Come De Laurentiis ha fatto la rivoluzione copernicana del calcio

Angelo Forgione – Due scudetti in tre anni. Investimenti importanti, a partire da quello per Antonio Conte, e una presenza dominante sul mercato di rafforzamento dei club di Serie A. È la rivoluzione copernicana del calcio di Aurelio De Laurentiis, di fatto la rivoluzione aureliana, che ha cambiato le certezze e invertito le polarità economiche, portando un club del Sud Italia a trainare il calcio italiano per la prima volta da quando, nel 1926, cioè un secolo fa, ai club meridionali è stata data la possibilità di misurarsi direttamente con quelli settentrionali.
Ma come ci è riuscito un uomo che veniva dal mondo in declino del cinema e che ha pensato bene di riciclarsi nel mondo dorato del calcio, di cui non conosceva nulla? Irrotto sul palcoscenico del pallone nel 2004, ha imparato velocemente e lo ha piegato alle sue regole, fino a rivoluzionarlo. Ha issato un club finito in tribunale e nei campi di Serie C fino al trono d’Italia, e lo ha fatto attuando un modello di calcio imprenditoriale, una visione prospettica che gli ha consentito di far fruttare quanto messo insieme in 20 anni, arco di tempo in cui la tendenza del margine operativo lordo del club, cioè della differenza tra ricavi e costi, risulta decisamente positiva.
4 miliardi di ricavi e un utile aggregato superiore ai 100 milioni (fonte: Calcio e Finanza) nell’arco del ventennio aureliano. Non sono certamente tali cifre ad aver fatto la differenza, poiché il fatturato strutturale (introiti dai diritti tv, sponsor, bigliettazione stadio, merchandising e ricavi commerciali) della SSC Napoli, quantunque in progressiva crescita, è ancora inferiore a quello di Inter, Milan e Juventus.

La differenza, il Napoli, la fa per un motivo assai banale, se pensiamo che si tratta pur sempre di un’azienda: l’assenza di debiti. Elemento figlio della sostenibilità economica, cioè di un attento controllo dei costi. Grazie a un oculato player trading, cioè alla strategia di acquisto, valorizzazione e vendita dei calciatori, il Napoli ha generato forti plusvalenze negli anni, reinvestite per sostenere la sua crescita e rigenerare i suoi cicli. Oltre il 95% delle risorse finanziarie prodotte è stata investita in calciatori.
De Laurentiis non si è accontentato di una mediocrità di risultati, ma ha badato prima alla sostenibilità del club e poi ai trofei; non ha sacrificato i conti per inseguire le vittorie, come hanno fatto le altre tre big, quelle del Nord, incastrate in un’esasperata competizione storica non solo calcistica tra Milano e Torino. De Laurentiis, fuori da questa dinamica perversa per questioni geografiche e storiche, ha evitato bellamente ogni rincorsa ossessiva al trionfo ma ha lavorato con lungimiranza per arrivarci senza affanno e con fiato lungo. Ha atteso con pazienza il momento per far valere una solidità economica costruita anno dopo anno. Il momento è arrivato quando ci si è messi alle spalle la forte crisi del calcio generata dalla pandemia da Covid-19, che ha colpito naturalmente anche il Napoli, ma, grazie alla sua solidità, non alla stessa maniera delle concorrenti.
Tra le stagioni 2019/20 e 2021/22, anche per il club partenopeo tre bilanci in rosso, ma zavorrati più da due mancate qualificazioni in Champions League consecutive (2020 e nel 2021) che dall’emergenza sanitaria. Eppure De Laurentiis ne è venuto fuori bene e ha colto l’occasione per svettare.

Basta osservare il grafico dei risultati netti dei quattro top club della Serie A negli ultimi 10 anni, ovvero ciò che è rimasto in cassa o che si è accumulato a debito nei bilanci annuali di Napoli, Milan, Inter e Juventus, per dedurre che il club azzurro è uscito dalla crisi pandemica molto meglio delle altre big, capaci di fatturare di più ma enormemente indebitate e gravate da costi superiori, tra cui quelli di riduzione dei rispettivi deficit.

