Gallerie d’Italia cancella la grande Napoli neoclassica

Angelo Forgione Lo chiamano “il Cavallo colossale”. È il modello in finto bronzo (gesso verniciato) del cavallo su cui monta Ferdinando di Borbone in Largo di Palazzo, al secolo Piazza del Plebiscito, a Napoli. Monumento equestre di Antonio Canova il cui cavallo prototipale, appena restaurato, è esposto da oggi, e fino al 6 aprile 2026, al museo di Milano delle Gallerie d’Italia di Intesa San Paolo, in occasione della mostra “Eterno e visione. Roma e Milano capitali del Neoclassicismo”. Una mostra sull’arte nell’età napoleonica che Gallerie d’Italia, sul suo sito istituzionale, presenta così:

“Alla decadenza dei grandi centri artistici, come Firenze, Venezia, Genova e Napoli, si sottraggono solo Roma e Milano”.

Ma come? Napoli decadente in epoca neoclassica? Tutt’altro! Fu propio Napoli a riscoprire il classicismo con gli scavi vesuviani e quelli di Paestum, e a propagare la corrente che negò le ridondanze e le finezze barocche, stimolando una formula creativa imperniata sul passato remoto e dimenticato, per una nuova coscienza culturale nel campo delle arti.
E se a Roma i Papi capirono che le vestigia ereditate dalla remotissima grandezza imperiale andavano recuperate, diversamente dai secoli precedenti in cui tutto il patrimonio del passato era stato lasciato al sostanziale abbandono, avvenne perché Napoli si scoprì culla dell’archeologia moderna grazie alla volontà dei Borbone di avviare gli scavi, produrre volumi descrittivi e illustrativi delle preziosità rinvenute, e allestire esposizioni di reperti e di sculture.

Napoli, nel secondo Settecento, uscì dalla marginalità in cui era piombata con la dominazione austriaca e divenne meta culturale dell’intellettualità del tempo. E chi già lavorava a Napoli in piena epoca tardo barocca riesumò gli elementi architettonici dei modelli ercolanensi e pompeiani, reinterpretandoli nelle forme delle loro nascenti costruzioni, vedi Luigi Vanvitelli con la Reggia di Caserta e Ferdinando Fuga con il Real Albergo dei Poveri di Napoli.

Il maggior studioso dell’epoca, lo storico dell’arte tedesco Johann Joachim Winckelmann, si fiondò più volte a visitare e studiare le scoperte vesuviane, spingendosi sino a Paestum, considerandoli con enorme meraviglia “le più antiche architetture conservate fuori l’Egitto”. Trascrisse ciò che vide nel suo trattato Storia delle arti del disegno presso gli antichi, pubblicato nel 1764, diffondendo in tutt’Europa le notizie dei rinvenimenti napoletani. Fu lui a eleggere l’arte classica come modello di perfezione e a definire le basi dell’archeologia moderna, nuova scienza partorita nei dintorni del Vesuvio, fonte di un nuovo gusto delle arti: il Neoclassicismo.
Qualche anno più tardi, Giovanni Battista Piranesi realizzò le incisioni dei templi greci di Paestum, contribuendo alla conoscenza di certe scoperte in tutto il Continente.

Ferdinando di Borbone cancellò la proprietà privata per tutte le collezioni appartenenti alla sua famiglia e lasciate a Napoli dal padre Carlo, per renderle pubbliche e consegnarle alla città. Decise quindi di predisporne la riunione in un unico luogo della straordinaria raccolta di reperti vesuviani con la preziosissima parte scultorea della Collezione Farnesiana. E così nacque il Museo generale (oggi MANN – Museo Archeologico Nazionale), il primo museo continentale, dove furono sistemate le inestimabili sculture greche di famiglia, fatte portare via mare da Roma con fortissima irritazione di papa Pio IV.
Wolfgang Goethe, a Roma, il 16 gennaio del 1787, annotò nei suoi appunti di viaggio alcune riflessioni sulle ambiziose intenzioni del sovrano napoletano:

“Roma sta per perdere un grande capolavoro dell’arte. Il re di Napoli farà trasportare nella sua residenza l’Ercole Farnese. Gli artisti sono tutti in lutto, ma intanto avremo occasione di vedere quanto era nascosto ai nostri predecessori”.

Era questa la capitale che Antonio Canova frequentò tra il 1780 e il 1822, lavorando enormemente come per nessun’altra città, per committenza reale e privata. Capitale (anche) del Neoclassicismo, corrente che conquistò Milano grazie al governatore austriaco in Lombardia, il conte Karl Joseph von Firmian, precedentemente ambasciatore di Vienna a Napoli, dove aveva frequentato Luigi Vanvitelli, da cui fu consigliato di ingaggiare il suo allievo Giuseppe Piermarini, colui che, dopo aver appreso nel cantiere della Reggia di Caserta, fece di Milano un laboratorio neoclassico. Tra tanti edifici, anche una copia della Reggia di Caserta in piena città: il palazzo di Belgioiso.

