precedente, compreso Attila Sallustro, destinato a diventare presto l’idolo dei tifosi.

Come stemma sociale fu scelto un cavallo sfrenato, il cosiddetto “Corsiero del Sole”, antichissimo emblema della città di Napoli, che riprendeva il soprannome dei calciatori dell’Internaples, detti i “poulains”, i puledri.

La testimonianza del fatto che l’A.C. Napoli è di fatto nato nel 1922 la ereditiamo dal successore alla presidenza del defunto Ascarelli, Giovanni Maresca di Serracapriola, in una lettera del 5 marzo 1931 indirizzata all’ex calciatore azzurro Lesllie William Minter, pioniere inglese del calcio napoletano e già calciatore dell’U.S. Internazionale Napoli 1911. Osservando con attenzione la missiva, battuta ovviamente con una macchina da scrivere dell’epoca, si legge: “[…] piccola ricompensa è la tessera che le offro, ma il ricordo della vecchia, modesta Internazionale che è diventata oggi il possente Napoli, gliela renderà certo gradita”.

Se si volesse essere rigorosamente filologici, si dovrebbe dire in realtà che non vi è neanche continuità societaria tra il Napoli del Ventennio e quello attuale, dacché l’A. C. Napoli cessò l’attività nel 1943 a causa della guerra. A far rinascere il calcio napoletano fu, nel gennaio del 1945, la nuova Associazione Polisportiva Napoli, che un anno più tardi riallacciò i fili con il passato assumendo la storica denominazione di Associazione Calcio Napoli. Il 25 giugno del 1964, tra sali e scendi dalla A alla B, il Napoli, soffocato dai debiti, cambiò ancora denominazione in Società Sportiva Calcio Napoli, sodalizio decretato fallito il 2 agosto 2004. Il titolo sportivo fu acquisito il successivo 6 settembre da Aurelio De Laurentiis, che scelse la provvisoria denominazione “Napoli Soccer”. La precedente fu ripristinata il 24 maggio 2006, con l’acquisizione del marchio e dei trofei più importanti della storia azzurra; una storia oggi centenaria, anche se lo stesso club e i tifosi la festeggeranno con quattro anni di ritardo.


Se ti piace l’argomento, leggi Dov’è la vittoria ed.2022 (Angelo Forgione – Magenes)

La questione meridionale del calcio in sintesi

Alla trasmissione “Il grande tifoso” (Kiss Kiss Napoli) di Carlo Alvino, un’estrema sintesi di alcuni contenuti di Dov’è la vittoria, il libro che racconta il calcio italiano dalle origini ai giorni nostri, in edizione aggiornata (prefazione di Oliviero Beha).

Storia della “discriminazione territoriale”, nata nel 1989 per “colpa” di Maradona

Angelo Forgione «Terrone di m…», urla a un giornalista napoletano un tifoso del Milan della provincia umbra di Terni, tutt’altro che settentrionale, all’esterno dello stadio Meazza del capoluogo lombardo. Spaccato di un’Italia calcistica in cui, oltre a certa ideologia imperante in alcune tifoserie storicamente e dichiaratamente razziste, troppo spesso l’astio verso i napoletani risponde a un fastidio avvertito da gente del Centro-Sud che tifa per le grandi squadre del Nord. Diventare tifosi di Juventus, Inter e Milan da bambini perché provenienti da territori le cui squadre sono impossibilitate a lottare per il vertice, e rendersi conto che il Napoli è l’unico club del Mezzogiorno capace di fronteggiare le nobili strisciate settentrionali, produce una sorta di invidia che si esprime con manifestazioni discriminatorie, tanto più violente quanto più è competitivo il Napoli. Picchi storici negli anni maradoniani e in quelli correnti, non a caso i due periodi più floridi della storia Azzurra. Perché più l’unico grande club del Sud dà fastidio a quelli del Nord e più il razzismo nei confronti dei suoi tifosi cresce, non solo al Settentrione.