Tra l’esercizio del 2020 e quello del 2022, i risultati netti del Napoli hanno prodotto un passivo di -129,7 milioni. Passivo comunque decisamente inferiore ai quelli di -357,5 milioni del Milan, -488 dell’Inter e -553,9 della Juventus. Peraltro, il club azzurro, prima della pandemia, aveva fatto segnare alcuni attivi di bilancio, diversamente da Milan e Inter, che avevano accumulato debiti enormi, e dalla Juventus, che a partire dall’acquisto di Cristiano Ronaldo aveva infilato due passivi importanti (-59,2 miliardi in totale). L’azzardo di Andrea Agnelli, nel tentativo di vincere una Champions per incrementare i ricavi e il blasone, non poteva permettersi imprevisti, come quello che poi sopraggiunse al secondo anno di CR7.

La Juventus si è ritrovata a perdere 553,9 milioni tra il 2020 e il 2022, dovendo provvedere a diversi aumenti di capitale per un totale di 700 milioni e a ricche sponsorizzazioni della casa madre Exor, e provando inutilmente e illecitamente a limitare i danni con plusvalenze fittizie e scorrette manovre stipendi, colpite dalla scure della magistratura ordinaria e di quella sportiva, con anche una penalizzazione di dieci punti in classifica nel campionato 2022/23 e la dannosissima esclusione dalle competizioni europee.

L’Inter ha dovuto far fronte a un rosso complessivo di circa 488 milioni accumulato nel triennio 2020-2022. Nella fase di contrazione dovuta al Covid, anche la presenza di Antonio Conte nell’area tecnica ha fatto sentire il suo impatto sui costi. La proprietà di allora, Suning, ha dovuto limitare al minimo il proprio apporto, aggravando il livello di indebitamento e i connessi oneri finanziari. Da qui l’impossibilità di rimborsare un debito di 395 milioni di euro contratto con il fondo statunitense Oaktree Capital Management e di mantenere la proprietà.

Un po’ meno scura la situazione del Milan, che dall’ingresso di Elliot ha iniziato a ridurre il passivo. Il club rossonero, nel triennio 2020-2022, ha fatto registrare un calo del deficit, comunque pari a 357,5 milioni.

Nell’estate del 2022, i quattro top club hanno adottato politiche di contenimento dei costi, in linea con le esigenze di sostenibilità finanziaria post-Covid, e hanno ridotto i rispettivi monte ingaggi. Il club di De Laurentiis è quello che ha effettuato il taglio più significativo, con una diminuzione del 27%. Ceduti uomini di vecchia militanza come Mertens, Koulibaly, Insigne, ma anche Ospina, Ghoulam e Manolas, svecchiando la rosa e mettendo dentro elementi come Kvaratskhelia, Kim e Raspadori. Nonostante la forte contestazione del tifo napoletano per la perdita di elementi a cui era affezionato, la manovra ha prodotto ottimi frutti: il Napoli ha coniugato il contenimento dei costi con la competitività, arrivando persino alla vittoria dello scudetto 2022/23 e al conseguimento dell’utile più alto della storia della Serie A: +79,7 milioni. Scudetto in campo e fuori. Così, in quel momento, il Napoli ha iniziato a fare la differenza con le altre big.