Per capire cosa significava Napoli per la riscoperta delle classicità basta osservare ancora oggi il ritratto marmoreo di Ferdinando di Borbone che Canova realizzò per accogliere i visitatori al Museo generale. Un Ferdinando in veste di Atena-Minerva, protettrice delle arti con l’elmo della saggezza in capo, allegoria in onore del sovrano che, raggruppando le collezioni di Antichità, aveva lanciato l’immagine neoclassica di Napoli greco-romana, nuova Atene ma anche nuova Roma.

Napoleone, nuovo imperatore di Francia, per celebrare la sua ascesa, faceva declinare a suo modo (stile Impero) il nuovo classicismo di derivazione italiana. Lo aveva apprezzato nei suoi soggiorni a Milano, città che gli era piaciuta molto per le realizzazioni del Piermarini. E a Parigi chiamò lo stimatissimo Canova, che lo accontentò sempre, ma restò fortemente critico circa il saccheggio di opere d’arte italiane. Dalle memorie dello scultore veneto si apprende che egli si oppose all’Imperatore quando questi gli disse che a Parigi doveva restare perché lì si trovavano ormai tutti i capolavori antichi dell’arte. Tutti, eccetto uno:

«Questo è il vostro centro: qui sono tutti i capi d’arte antichi; non manca che l’Ercole Farnese di Napoli, ma avremo anche questo».

Canova gli rispose così:

«Lasci Vostra Maestà almeno qualche cosa all’Italia. Questi monumenti antichi formano catena e collezione con infiniti altri che non si possono trasportare né da Roma, né da Napoli».

E Bonaparte come provò a rilanciare? Proponendo quale risarcimento ciò che il Papa non aveva fatto per Roma, ovvero l’avviamento degli scavi archeologici sul modello dei Borbone di Napoli:

«L’Italia potrà rindennizzarsi cogli scavi. Io voglio scavare a Roma: ditemi, ha egli il Papa speso assai negli scavi?»

Roma papalina sì che era una città decadente. Le sue casse furono oggetto di discussione tra i due, e Napoleone, in vista di una futura nazione italiana unificata sotto il suo dominio, promise attenzione per quella povera capitale decaduta e assai distante dal prestigio dei tempi in cui era stata padrona del mondo:

«La faremo capo d’Italia, e vi uniremo anche Napoli. Che ne dite? Sareste contento?».

Perché Napoli era la città più importante, oltre che la più popolosa, di quella Italia. E sarebbe questa la decadenza partenopea in epoca neoclassica di cui parlano quelli di Gallerie d’Italia? Napoli, la culla dell’Antico riscoperto e dell’archeologia – restando solo alle arti figurative – , era la vera capitale del Neoclassicismo, di cui beneficiarono Roma e Milano, ma non solo. Del resto, il “Cavallo colossale” di Canova fu modello per un monumento equestre per Napoli, con tutta la Basilica neoclassica retrostante e i palazzi laterali, anch’essi neoclassici. Anzi, due monumenti. Cavalli e cavalieri, una volta approntati tutti i modelli, furono fusi a San Giorgio a Cremano dal fabbro di fiducia di Canova, il romano Francesco Righetti, in una fonderia aperta appositamente nel 1816 in un capannone nei pressi di Villa Bruno, zona che oggi è identificata con il nome di “Cavalli di Bronzo”. Bronzo, come la faccia di chi continua a sminuire la grande storia di Napoli.

per approfondimenti:
Napoli svelata, Angelo Forgione (Magenes, 2022)
Napoli capitale morale, Angelo Forgione (Magenes, 2017)

Alta delinquenza al Nord (e il Ministero smentisce i pregiudizi sul Sud)

Angelo Forgione Puntuali, giungono gli indici di criminalità elaborati da Il Sole 24 Ore in base ai dati forniti dal dipartimento di Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno e relativi al numero di delitti commessi e denunciati nel 2024. La maglia nera per numero di reati riportati spetta ancora una volta alla provincia di Milano, che mantiene la poco lusinghiera leadership conseguita nel 2016, allorché scalzò Roma, oggi terza, appena scavalcata da Firenze. Dietro incalza Bologna, che sorpassa Rimini e Torino.
Per trovare una città sotto Roma bisogna scorrere fino al tredicesimo posto di Napoli, che retrocede (cioè migliora) di una posizione rispetto all’anno precedente (nel 2016 era terza). Poi Catania e Palermo ai posti ventitré e ventiquattro. Foggia e Siracusa alle posizioni ventisei e ventisette.