In una questione meridionale che coinvolge anche lo sport, il Napoli, l’unica espressione meridionale del calcio metropolitano, è la quarta potenza d’Italia per bacino d’utenza e, di fatto, la squadra di calcio più titolata del Mezzogiorno, sia a livello nazionale che internazionale. Dietro, al Sud, vi è un sostanziale vuoto. Per trovare la prima concorrente per prossimità territoriale, bisogna salire di duecento chilometri, a Roma, città della quinta e della sesta potenza della Penisola calcistica. Ma il Napoli è pur sempre il club di Maradona, il calciatore più forte di tutti i tempi, un preziosissimo patrimonio in termini di notorietà e blasone che va oltre la non troppo ricca bacheca del club. Ed è proprio per sua “colpa” che in Italia pronunciamo la definizione di “discriminazione territoriale” per indicare in modo mascherato il razzismo di un territorio verso un altro, che però, senza girarci troppo intorno, è manifestazione di intolleranza nei confronti dei napoletani. 

Quel che fa il tifoso milanista di Terni lo fa, ancor più cervelloticamente, anche il tifoso cagliaritano, che è più a Sud di Napoli, sia pure in territorio isolano. E al Vesuvio grida anche il barese, il leccese, il reggino… La discriminazione dei settentrionali verso i meridionali, soprattutto dei napoletani, e dei centro-meridionali verso i napoletani, è becerume tipico degli stadi o è qualcosa di più ampiamente radicato nel popolo italiano?
Partiamo da una certezza: il razzismo, in Italia, esiste, e il negazionismo non aiuta a un dibattito costruttivo sulla questione. Il Pew Research Center, organizzazione che produce statistiche a livello mondiale su un gran numero di temi, dice per indagine che gli italiani risultano di gran lunga il popolo meno tollerante dell’Europa occidentale rispetto agli immigrati e alle minoranze come ebrei o rom. È evidente che anche il razzismo interno, cioè quello dei settentrionali verso i meridionali, non sia sparito. Del resto, la Nazione è nata proprio da un’unione forzata, un’invasione vera e proprio, in prossimità della quale il torinese Massimo d’Azeglio, governatore della provincia di Milano, scrisse al patriota Diomede Pantaleoni: Ma in tutti i modi la fusione coi napoletani mi fa paura; è come mettersi a letto con un vaiuoloso!”. Per napoletani s’intendevano non solo gli abitanti della popolosissima Napoli ma tutto il popolo del Sud, discriminato nel periodo del Positivismo di secondo Ottocento che lo assimilava al ceppo dei nordafricani.

Con l’avvento del Fascismo, le differenze tra Nord e Sud furono celate dal Nazionalismo mussoliniano, ma la proclamazione delle Leggi razziali, ispirate dal Manifesto degli Scienziati razzisti, più noto come “Manifesto della razza”, condusse alla subdola rielaborazione del concetto di superiorità etnica interna. La visione dei colonizzati d’Africa si sovrappose al modo in cui erano stati considerati i meridionali nel periodo postunitario. Tripoli, Mogadiscio e Addis Abeba vennero trattate come lo erano state Napoli e Palermo nel periodo risorgimentale, e i metodi di repressione delle rivolte coloniali furono formulati sul modello della lotta al brigantaggio, tant’è che la rivolta anticoloniale in Libia degli anni Venti fu gestita col ricorso agli stati di assedio, alla Giustizia militare e alle pene capitali, ovvero ricalcando la Legge Pica del 1863.

Nel Dopoguerra, le popolazioni del Sud si spostarono in massa nel “triangolo industriale”, trovando cartelli del tipo “Non si fitta ai meridionali”, e divennero per i torinesi “i tarún” e per i milanesi “i terun”, ma anche “i mau-mau”, appellativo mutuato dal nome della comunità kenyana ribellatisi al dominio coloniale britannico. E poi “i nàpuli”, appellativo ingiurioso piemontese poi tradotto in “nàpoli” e inserito in forma spregiativa nei moderni vocabolari di lingua italiana.

Il Calcio, divenuto grande passione delle domeniche degli italiani, non rimase immune da certe manifestazioni. Il razzismo, negli stadi, si affacciò negli anni Sessanta, in concomitanza con l’arrivo in Italia di calciatori di pelle nera, costretti ad ascoltare le prime offese da parte dei tifosi del Nord. E il Cagliari in vetta alla classifica nel campionato del 1970, poi vinto, veniva accolto a Milano e a Torino al grido di «banditi» e «pecorai». Nessuno sapeva che la proprietà del club, nell’ombra, era dei lombardi Angelo Moratti e Nino Rovelli, bisognosi di fare affari in quella terra per realizzare i loro impianti petrolchimici.