E però, dopo la vittoria del campionato 2022/23, De Laurentiis ha sbagliato la gestione del trionfo e ha inanellato tutta una serie di scelte sbagliate ed enormi errori gestionali che hanno condannato il Napoli a una stagione disastrosa, culminata con un decimo posto e la dannosa esclusione dalle coppe europee dopo quindici anni di presenza continua.
Ma il patron azzurro non è rimasto vittima di se stesso e non ha affatto tirato i remi in barca; anzi, ha dato fondo alle riserve auree – al 30 giugno 2024, il patrimonio netto del club era di 211,5 milioni – e ha rilanciato, ingaggiando nientemeno che l’impegnativo Antonio Conte (con il suo folto staff) e investendo anche 150 milioni sul mercato per ingaggiare Lukaku, McTominay, Neres e Buongiorno. Il nuovo allenatore ha dettato al Presidente un cambio di paradigma rispetto al passato: gli investimenti hanno raggiunto il picco massimo e sono stati impegnati per calciatori con un’età media in rialzo di quasi due anni rispetto alla squadra che aveva vinto lo scudetto un anno prima. Il monte ingaggi è cresciuto a 82 milioni, ma è rimasto comunque di 59 milioni più basso di quello dell’Inter (141), 26 di quello della Juventus (108) e 22 di quello del Milan (104), e anche inferiore a quello della Roma (89). Risultato? Il Napoli, con il quinto monte ingaggi della Serie A, al culmine della stagione di ricostruzione, è tornato immediatamente ad acciuffare il trofeo dello scudetto, il secondo in tre anni.

Il fatto è che De Laurentiis, con la sua politica gestionale, ha messo il Napoli in condizione di poter ben ammortizzare le cadute e rialzarsi in piedi. È accaduto dopo il Covid e le due assenze consecutive dalla Champions League, ed è accaduto dopo il decimo posto. È accaduto nel periodo più nero per il calcio, quello in cui i tonfi sono costati caro alla Juventus, e non solo alla Juventus, ma non al Napoli.

È prevedibile che, per lo sforzo economico profuso per riportare immediatamente il Napoli al vertice e per i mancati introiti UEFA, il bilancio 2024/25 della SSC Napoli si chiuda in negativo, ma il ritorno in una Champions League più remunerativa, la cessione di Kvaratskhelia al Paris Saint Germain, nonché quella di Osimhen al Galatasaray (alle condizioni perentorie dettate da De Laurentiis) e il premio scudetto consentiranno di ammortizzare gli esborsi fatti per ripartire dopo il decimo posto, ma anche di sostenere l’aumento del monte ingaggi per il rafforzamento imposto da Antonio Conte.
Ed ecco che il Napoli di oggi, dopo aver trattenuto il gravoso allenatore con la promessa di esaudirne le esigenti richieste, fa la voce grossa sul mercato con un budget tra i 150 e i 200 milioni.

La bontà della gestione De Laurentiis e la forza della società azzurra è evincibile da un dato eloquente: considerando gli utili degli ultimi dieci anni, alcuni dei quali fortemente condizionati dalla pandemia, il Napoli è l’unico club che fa segnare il segno positivo: +118,8 milioni. Stratosfera, soprattutto se si confronta il dato con quelli in passivo di -816,1 del Milan, di -832,8 dell’Inter e di -888,1 della Juventus.

Ed è il club in testa alla classifica europea dei club più sostenibili sotto il profilo finanziario secondo l’ultimo rapporto pubblicato da Off The Pitch, aggiornato a giugno 2025, che ha analizzato indicatori fondamentali quali ricavi operativi, contenimento dei costi salariali, equilibrio patrimoniale e capacità di generare utili re-investibili nel medio-lungo periodo. Un club che ha saputo coniugare forza delle finanze e forza della squadra, introiti e vittorie.

In conclusione, si può serenamente affermare che il Napoli, per meriti propri, ha paradossalmente beneficiato della crisi pandemica del calcio. Pur essendo ancora un club dimensionalmente inferiore a Juventus, Milan e Inter, è diventato leader in tutti i parametri economico-finanziari, finendo per insegnare ai competitor la strada della sostenibilità quale condizione necessaria per il conseguimento del risultato sportivo, e non viceversa.

Conti in ordine, esborsi mediamente inferiore agli incassi, produttivo reinvestimento delle plusvalenze da player trading, capacità di affrontare gli insuccessi e resilienza. Così si è compiuta la rivoluzione aureliana.