Una classifica che non indica particolari novità, così come non è nuova l’analisi applicata: «Nord infestato dal crimine, ma al Sud si denuncia meno che nel resto d’Italia», dicono Marta Casadei e Michela Finizio, le giornaliste de Il Sole 24 Ore che hanno analizzato l’indagine:
“Alle complessità delle grandi città si affianca, in alcuni territori, una maggiore propensione alla denuncia. Questo aspetto emerge in modo evidente, affiancando i dati di Milano (6.952 reati ogni 100mila abitanti) a quelli molto inferiori di Napoli (4.479) o di Palermo (3.936)”.

Tecnicamente, si tratta di impossibilità di individuare il cosiddetto “numero oscuro”, ossia la differenza tra il numero effettivo di reati commessi (tentati e consumati) e quelli che vengono denunciati e registrati dalle statistiche ufficiali. È un indicatore della criminalità sommersa, non rilevata perché influenzata da fattori come il timore della vittima, la scarsa tolleranza sociale e l’inefficienza delle Forze dell’Ordine. Gli omicidi, per fare l’esempio più evidente, difficilmente sfuggono – specie quando consumati – alla rilevazione. Non è lo stesso per un reato come il furto, dove è forte la tendenza da parte della vittima a valutare costi e benefici per decidere se denunciare l’accaduto. In altri casi, ad esempio nei reati a sfondo sessuale, sono invece fattori di tipo culturale o, come nell’usura, il particolare rapporto tra l’autore e la vittima a influire sulla decisione di denunciare o meno il reato subito. Nel caso delle violenze sessuali, ad esempio, vengono denunciate meno del dieci percento dei casi.
Il fatto è che la criminalità è un concetto assai complesso. Esistono una criminalità reale e una criminalità percepita. A mettere ordine ci ha pensato qualche tempo fa il Ministero dell’Interno, informando in un suo Rapporto sulla criminalità che la visione di un Sud peggio messo del Nord e del Centro è del tutto discriminatoria, retaggio del razzismo positivista del secondo Ottocento, e che il Meridione, tutto sommato, non sta peggio degli altri territori. Al punto 2, nell’analisi Le regioni settentrionali e meridionali, si legge:

“Ogni reato ha una sua precisa distribuzione a livello territoriale che è riconducibile a quelle caratteristiche che distinguono i borseggi dagli scippi e dai furti in appartamento. Ad esempio, questi ultimi sono più diffusi al Nord, mentre al Sud si rileva un maggiore numero di scippi.
Questa è un’osservazione importante da tenere a mente perché smentisce l’opinione comune che tutti i reati siano in larga misura più frequenti nel Sud rispetto al Nord Italia. Si tratta di una credenza piuttosto diffusa e duratura nel tempo che si può far risalire alla scuola positivista italiana alla fine del XIX secolo quando venivano attribuiti i più alti tassi di delinquenza – sia violenta che contro la proprietà – al meridione sulla base di aspetti razziali e indicatori socioeconomici delle due aree geografiche. È invece possibile distinguere storicamente tra i reati contro la proprietà effettivamente più frequenti nel Nord e i reati violenti più diffusi al Sud. Nel caso dei furti, furti in appartamento e borseggi avvengono di più al Nord e gli scippi al Sud. Ciò non dipende, come sostengono alcuni, da una diversa propensione a denunciare i reati subiti da parte dei cittadini sulla base di un supposto maggior senso civico di chi vive nelle regioni settentrionali. Le indagini di vittimizzazione hanno infatti mostrato che si denuncia di più quanto più alto è il valore della refurtiva e quando è stata stipulata una relativa assicurazione. I diversi tassi di furti, scippi e borseggi tra Nord e Sud si spiegano meglio sulla base delle opportunità che si presentano sul territorio e in base agli stili di vita e alle attività della popolazione.”

Tradotto in soldoni, è proprio il Ministero degli Interni ad avvertire che, dappertutto, quanto più è alto il valore della refurtiva tanto è più alta la necessità di denunciare, soprattutto in presenza di polizze assicurative. Per fare un esempio, al furto di un braccialetto, ad ogni latitudine italiana, corrisponde una bassissima percentuale di denunce, mentre al furto di un’automobile corrisponde un’altissima percentuale.
Sulla base di questo assioma, è sempre il Ministero ad dirci che la minore propensione a denunciare del Sud è influenzata dalle tipologie di reati più frequenti (gli scippi), ai quali corrispondono refurtive meno preziose di quelle dei reati più frequenti al Nord, là dove c’è più benessere ad allettare il crimine.