Sulla scia del colera del 1973 che colpì violentemente Napoli, ma anche Cagliari, Bari e altre città del Sud, nacquero i cori discriminatori contro i napoletani. Storia chiarita, quella del colera, esploso con la distribuzione di cozze infette di provenienza tunisina durante un’epidemia partita dodici anni prima dall’Indonesia e in quel periodo transitante nel Mediterraneo. Sarebbe giunta fino in America nel 1991 ed è in circolo ancora oggi. La scorretta informazione italiana colpevolizzò Napoli, con conseguenze pesantissime sul turismo e sulla condizione socio-economica della città.

Le autorità sanitarie della Regione Liguria disposero che il Napoli non dovesse recarsi a Genova per il match di Coppa Italia Genoa-Napoli del 16 settembre, temendo che potesse diffondere il vibrione sul territorio, contrariamente al parere delle autorità sanitarie campane. Fu decisa l’inversione del campo, ma i calciatori del Genoa si rifiutarono di recarsi a Napoli, e non partirono, accettando lo 0-2 a tavolino. Un mese più tardi, una volta che l’OMS ebbe dichiarato la conclusione dell’emergenza a Napoli (dopo solo un mese e mezzo, altrove proseguì ancora lungo), i genoani andarono a disputare un’amichevole di riconciliazione nel capoluogo campano. Ma da quel momento, in ogni stadio del Nord, il Napoli fu accolto al grido di «co-le-ra, co-le-ra», un’etichetta immeritata per un popolo che aveva dato prova di grande compostezza nella più imponente operazione di profilassi del dopoguerra.

Trascorsero sedici anni prima che la FIGC introducesse le sanzioni per “discriminazione territoriale”, entrata ufficialmente nel codice di giustizia sportiva nell’autunno del 1989, in piena epoca maradoniana, cioè di Napoli vincente, come mai era avvenuto prima di allora. Gli Azzurri, tre anni prima, avevano iniziato a spadroneggiare con le milanesi grazie al più forte calciatore del mondo. Tanta la paura e la rabbia per quei miserabili del Sud che si erano presi quello che era sempre “spettato” al Nord, lo scudetto, e minacciavano di rifarlo ancora dopo aver trionfato anche in Europa.

Vinto il primo Tricolore, a Torino era stato esposto una scritta infame: “Napoli campione oltraggio alla Nazione”. La sera del 17 maggio 1987, dagli schermi di Rai Uno per Notte per uno scudetto, uno show celebrativo del primo tricolore, l’ottimo Gianni Minà, torinese, aveva finto di intervistare un sorridente Massimo Troisi, napoletano, ricordandogli che al Nord erano comparsi striscioni del tipo “siete i campioni del Nord Africa”, e che evidentemente l’unità d’Italia non fosse mai avvenuta. Il compianto attore di San Giorgio a Cremano, in tempo di apartheid e di propaganda leghista, aveva risposto alla sua maniera: «Io, intanto, sinceramente, preferisco essere un campione del Nord Africa piuttosto che mettermi a fare striscioni da Sud Africa».

La consacrazione della “discriminazione territoriale”, ovvero il razzismo tra italiani negli stadi, avvenne dopo il match Roma-Napoli (1-1) dell’8 ottobre 1989 allo stadio Flaminio, con l’Olimpico in rifacimento per i Mondiali previsti in Italia a fine stagione. Match tra un Napoli in testa alla classifica e una Roma quarta che avrebbe potuto agganciarlo, in uno stadio piccolo e strapieno. Venticinquemila spettatori di cui tremila napoletani, e diretta televisiva, insolita per l’epoca, irradiata eccezionalmente nelle province di Roma e di Napoli per motivi di ordine pubblico. Tensione forte all’esterno dello stadio tra le due tifoserie e “botte” in campo tra le due squadre. Persino Maradona, sempre estremamente corretto in campo, a fine primo tempo era entrato pericolosamente sulle caviglie del romanista Desideri, autocensurandosi nel dopopartita. Durante il match, i tifosi della Roma avevano più volte ricordato ai napoletani di essere colerosi e terremotati e di non usare il sapone per eliminare la loro puzza. E poi le invocazioni al Vesuvio, scioccanti in quel periodo storico, anche perché fino a qualche anno prima, tra romanisti e napoletani, era stato celebrato un meraviglioso gemellaggio, interrotto dai tifosi giallorossi proprio quando il Napoli aveva preso il posto della Roma nella contesa dello scudetto contro Juve, Milan e Inter. Parallelamente alla crescita del club partenopeo era cresciuta l’aggressione verbale verso i suoi tifosi negli striscioni e nei cori, non più prerogativa esclusiva di certi stadi del Nord.