Juventini di Napoli e tifosi napoletani: una difficile convivenza in una città di forte identità

Angelo Forgione “Juventini disturbati”. Una mia definizione del 2017 proferita dopo una delle tante incursioni vuote degli juventini di Napoli in una trasmissione televisiva locale dedicata al Napoli e alla cultura napoletana, ripescata strumentalmente dai tifosi bianconeri in questo periodo per loro difficile, diventa l’occasione per un ben più interessante dibattito tra me, Paolo De Paola e il conduttore Vincenzo Marangio (tre napoletani di nascita) sulla difficile convivenza tra juventini e napoletani a Napoli e dintorni e, soprattutto, sui diversi aspetti del tifo meridionale in genere.

Tratto da “Radio Bianconera” (TMWradio) del 5/12/22

La questione meridionale del calcio in sintesi

Alla trasmissione “Il grande tifoso” (Kiss Kiss Napoli) di Carlo Alvino, un’estrema sintesi di alcuni contenuti di Dov’è la vittoria, il libro che racconta il calcio italiano dalle origini ai giorni nostri, in edizione aggiornata (prefazione di Oliviero Beha).

La veneta di Sardegna “minaccia” i calabresi

Angelo Forgione Quando una veneta figlia di emigrante sardo “minaccia” un bambino calabrese di un futuro da emigrante, l’irrisolta Questione meridionale fa ancora più rabbia.
A rendersi talmente squallida è stata Sara Pinna, la conduttrice di Terzo Tempo – diretta biancorossa, trasmissione dedicata alle partite del Vicenza dell’emittente locale TvA. Costei, immediatamente dopo la partita di calcio che ha sancito la salvezza del Cosenza e la retrocessione in Serie C del Vicenza, ha fatto il verso a un piccolo tifoso dei Rossoblù calabresi. Il bambino, ai microfoni dell’inviato in Calabria, Andrea Ceroni, ha raccolto l’imbeccata del padre per esprimere la propria fede:

«Lupi si nasce».

Sara Pinna, ferita nell’orgoglio, ha tirato fuori la peggior boria nordica:

«Eeeeh… E gatti (vicentini) si diventa. Non ti preoccupare che venite anche voi in Pianura a cercare qualche lavoro».

E il collega, annuendo, ci ha messo pure del suo:

«Non male, Sara».

Cosa poteva capire il piccolo di quella risposta? Nulla, ovviamente. E lei, con quel cognome e quelle fattezze tipicamente sarde, ex tifosa cagliaritana giunta in Veneto dall’isola, sapeva di non rivolgersi a quel bambino ma alla platea adulta dei suoi telespettatori veneti, tanto per affermare una superiorità economico-sociale sui meridionali che non era scritta da nessuna parte prima che fosse unita l’Italia.

Sarà Pinna ha poi chiesto scusa dopo l’ondata di condanna arrivatale addosso con qualche giorno di ritardo:

“Ribadisco le mie scuse al bambino, alla sua famiglia, ai tifosi del Cosenza e a tutti coloro che si sono sentiti offesi per una frase sbagliata che non rispecchia in alcun modo il mio pensiero e la mia sensibilità. Io stessa sono di origini sarde, in Veneto per lavoro dei miei genitori, quindi non vi erano in me le intenzioni maligne che mi vengono attribuite dai numerosi commenti sui canali social, molti dei quali hanno oltrepassato ogni limite di decenza e di legge, ma di questo si occuperà nelle sedi opportune la magistratura”.

Non era bastato il tifoso vicentino che, all’andata, era arrivato ad apostrofare i tifosi del Cosenza con l’epiteto di scimmie calabresi. Ci voleva anche la minaccia al bambino di Calabria, che forse un giorno sarà davvero costretto ad andare a cercare lavoro in Pianura Padana, ma resterà comunque e sempre un “lupo” rossoblù. E speriamo che non sia anche juventino, interista o milanista, perché poi la colonizzazione del Sud è anche di tipo sportivo, e il fenomeno del doppio tifo, per la squadra della propria città e per una delle tre grandi strisciate del Nord, è diffuso in Calabria come in altre regioni limitrofe.