Dunque, se pur può essere vero che il Sud contribuisca maggiormente al “numero oscuro”, è fattuale che i reati non denunciati, quelli più spiccioli, se considerati e sommati, non raggiungerebbero il valore dei reati più frequenti al Nord, tra truffe seriali e furti di beni preziosi.
Non è una novità. Già a fine Ottocento, quando proprio il Positivismo dei Lombroso, Niceforo e altri propagandisti della borghesia settentrionale plasmava l’opinione pubblica anti-meridionale e alimentava il pregiudizio settentrionale, il politico Napoleone Colajanni analizzò la delinquenza della città di Napoli in confronto a quella di Milano, dimostrando che, dati del triennio 1896-1898 alla mano, i reati complessivi nella città lombarda, che allora contava meno abitanti di quella campana e non ospitava meridionali ed extracomunitari, erano in numero maggiore che in quella campana. Ciò nonostante l’eccessiva pressione daziaria del Regno d’Italia dei Savoia cui erano stati sottoposti i napoletani, superiore a quella esercitata sui milanesi, avesse comportato, tra il 1872 e il 1899, sofferenti condizioni di povertà e parassitismo. I dati furono commentati da Francesco Saverio Nitti nella sua pubblicazione Napoli e la questione meridionale del 1903 (vedi immagine a destra).
Tanto per chiarire che poco o nulla è cambiato da oltre un secolo a qui, e che si continua a considerare più la criminalità percepita che quella reale. Quelle tra Napoli e Milano si invertono a seconda che si tratti di notizie riportate dai media o di esperienza personale sul territorio. Retaggio perpetuo del razzismo positivista.

Maurizio de Giovanni e Angelo Forgione: Napoli, la sua storia e la sua cultura

Un momento della discussione sulla lingua napoletana in occasione della presentazione di Napolitiamo presso il bellissimo complesso monumentale di Santa Maria la Nova in Napoli del 28/9/25.

Prossimi appuntamenti

4 luglio – Cancello ed Arnone (Caserta)
ore 19:00, Villa Comunale
“Napoli tra Sport e Cultura” (rassegna “I Colori dell’Estate”)

9 luglio – Napoli
ore 18:00, Feltrinelli Chiaia (via santa Caterina a Chiaia, 23)
presentazione Napolitiamo
(con Maurizio de Giovanni, Fabrizio Mandara ed Errico Liguori in arte Masaniello)

12 luglio – Quartu Sant’Elena (Cagliari)
ore 18:00, Sala degli Affreschi dell’Ex Convento dei Cappuccini (via Brigata Sassari, 35)
presentazione Napolitiamo

Carlo d’Inghilterra il garibaldino

Angelo Forgione – Non avevo molti dubbi sul fatto che Carlo d’Inghilterra, nel suo discorso alla Camera durante la visita ufficiale a Roma, citasse con grande orgoglio «il sostegno all’unificazione dell’Italia». Si è limitato alla presenza delle navi britanniche (l’Argus e l’Intrepid) a proteggere lo sbarco di Garibaldi a Marsala, approdo non casuale ma luogo designato perché lì vi era una vastissima comunità inglese coinvolta in grandi affari, tra cui la viticoltura.
Neanche ne avevo, di dubbi, sul fatto che facesse riferimento all’ottocentesca garibaldimania degli inglesi e il visibilio dei londinesi per la visita del Generale del 1864.

Quella citata dal Re britannico fu la quarta sortita di Garibaldi in Inghilterra, nell’aprile di quell’anno, dopo aver occupato i territori del Sud-Italia e averli consegnati a Vittorio Emanuele II. Più di mezzo milione di persone affollarono le strade percorse dalla sua carrozza (nell’illustrazione la folla a Trafalgar square) tra il più totale giubilo per l’uomo avverso al Papa e alla Chiesa cattolica che aveva spinto all’esilio l’odiato cattolico Borbone, cioè per il rafforzamento dell’egemonia imperiale anglosassone.

Durante la sua permanenza a Londra, il Generale fu accolto, tra gli altri, dal primo ministro Lord Palmerston, suo sobillatore e protettore, nonché Gran Maestro della Massoneria di Rito Scozzese. Il nizzardo l’aveva incontrato nel 1846, ricevendo appoggio per l’impresa garibaldina a difesa dell’indipendenza dell’Uruguay, dove nel 1844 era stato iniziato alla massoneria (a Montevideo), e incoraggiamento e promessa di appoggio per eventuali sollevazioni in Italia.

Nel 1854, l’anno della concessione ai francesi della realizzazione del troppo favorevole al Sud Italia Canale di Suez, aveva pure incontrato “politici e grossi imprenditori” britannici a Tynemouth (Newcastle), nel nord-est dell’Inghilterra, per ottenere armi e munizioni da ricevere segretamente dal protettorato inglese di Malta, prima di intraprendere la campagna per la spedizione al Sud, durante la quale fu protetto dalle navi inglesi, sia nelle acque siciliane che in quelle napoletane. Garibaldi aveva ricevuto anche il danaro per corrompere gli ufficiali borbonici, e la scottante contabilità del suo esercito, affidata a Ippolito Nievo, sparì poi nel misterioso naufragio del piroscafo Ercole a largo di Capri. Del resto, Torino e Londra erano le capitali massoniche di quell’Europa, e Garibaldi fu nominato Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia nel 1862 proprio a Torino, dopo l’invasione del Mezzogiorno.