La colpa dei romanisti, in quella domenica d’autunno del 1989, fu quella di aver discriminato i napoletani esattamente il giorno dopo una storica marcia antirazzista per le strade della Capitale, la prima grande manifestazione nazionale contro il razzismo in Italia, promossa dopo l’omicidio dell’immigrato Jerry Masslo avvenuto la sera del 24 agosto 1989. Il bracciante sudafricano, prima di essere ucciso durante una rapina ai danni di un gruppo di una trentina di conterranei, aveva denunciato il razzismo degli italiani in un’intervista, avvisando che prima o poi qualcuno dei suoi sarebbe stato ammazzato. Quel delitto aveva scosso l’opinione pubblica, facendo scoprire agli italiani di essere razzisti, e aveva messo in moto il meccanismo per l’organizzazione dell’epocale manifestazione con duecentomila partecipanti nelle strade di Roma, alla quale, come atto di protesta verso le espressioni di discriminazione che si verificavano in molti stadi, avevano aderito formalmente anche i calciatori del Napoli, del Milan e dell’Inter, oltre al sindacato dei calciatori.
Che imbarazzo per la Federcalcio: la capitale d’Italia a gridare no al razzismo il sabato e a invocare il Vesuvio la domenica. E così fu immediatamente introdotta la “discriminazione territoriale” tra i motivi di provvedimento disciplinare nel Codice di Giustizia sportiva. Sanzioni pecuniarie qua e la fino al termine del campionato, vinto sul turbolento finale dal Napoli di Maradona sul Milan di Sacchi.
Il fuoriclasse argentino dovette difendere proprio negli stadi italiani, e da campione d’Italia con il Napoli, il titolo mondiale dell’Albiceleste vinto in Messico quattro anni prima. All’esordio contro il Camerun, nello stadio dei rivali milanisti e interisti, il tifo fu tutto per i “leoni indomabili”, vincitori a sorpresa per 1 a 0. Dopo i fischi all’inno argentino e il sostegno agli africani, Diego si rifece in sala stampa con sarcasmo pungente:
«L’unico piacere di questo pomeriggio è stato scoprire che, grazie a me, gli italiani di Milano hanno smesso di essere razzisti: oggi, per la prima volta, hanno fatto il tifo per degli africani».

Malcostume bandito nelle successive due partite, perché giocate a Napoli, ovvero in casa. I fischi all’inno argentino ripresero a Torino, per il derby sudamericano vinto contro il Brasile, e a Firenze, per la sfida alla Jugoslavia vinta ai rigori. Alla semifinale di Napoli approdarono proprio la Nazionale di Maradona e l’Italia. Dieguito, colui che era scappato da Barcellona per il razzismo dei catalani nei confronti dei “sudaca” del Sudamerica, dopo anni di battaglie in campo per i “terroni” napoletani, alla vigilia dello scontro coi padroni di casa, lanciò un proclama agli italiani in cui racchiuse un acuto messaggio identitario:
«Per 364 giorni su 365 chiamano “terroni” i napoletani, ma questa volta gli chiedono di essere italiani. L’Italia si ricorda che sono italiani solo quando devono sostenere la Nazionale, poi si dimentica di come li tratta».