Napoli senza voce, ma non tace

Angelo Forgione  «La Gazzetta dello Sport è sempre stata il giornale di Juve, Inter e Milan ed è sempre stata contro il Napoli… i giornalisti del Nord mi odiano, il Nord odia il Sud dai tempi del Conte di Cavour».
Così disse, senza peli sulla lingua, Aurelio De Laurentiis in diretta nazionale qualche tempo fa, scatenando un autentico putiferio.

Nei giorni scorsi, Stefano Barigelli, direttore della Gazzetta, ha onestamente ammesso che il principale quotidiano sportivo nazionale – ripeto, nazionale – risponde principalmente alle tifoserie di Milan, Inter e Juve, che rappresentano il core-business di riferimento, e l’informazione propone soprattutto ciò che è a loro gradito, come, ad esempio, un like dato da Zaniolo a un post di Vlahovic finito in prima pagina, o come il furto della Panda di Spalletti ma non altri reati predatori in altre città. Fino al caso-non-caso Osimhen alla vigilia di una trasferta delicata del Napoli a Bergamo.
Nessuna novità, non siamo nati ieri, e però è legittimo il sospetto che De Laurentiis avesse ragione a gridare il suo sfogo.

Eugenia Saporito ha perciò messo in piedi un animatissimo ma garbato dibattito in diretta sull’argomento, ospitando Paolo De Paola, napoletano di nascita, ex vicedirettore della Gazzetta e poi direttore di Tuttosport, anch’esso quotidiano nazionale anche più aderente alla specifica utenza di Juventus e Torino, per un confronto con Maurizio Zaccone e chi scrive, moderato assieme a Umberto Chiariello e sintetizzato nel video per racchiudere in pochi minuti le due ore di talk.

Con un’informazione condizionata non solo nello sport dalle esigenze dei lettori di riferimento e dalle pressioni degli editori, Napoli senza voce combatte una battaglia mediatica ad armi impari contro il Nord, ma, come si capirà ascoltando l’interessantissimo dibattito, senza tacere.

La chiamarono Calciopoli

Angelo Forgione Significativa, quantunque silenziosa e silenziata, è giunta la sentenza della Cassazione sulla causa intentata anni fa alla RAI dal compianto Oliviero Beha. La tivù di Stato dovrà dovrà riconoscere alla famiglia del giornalista 180.000 euro per il demansionato nel suo ruolo di vicedirettore di RaiSport tra il 2008 e il 2010, anni di fuoco del processo a Calciopoli. Una sentenza che ha rinvigorito l’autodifesa di Luciano Moggi, uomo simbolo di quella squallida vicenda, che è tornato a dichiararsi innocente.
Ne abbiamo parlato con lui a Punto Nuovo Sport Show (Radio Punto Nuovo), condotto da Marco Giordano e Umberto Chiariello. L’ex DG bianconero non è stato tenero con l’attuale gestione della Juventus, e si è detto vittima di una cospirazione dell’intero mondo del calcio italiano. Forse fu più vittima delle vicende interne alle Juventus. A tal proposito, sul suo rapporto con John Elkann ha preferito glissare e non rispondere.
Un po’ di chiarezza su quello che fu il solito scontro di poteri tra le grandi del Nord, e pure tra gli eredi di Gianni e Umberto Agnelli. Un pentolone solo parzialmente scoperchiato.

Due squadre meridionali promesse ogni anno in Serie A?