Prima dell’invasione garibaldina del Sud, Palmerston, in una lettera alla regina Vittoria, aveva scritto:

“Considerando la generale bilancia dei poteri in Europa, uno Stato italiano unito, posto sotto l’influenza della Gran Bretagna ed esposto al ricatto della sua superiorità navale, risulta il miglior adattamento possibile […]. l’Italia non parteggerà mai con la Francia contro di noi, e più forte diventerà questa nazione più sarà in grado di resistere alle imposizioni di qualsiasi Potenza che si dimostrerà ostile al Vostro Regno”.

Vi era da sopprimere uno stato nel Mediterraneo pronto a beneficiare della vicinanza all’istmo da aprire in Egitto; vi era da eliminare il più grande impedimento alla formazione di uno Stato nazionale italiano laico, totalmente depurato dal cattolicesimo; vi era da spazzar via uno stato non solo amico di Pio IX ma pure alleato con il temuto Zar Nicola di Russia; vi era da sopprimere uno stato governato da un re spavaldo e assolutista [Ferdinando II] che faceva di testa sua e se ne infischiava delle pretese di riconoscenza dei britannici per la protezione nel periodo francese, tra il 1799 e il 1815.

Nel corso del viaggio a Londra del 1864, in una delle tappe, quella al Crystal Palace, per rispondere alle dimostrazioni di simpatia, Garibaldi pubblicamente dichiarò:

“Senza l’aiuto di lord Palmerston, Napoli sarebbe ancora sotto i Borbone; senza l’ammiraglio Mundy, io non avrei giammai potuto passare lo stretto di Messina. Se l’Inghilterra si dovesse un giorno trovare in pericolo, l’Italia si batterà per essa”.

E infatti la Marina britannica aveva impedito a quella francese di affondare i garibaldini che attraversavano lo stretto per dirigersi in Calabria.

Quando Garibaldi arrivò a Napoli, il 6 Settembre 1860, una delle due navi della Royal Navy a Marsala, l’Intrepid, era lì, davanti al litorale di Santa Lucia, da dove poteva tenere sotto tiro il Palazzo Reale. Una presenza costante e incombente, sempre rassicurante per Garibaldi, una garanzia per la riuscita dell’impresa dei “più di mille”. l’Intrepid lasciò Napoli il 18 Ottobre 1860 per tornare definitivamente in Inghilterra, dando il cambio all’Hannibal, proprio mentre Garibaldi, “dittatore di Napoli”, donava agli amici britannici un suolo a piacere su cui erigere quella cappella protestante che Londra aveva sempre voluto costruire per gli inglesi di Napoli ma che i fortemente cattolici Borbone non avevano mai consentito di realizzare, pur consentendo le celebrazioni nella legazione britannica di Palazzo Calabritto in piazza della Pace, l’attuale piazza dei Martiri. Il luogo venne designato in via San Pasquale a Chiaia, dove era un maneggio per cavalli di proprietà dell’esercito borbonico, e la cappella della Chiesa anglicana è ancora lì, a testimoniare di un’affermazione londinese sul nemico napoletano e di una riconoscenza tra frammassoni.

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Il Generale abbandonò Napoli per Caprera il 9 novembre, dopo aver salutato privatamente l’ammiraglio Kodney Mundy sull’Hannibal, ringraziandolo per il decisivo aiuto ricevuto dal regno britannico.

L’anticristo della pizza

Angelo Forgione E così, nel cuore di Napoli invaso dai turisti, è caduto sulla pizza il muro dell’integralismo napoletano. La pizza con l’ananas non è più un tabù. L’ha demolito Gino Sorbillo, quantunque non sia stato il primo, tra i più noti pizzaiuoli, a usare il particolare frutto tropicale. È semmai il primo a far parlare di sé per il sacrilegio dell’ananas (a fette) sulla pizza napoletana.

Non è sicuramente un sacrilegio impiegare la frutta sulla pizza. Chi sostiene che lo sia non sa che i napoletani, nel primissimo Ottocento, hanno rivoluzionato il disco di pasta condito mettendovi sopra proprio un frutto esotico: il pomodoro. Sì, il pomodoro è esattamente un frutto sotto il profilo botanico, anche se sotto il profilo gastronomico viene comunemente ed erroneamente considerato un ortaggio.

Sia il pomodoro che l’ananas stanno bene con il salato perché frutti acidi e dolci, anche se il primo meno acido e dolce del secondo, e non sempre, dacché il pomodorino giallo è decisamente più dolciastro del rosso, quindi non troppo distante dall’ananas.
Il vero problema sta dunque nell’addizione dell’ananas al pomodoro, unione che crea eccessivo scompenso di acidità, tradotto in debolezza del gusto e scarsa digeribilità. Pensò male di mettere insieme i due frutti l’inventore della “hawaiana”, il greco Sam Panopoulos, in Canada, dopo aver assaggiato varie pizze a Napoli.