Erano passati nove mesi dall’introduzione della “discriminazione territoriale”. La gente di Napoli apprezzò le parole dell’amatissimo avversario; molto meno gradì il resto d’Italia, che di certo non poteva guardarsi allo specchio per una partita della Nazionale di calcio. A guadagnarsi la finalissima fu l’Argentina, certamente per errori degli Azzurri, anche se il CT Vicini e qualche calciatore azzurro preferirono incolpare i napoletani sugli spalti. La tensione salì alle stelle nel ritiro dell’Argentina a Trigoria, storico quartier generale della Roma, antipasto della vendetta per quell’imbattibile ragazzo che faceva vincere il Napoli e l’Argentina. Nella notte della finale all’Olimpico contro la Germania Ovest tornarono più violenti che mai i fischi all’inno argentino, ai quali il capitano del Napoli rispose con un eloquente «hijos de puta» in mondovisione. Complice un rigore benevolo concesso ai tedeschi, tra cui alcuni romanisti e interisti, Diego dovette lasciare il trofeo agli avversari, tra incessanti fischi e amarissime lacrime. Ormai odiato in Italia e amato solo a Napoli, finì di fatto lì la sua parabola vincente e l’avventura nel Belpaese.

Il Napoli, nella stagione successiva, iniziò a declinare, trascinandosi lungamente verso il fallimento del 2004, al culmine di un decennio abbondante di affanni tra la Serie A e la B. Di pari passo, la discriminazione dei napoletani si assopì, per risvegliarsi esattamente quando il Napoli di De Laurentiis ritornò in Serie A. 6 ottobre 2007: a San Siro, i tifosi dell’Inter accolsero i tifosi partenopei scrivendo “Ciao colerosi”, “Napoli fogna d’Italia”, “Partenopei tubercolosi” su degli indecenti striscioni sparsi qua nel secondo anello della Curva Nord del Meazza. Accadde a quattro mesi dall’entrata in vigore del nuovo Codice di Giustizia sportiva, per il quale fu imposta per la prima volta la chiusura temporanea di un settore di stadio, nella fattispecie quello degli ultras interisti, per comportamento discriminatorio La prima storica proibizione per i tifosi, abbonati e non, colse tutti di sorpresa e riaprì un dibattito di fatto antico.

Il Napoli si riaffermò sempre più tra le grandi della Serie A e iniziò a proporsi persino come concorrente della Juventus, al principio dello storico ciclo-record dei Bianconeri. E perciò, il 22 ottobre 2012, durante il match Juventus-Napoli, andò in onda sulle frequenze piemontesi della Rai la grande vergogna del TG Regione Rai Piemonte. A partita da poco iniziata, fu mostrato un servizio firmato dal cronista Giampiero Amandola, recatosi ai cancelli dello stadio prima del match. I telespettatori piemontesi videro due giovani juventini urlare in coro «o Vesuvio lavali tu» nel microfono. Uno di loro spiegava poi che i napoletani erano inestinguibili perché «ovunque, a Nord e a Sud, un po’ come i cinesi», e il giornalista si univa allo squallore così: «Li distinguete dalla puzza, con grande signorilità». Compiaciuto, il tifoso rilanciava: «Molto elegantemente, certo!». Proprio chi scrive, allertato da una segnalazione giunta da uno sdegnato telespettatore, denunciò quanto era stato diffuso nei confini regionali del Piemonte, evitando che tutto restasse nei confini regionali e passasse in cavalleria. Il vergognoso servizio, posizionato sul web a futura memoria, accese l’indignazione napoletana e, divenendo immediatamente virale, divenne visibile all’Italia intera e oltre.

La Rai prese le distanze da ogni razzismo, scusandosi con l’allora sindaco di Napoli De Magistris, così come fece l’omologo Piero Fassino, e aprì un procedimento disciplinare per Giampiero Amandola, dopo aver diffuso in un’altra edizione del telegiornale regionale piemontese un duro comunicato stampa con cui condannò la condotta del suo dipendente e chiese scusa ai cittadini di Napoli ma anche a tutti gli italiani per l’inqualificabile servizio.

Uno scandalo enorme, sulla scia del quale, nella primavera del 2013, la FIGC, allertata dall’UEFA per la degenerazione degli eventi italiani, dovette recepirne le nuove direttive, diramate il 23 maggio attraverso l’adozione della risoluzione Il Calcio europeo contro il razzismo, con cui furono inasprite le pene per i casi associati agli eventi internazionali. L’organo calcistico europeo pretese altrettanta severità da ogni Federazione affiliata, chiedendo di impegnarsi per favorire l’adozione di identiche politiche sanzionatorie “in relazione alle manifestazioni nazionali”. Gli ispettori federali della FIGC furono chiamati a non tapparsi più le orecchie e a refertare tutti i cori di discriminazione territoriale. Dell’accanimento riversato sui napoletani ne fece immediatamente le spese la curva del Milan, e poi quella della Juventus, della Roma, del Bologna e molte altre in sequenza continua.