Angelo Forgione Il Coronavirus ha fermato il calcio e gli ha dato la possibilità di riflettere sul futuro, che non si preannuncia roseo per i club professionistici e dilettantistici. In un calcio professionistico poco attraente in cui ci si indebita facilmente, con una Serie A senza pubblico e neanche più attesa in tempo di pandemia e lutti, i club del Sud rischiano di pagare anche più di quelli del Nord, perché la “questione meridionale” è anche questione calcistica. In questo panorama il #Napoli rappresenta un’eccezione e offre ormai solide garanzie per competenza manageriale e bilanci sani, pur con i due grandi limiti della disattenzione ai vivai e dell’assenza di impiantistica sportiva propria. Qualcuno spiffera, non senza smentite, che il Consiglio Federale del 20 maggio possa apparecchiare la riforma della Serie B (e di C e D), mettendo sul tavolo la proposta di una “cadetteria” composta da due gironi territoriali da 20 squadre ciascuno, uno del Centro-Nord e un altro del Centro-Sud, in modo da garantire sostenibilità all’intero movimento in affanno economico e anche un’equa distribuzione territoriale delle promozioni, due per ogni raggruppamento.
Ne ho parlato con Umberto Chiariello e Peppe Iannicelli a Campania Sport (Canale 21), in compagnia di Pino Aprile, con il quale si è ampliato il discorso al ribaltamento degli stereotipi generato dall’irruzione inaspettata (o quasi) del Covid-19.

90 anni fa nasceva la Serie A. A Napoli la prima “radiocronaca”