Franco Pepe, prima di Gino Sorbillo, ha messo nel menu del suo Pepe in grani di Caiazzo la Ananascosta, un cono con ananas avvolto nel prosciutto crudo, fonduta di Grana Padano e spruzzata di polvere di liquirizia.
Francesco Martucci, a I Masanielli di Caserta, propone la Annurca, con purea di mela annurca in infusione di vaniglia, guanciale croccante di suino grigio ardesia, fior di latte e, all’uscita, conciato romano.

Questi e altri noti pizzajuoli che hanno usato ananas, mele, albicocche o altri frutti acidi e semi-acidi per le loro proposte innovative hanno evidentemente evitato di addizionarli al pomodoro. E hanno pure ricercato un equilibrio tra il dolce e il salato, come avviene con prosciutto e melone, formaggio con le pere e altri abbinamenti che mangiano serenamente, finendo per abbinare la frutta a ingredienti salini e sapidi, strada percorsa anche da Gino Sorbillo, che ha voluto rumoreggiare più che innovare, sapendo che nel cuore di Napoli sarebbero arrivati più giornalisti che clienti a chiedere della sua nuova pizza. Renderebbe anche culturale l’operazione se alzasse il livello del dibattito spiegando che non è l’ananas sulla pizza ma l’ananas col pomodoro il vero sacrilegio.

See Naples and then die


Angelo ForgioneNapulitanamente è un magazine cartaceo e online che si occupa della divulgazione della cultura napoletana e del patrimonio partenopeo all’estero, spaziando dall’intero Sud Italia a tutta l’area mediterranea, da Napoli a Teheran. Si tratta di un progetto editoriale libero e indipendente che, in meno di tre anni, ha pubblicato, con buon successo nel mondo, 6 numeri, più due extra, con articoli e interviste su storia napoletana, lingua, tradizioni, arte, artigianato, musica, teatro, cinema, filosofia, tecnologia, cucina, business e molto altro.
Nel n.7, appena pubblicato, spazio anche per me. Qui di seguito, la traduzione in italiano delle pagine a me dedicate, anche riportate sul sito napulitanamente.com.

Vedi Napoli e poi muori

Angelo Forgione sfata i miti napoletani e svela la realtà

di A. Sujit

Angelo Forgione, giornalista e scrittore, si occupa di cultura, di costumi e di storia di Napoli e del Sud Italia, oltre ad avere cura dell’integrità grammaticale e ortografica della lingua napoletana e a essere famoso anche perché esperto di sport. Nonostante il suo stretto legame con la terra e lo stile di vita napoletani, ha una visione assolutamente obiettiva, e le sue opinioni sono piuttosto significative. Leggendo i suoi saggi, quindi, è facile comprendere la reale situazione in cui si trovano i napoletani.

Per più di 150 anni, l’Italia ha diffuso miti negativi su quello che un tempo era il Regno di Napoli, che comprendeva tutto il Sud Italia. Tuttavia, le opinioni dei turisti smentiscono certe false affermazioni e dimostrano che Napoli è una città sorprendente e piena di bellezze. La capitale dell’Italia meridionale continua a impressionare sia i visitatori stranieri che quelli italiani, nonostante la cattiva propaganda di cui spesso soffre. Questo paradiso, abbracciato dal Vesuvio e dai Campi Flegrei, fu un tempo il più popoloso e vivace dello “Stivale”, almeno dal XIV alla metà del XIX secolo. Oggi si rivela un mondo più che una città.

Chi visita Napoli desidera qualcosa di più di un semplice luogo dove rilassarsi; vuole capire cosa vuol dire essere napoletani, assaggiare la deliziosa cucina, conoscere la storia intrigante e sperimentare la vita quotidiana. Forgione ci spiega che il viaggiatore avventuroso è motivato a scoprire come la tenace comunità napoletana abbia perseverato e continui a farlo sfidando due vulcani attivi che hanno il potenziale per causare conseguenze disastrose.

A causa di terribili miti, alcuni dei quali sono ancora diffusi tra gli italiani che vivono in Italia e nel mondo, la maggior parte delle persone, tra cui pure diversi napoletani, non sono a conoscenza delle maggiori ricchezze storiche della città. In alcuni libri di testo italiani distribuiti all’estero, i napoletani e gli abitanti dell’Italia meridionale sono descritti come gente incline al crimine, proprio come li definì Cesare Lombroso. Si tratta, come sostiene Forgione, di uno stereotipo ingiustificato che nasconde i veri grandi scandali nazionali e che hanno origine proprio in quel territorio con maggiori opportunità e capacità di attrarre ricchezza, cioè il Nord Italia, dagli scandali del vino all’etanolo agli appalti per l’Expo di Milano e per il MoSE di Venezia, dal crac Parmalat alle controversie della Juventus della famiglia Agnelli, fino a tutte le multinazionali del Nord e tutte le banche che hanno rubato molto più di tutti i ladri napoletani messi insieme dal dopoguerra a oggi. Spesso, la pulizia morale è stata fatta dai competenti magistrati napoletani.