L’allora amministratore delegato del Milan, Adriano Galliani, scese in campo a guidare la rivolta dei club contro le nuove norme, fino a ottenere la modifica all’applicazione della norma e introduzione da parte del Consiglio federale della cosiddetta “sospensione condizionale”, una sorta di ammonizione per le società, le cui pene sarebbero state congelate per un anno solare e applicate in modo cumulativo solo nel caso di una seconda violazione dei loro supporters nel periodo interessato. L’intento era evidentemente quello di ridurre il rischio di chiusura parziale degli stadi, col subdolo presupposto per il quale il Napoli sarebbe stato ospitato solo una volta l’anno da ciascuna società. I vertici del calcio non fecero bene i loro conti, perché la maleducazione dei tifosi più decisi a vincere il braccio di ferro, iniziò a manifestarsi anche in partite senza i partenopei di scena.

Ne venne fuori una denigrazione sistematica del popolo partenopeo per piegare la FIGC, un odio che nell’immediata vigilia della finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina del 3 maggio 2014 a Roma toccò il suo drammatico picco ancora lì, all’esterno dello stadio Olimpico: durante un agguato premeditato a un torpedone dei tifosi napoletani zeppo di famiglie con bambini, il ventinovenne Ciro Esposito fu ferito a morte da un colpo di pistola sparato da Daniele De Santis, un ex militante della curva romanista appartenente ad ambienti di destra estrema, sostenitore di una squadra estranea alla partita da disputare. Non per una folle faida tra ultras, ma per il razzismo di stampo neofascista che aveva fatto della partita un pretesto per colpire Napoli e i napoletani.

Il drammatico accadimento spinse i vertici federali a tirare i remi in barca e dichiarare persa la battaglia di civiltà attorno alla discriminazione dei napoletani. Nell’estate 2014, irruppe sulla scena Carlo Tavecchio, presidente della Lega Nazionale Dilettanti e candidato alla presidenza della Federcalcio con immediata scivolata sulla buccia di banana del razzismo lasciata a terra dal fantomatico Optì Pobà. Nella corsa alla poltrona fu sostenuto da Adriano Galliani, l’uomo a capo della rivolta dei club contro la “discriminazione territoriale”. Nel programma elettorale spuntò la cancellazione delle chiusure dei settori degli stadi per responsabilità oggettiva, da convertire di nuovo in sanzioni pecuniarie. Tavecchio fu eletto presidente e da lì in poi si poté tornare a invocare il Vesuvio e a urlare contro i napoletani a pagamento delle società, a loro volta in silenzio e senza rivalersi sui colpevoli.

Bruciatosi il nuovo presidente federale in tema di lotta al razzismo per la gaffe che gli era costata la sospensione temporanea dall’attività internazionale da parte dell’UEFA prima e della FIFA poi, della finta battaglia alle discriminazioni se ne fece paladino Andrea Agnelli, per il quale la discriminazione territoriale era da considerarsi campanilismo facente parte della cultura italiana, e i cori contro Napoli “nostre peculiarità”. Il presidente della Juventus andò alla sede UNESCO di Parigi per presentare, nel novembre 2015, un’analisi del fenomeno razzista in cui la discriminazione territoriale veniva definita “forma tradizionali di insulto catartico”, cioè purificatorio, addirittura benefico per le folle. E da allora, con il Napoli sempre più stabilmente al vertice della Serie A, il Vesuvio è sempre più invitato a svegliarsi e a seminare distruzione e morte. Ma lui dorme e non da cenni di risveglio. Dorme il Vesuvio e dorme altrettanto profondamente l’Italia.

Per approfondimenti: Dov’è la Vittoria, (Angelo Forgione, Magenes, ed. 2022)

Napoli raccontata agli arabi

Breve estratto dallo speciale “Napoli Maradona”, la storia dei 7 anni di Maradona a Napoli, andato in onda il 13.09.22 su Al Mayadeen, uno dei canale satellitari d’informazione più seguiti nel mondo arabo, per il cui notiziario ho anche raccontato la storia di piazza del Plebiscito.