Angelo Forgione6 ottobre 1929, esattamente 90 anni fa. Era domenica, come oggi, e partiva il primo campionato italiano di calcio a girone unico, denominato Serie A, voluto dai gerarchi fascisti, che esercitavano il loro effetto anche sul Foot-ball, pardon, calcio. Già, perché a Mussolini i termini stranieri proprio non andavano giù e conveniva cancellarli, come tutto ciò che richiamava nel nome l’Internazionale comunista. L’Internazionale si era rinominata Ambrosiana, l’Internaples aveva optato per la più semplice denominazione Napoli, il Genoa in Genova, e via così. 18 squadre, quasi tutte del Nord, tranne il Napoli, la Roma e la Lazio, più o meno come oggi, per la gioia dei gerarchi a capo di CONI e FIGC, ai quali una parvenza di Italia unita almeno nel calcio, come non lo era mai stata, faceva gioco alla proiezione del nazionalismo imperante.
In realtà, il girone unico avrebbe dovuto partire già dal 1926, ma la volontà del regime di integrare il Sud nel campionato aveva fatto rinviare il progetto di altri tre anni. Il movimento meridionale, emarginato per 28 anni, non aveva potuto svilupparsi come quello settentrionale, monopolizzato dagli uomini del Nord a capo della Federazione, e allora le squadre di Roma e Napoli avrebbero dovuto avere il tempo di adattarsi, a suon di fusioni e ripescaggi.
Nell’estate 1928, Leandro Arpinati, fascista di spicco in quel di Bologna, una volta impossessatosi della Federazione, pensò al “girone unico” e stabilì che la stagione 1928/29 avrebbe qualificato 16 squadre per la successiva “Divisione Nazionale di Serie A”, ovvero le prime otto classificate di ognuno dei due gironi di Nord e Sud. Solo che a fine campionato le già ripescate Napoli e Lazio conclusero appaiate all’ultimo posto disponibile al Sud per la nuova Seria A. Gli azzurri, all’ultima giornata, uscirono indenni dalla trasferta sul campo dei biancocelesti e riuscirono a guadagnarsi lo spareggio in campo neutro, che si disputò a Milano una settimana dopo, il 23 giugno.
Quella domenica di primissima estate fu molto calda a Milano, per la presenza di cinquemila sostenitori laziali e, in maggioranza, napoletani. E fu caldissima nella Roma biancoceleste ma soprattutto a Napoli, non solo per la temperatura ma anche per la già smisurata passione dei tifosi azzurri, radunati in centro dal giornale locale Il Mezzogiorno Sportivo, che inviò un giornalista a San Siro per seguire la partita e poi trasmettere in diretta la narrazione della partita ai colleghi a Napoli, che avrebbero raccontato minuto per minuto le fasi salienti della partita ai tifosi. L’esperimento era stato già provato con successo sette giorni prima, e il giornalista Felice Scandone, fondatore della testata, ne aveva decretato il successo dalle pagine dello stesso giornale, raccontando che durante il match di Roma “la folla era diventata imponente, fino a interrompere il servizio pubblico a Piazza S. Ferdinando (oggi Trieste e Trento), ove aveva sede la redazione. I giornalisti napoletani si erano inventati il primo “live” per una squadra di club.
galleria_umberto_serieaA quel tempo non esisteva Tutto il calcio minuto per minuto e nemmeno la figura dell’inviato sportivo, e quella trovata fu talmente pionieristica e innovativa che i trepidanti tifosi napoletani si riunirono in massa sotto la sede del quotidiano, fino a riempire la vicina Galleria Umberto I, per avere notizie dell’importante spareggio in tempo reale.
Michele Buonanno, a Milano, comunicava i suoi resoconti a Felice Scandone, a Napoli, il quale avvisava dal balcone la folla sottostante. Apprensione al vantaggio della Lazio al 17′, tenuto fino all’intervallo, ma l’azzurra marea esplose di gioia due volte in un quarto d’ora del secondo tempo per il pareggio e il vantaggio del Napoli tra il 55′ e il 69′, prima del pari amaro degli aquilotti romani all’80’ che fissò il risultato sul 2-2, anche dopo i tempi supplementari. Partita da ripetere e verdetto rimandato di sette giorni.
Si verificò, tuttavia, una situazione molto italiana, tutta una serie di compromessi durante la settimana che portava al secondo spareggio. Una delegazione di dirigenti della Triestina, approfittando della situazione, si recò in Federcalcio, chiedendo di ammettere la squadra giuliana alla nascente Serie A come prima retrocessa del Nord nella stagione appena conclusa, adducendo la provenienza da una zona che da sempre aveva rappresentato un «focolaio di patriottismo», fin dai tempi della Prima Guerra Mondiale contro l’Austria. I dirigenti di Napoli e Lazio, appreso della richiesta triestina, pressarono per non tornare a spareggiare in campo, ben sapendo tutti quale valore avesse il patriottismo per Mussolini e per il fascismo. Triestina, Venezia e Fiumana, infatti, l’estate precedente, erano state ammesse d’ufficio al Girone Nord per portare nel calcio le rappresentanze dei territori della Venezia Giulia annessi all’Italia nel 1919 dopo la Grande Guerra e simboli dell’Unità completata.
A rallegrare tutti, napoletani, laziali e triestini, ci pensò Arpinati, che, con il benestare del Duce, decise di ammettere i tre club nel massimo campionato di Serie A, allargandolo a 18 squadre. Fece comodo che fosse proprio la Triestina la prima da ripescare del Nord, per evidenti questioni patriottiche. Così fu garantita una maggiore rappresentanza sia alle squadre meridionali che alla Venezia Giulia, da un decennio riscattata dal Regno d’Italia.
La prima stagione a girone unico, la Serie A, partì appunto il 6 ottobre 1929. Prima giornata e fu subito Juventus-Napoli, con vittoria di misura dei bianconeri (3-2). Dopo 34 giornate, a spuntarla per la terza volta fu l’Inter, pardon, Ambrosiana, negando al Genoa, pardon, Genova, lo scudetto della stella (del Nord) mai acciuffato. Il Calcio del Sud si fece finalmente onore, conquistando il quinto posto col Napoli e il sesto con la Roma. Lazio salva, come la Triestina. Accadeva 90 anni fa.
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per approfondimenti: Dov’è la Vittoria (Angelo Forgione)