La corruzione italiana ha raggiunto il suo picco con le gare d’appalto milanesi per l’Expo di Milano del 2015. Di conseguenza, il governo italiano si è visto costretto a costituire l’Associazione Nazionale Anticorruzione. Raffaele Cantone, magistrato napoletano incaricato di preservare la trasparenza e l’integrità delle procedure governative, fu il primo nominato a guidare tale istituzione. Considerata la grande moralità dei napoletani onesti, che costituiscono la netta maggioranza, e la provenienza dei responsabili delle grandi truffe italiane, risulta errato il presupposto che etichetta i partenopei come truffatori. Napoli fu scelta per ospitare il G7 del 1994 per presentare un’immagine diversa del Paese, della sua bellezza regale e del suo significato storico e della pulizia degli appalti, restituendo lustro a una città fino ad allora trascurata dalle istituzioni nazionali e spazzando via alcune spiacevoli percezioni sulla nazione italiana generate dalla Tangentopoli milanese di inizio anni Novanta. La graduale ripresa dell’immagine della città si arrestò bruscamente un decennio fa, ma momentaneamente, per le vicende dei rifiuti nelle strade, causata da un patto scellerato tra malavita campana, massoneria deviata e imprenditoria del Nord. Forgione invita ad informarci sul ruolo che ricoprirono i fratelli veneti Stefano e Chiara Gravioli e la loro cricca, che come altre, tenevano in scacco Napoli in quel periodo, per comprendere quello scenario.

Napoli, in quanto importante centro culturale d’Italia, è detentrice di numerosi primati internazionali, città d’arte tra le primissime d’Italia, culla della cultura occidentale, crogiuolo di stili artistici e di tesori eccezionali. La città accresce la sua immagine di luogo privilegiato di vacanza affrontando questioni moderne e riuscendo comunque ad attirare l’attenzione internazionale. È una destinazione irripetibile, non globalizzata, una città con un patrimonio materiale ed immateriale, intellettuale e storico, che la rende unica. Le principali risorse economiche di Napoli andarono perdute a seguito dell’Unità d’Italia, che fu di fatto una vera invasione. Preconcetti e timori, alimentati da rappresentazioni come quelle di certe serie televisive, possono essere spazzate via solo dopo aver visitato la città; viene così a scopersi una nuova prospettiva che evidenzia i migliori valori della realtà partenopea. Lontano dai luoghi comuni che associano Napoli esclusivamente a spaghetti pizza e mandolino, Forgione sottolinea nel suo libro Made in Naples che Napoli è uno scrigno di cultura, e avverte che il problema sta nel non riuscire a comunicare al mondo che si tratta di un luogo bellissimo con un’identità distintiva, e che affidarsi all’esperienza diretta e al passaparola è un modo inadeguato per interagire con i viaggiatori.

AF: “In Italia, in Europa, nel mondo, c’è uno scrigno da aprire. Dentro vi è custodita una città romantica quanto Parigi, colorata quanto Barcellona, aristocratica quanto Londra, eterna quanto Roma, accogliente quanto Berlino, colta quanto Vienna, sorprendente quanto Istanbul. E, cosa non dappoco, più buongustaia di tutte”.

Tutti possiamo fare molto per sfatare il mito di Napoli città maledetta. Forgione incoraggia i napoletani a impegnarsi nello scambio culturale con il resto del mondo al fine di abbattere le barriere isolazioniste, che i napoletani di oggi creano perché pensano di bastare a loro stessi. Per Forgione, la strada giusta da seguire è quella di porre fine all’ignoranza sostituendo le menzogne con la verità, acquisire una maggiore consapevolezza. Ma prima di tutto, i napoletani devono essere più uniti e non diffidare gli uni degli altri. Afferma che a molti napoletani manca la capacità di fare rete per un obiettivo comune, perché la città non può contare su risorse finanziarie sufficienti e deve competere con territori più ricchi che possono contare su buona pubblicità e valorizzazione. È un’urgente necessità, stante un rozzo e cronico atteggiamento anti-napoletano e anti-meridionale, spesso latente e talvolta manifesto, ma anche una crescente esaltazione neo-meridionalista di pancia che non produce nulla ma fa solo da freno. Bisogna convertire la menzogna in verità, la presunzione in consapevolezza e il rancore in fierezza.