Juventus-Napoli, il vero derby del Sud

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Angelo Forgione – Se pensate che Juventus-Napoli sia Nord contro Sud, Torino opposta a Napoli, vi sbagliate. Juve-Napoli è il vero derby del Sud!
Si tratta delle due squadre più tifate nel Mezzogiorno, una con seguito primeggiante in tutte le regioni meridionali, tranne la Campania, dove l’altra genera fortissima identificazione. La Juventus intercetta la passione di Sicilia e Calabria, dietro solo a Lombardia e Piemonte, e poi di Abruzzo, Puglia, Basilicata e la stessa Campania, dove però cede il primato al Napoli e non compie la cancellazione dell’identità territoriale, così come in Sardegna, là dove primeggia il Cagliari.

La geografia del tifo meridionale è figlia di una passione storica costruita a tavolino al culmine dell’ondata migratoria avutasi a Torino negli anni 70, quando il capoluogo piemontese divenne la terza più grande città “meridionale”
d’Italia dopo Napoli e Palermo e gli Agnelli fecero leva sull’attaccamento agli idoli meridionali in maglia bianconera per promuovere l’integrazione degli operai e contenere le rivendicazioni sindacali. E così i calciatori del Sud vennero scelti per incontrare il favore dei meridionali in fabbrica e dei loro parenti rimasti a casa.

Oggi la fidelizzazione bianconera segue dinamiche psicologiche. Lo juventinismo, anche più del milanismo e dell’interismo, cresce allontanandosi dai nuclei territoriali delle squadre con seguito identitario ampio e attecchisce nei piccoli e medi centri che non riescono a emergere nel calcio che conta. Un bambino di Messina, Catanzaro, Matera, Brindisi, Teramo e altre province fuori dai grandi giochi, senza una storia calcistica e lontane dai grandi capoluoghi, fa più facilmente una scelta che gli consenta di partecipare, di non sentirsi escluso, e per convenienza inconscia si affeziona alla squadra forte, quella che vince, meglio ancora se ha già vinto tanto in passato.

Nelle regione meridionali a prevalenza juventina è spesso adottata una fedeltà doppia: per la squadra locale, che non ha legami stretti con la vittoria, e per quella in grado di vincere, che non ha legami stretti col territorio. È un’assicurazione sulla partecipazione al divertimento.
In Campania, più che nelle altre regioni, e specialmente nella popolosissima provincia di Napoli, non esiste un problema di presenza, di competitività e di radicamento territoriale. Il napoletano, come il romano, il milanese, il torinese e il fiorentino, non sostiene la squadra della sua città e la Juventus allo stesso tempo. O l’una o l’altra! Ed è soprattutto il Napoli.
Ecco perché il tifo napoletano, il quarto per bacino in Italia, si concentra soprattutto all’ombra del Vesuvio, e inizia a disperdersi allontanandosi dal vulcano, unico baluardo identitario del tifo, molto più che il Colosseo, conteso da romanisti e laziali, che il Duomo, spaccato tra interisti e milanisti, che la Mole, divisa tra granata e bianconeri.
Tutto il resto non ha nulla a che vedere con l’identificazione territoriale ma è piuttosto il modo più facile per recitare, da meridionali, un ruolo da protagonista in pubblico. Perché Napoli c’è e il resto del Sud, purtroppo, non ce la fa ad esserci, a meno che non si aggrappi al Napoli o, come più spesso accade, alla Juventus o alle milanesi.

In libreria l’edizione 2019 di ‘Dov’è la Vittoria’

È in distribuzione presso le librerie, su Amazon, Ibs, etc. l’edizione anno 2019 di Dov’è la Vittoria, la terza. Non solo aggiornamento di dati e statistiche ma anche integrazione dell’ultimo fattaccio del calcio italiano: “Calciomafia in Piemonte – porte aperte ai malavitosi in casa Juve”.
Consigliato dagli addetti ai lavori a chi vuol davvero capire il calcio italiano nonché la Questione meridionale.

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