AF: ”Il divario Nord-Sud si manifestò nella seconda metà dell’Ottocento, con le politiche dei governi del Regno sabaudo d’Italia che penalizzarono pesantemente il Mezzogiorno. Per decenni si è raccontata un’altra storia, e cioè che l’arretratezza del Sud preesisteva all’unità, ma la verità è che in quel momento storico non vi era un divario significativo in termini di prodotto interno lordo e una reale differenza tra Nord e Sud, tra due economie di pari livello, pur con specificità produttive diverse. Il Sud, infatti, disponeva di importanti porti commerciali ed era più avanzato del Nord per quanto riguarda l’innovazione tecnologica e il settore estrattivo. Il Nord Italia era all’avanguardia nel settore tessile e beneficiava della vicinanza ai principali mercati continentali. Era semmai tutta l’Italia ad essere arretrata rispetto ai paesi guida del progresso europeo, poiché dipendeva essenzialmente dall’agricoltura.”

La spaccatura fu inizialmente causata dalla moderna industria italiana, che interessò solo una piccola parte del Paese. Ad esso si aggiunse anche il debito pubblico per le guerre per il processo di unificazione del nuovo Stato, che iniziò sommando i debiti di tutti gli Stati preunitari annessi al territorio.

Forgione afferma che la nuova Italia repubblicana è responsabile di non aver colmato il divario, indipendentemente dalla sua origine storica. Nel Dopoguerra, i finanziamenti del Piano Marshall furono impiegati scientificamente per ricostruire le industrie settentrionali e portare gli operai meridionali al Nord, non per portare le fabbriche anche al Sud, e se poi qualcosa si è fatto con la Cassa per il Mezzogiorno è poi risultato effimero, perché la creazione di stabilimenti industriali nel Meridione, senza sviluppare strade e trasporti, ha privato gli stessi della necessaria competitività.

Arretratezza, criminalità e ignoranza facevano parte di tutti i territori italiani preunitari, e al Sud sono cresciuti come accade in tutti i territori più poveri. Perché si continua a raccontare una storia falsa? Per nascondere le colpe dei governi italiani da 160 anni a questa parte.

Forgione sottolinea la necessità di rafforzare l’influenza di Napoli, portando l’esempio della pinacoteca del Museo di Capodimonte, una delle più preziose d’Italia, accostabile per rilevanza e densità di capolavori a quella degli Uffizi a Firenze, di Brera a Milano e della Galleria Borghese a Roma, ma il numero di visitatori non è affatto all’altezza di tanta importanza.

La mostra “Naples à Paris” in corso al Louvre mira a mettere in risalto le risorse culturali della città in tutto il mondo come investimento di immagine a lungo termine. È importante ricordare che Napoli fu fondamentale nella trasmissione della cultura greca alla società romana. Ha avuto influenza anche nell’esercizio della cultura moderna, terreno fertile per artisti e innovatori nei campi industriale, scientifico e tecnologico. Ci sarebbe molto altro da dire sulla storia di questa città così complessa per natura e società, su ciò che è stato fatto e non. Da molti anni Angelo Forgione dedica il suo tempo e i suoi studi all’analisi di questi temi. Il suo ultimo libro si intitola Napoli Svelata, e svela lo “scrigno” attraverso quindici racconti che chiariscono il passato per comprendere il presente della città partenopea e della sua gente.

Cosa ci puoi dire di Napoli Svelata?

AF – “Come nei miei precedenti lavori su Napoli, tutti complementari tra loro, racconto e approfondisco vicende storiche sorprendenti, alcune sconosciute ma tutte importanti per capire Napoli, assai ricca di storie perché possa essere capito con facilità. Napoli, città porosa proprio come il tufo su cui poggia, ha assorbito e poi restituito con linguaggio proprio e idee nuove. Qui, tra i tanti ingegni, sono nate la viticoltura italiana con i suoi vini, la vulcanologia e l’archeologia. Qui sono state stimolate l’igiene ambientale e personale. Qui sono stati sperimentati e affinati i primi vaccini. Qui sono state perfezionate eccellenti maestrie, qualcuna superata, qualcun’altra in via di estinzione e altre ancora, come la sartoria maschile, solidamente apprezzate nel mondo. Qui, tra particolari usanze alimentari, si è diffuso il mangiare e bere ghiacciato. Qui sono germogliati il cinema, la cultura sportiva e persino il dogma dell’Immacolata Concezione. Insomma, racconto 15 grandi storie napoletane da conoscere per conoscere meglio una città tra le più antiche d’Europa, fondamentale – lo ribadisco – nella trasmissione della cultura greca alla società romana e di importanza sempre crescente dal Rinascimento in poi, fino a diventare una delle maggiori capitali d’Europa, la più espressiva, prima di decadere nell’Italia politicamente unita. E alla fine propongo anche una mia ricostruzione circa l’origine ignota del noto detto sulla città “vedi Napoli e poi muori”. Una città da vedere prima di morire, ma anche da capire. Io lavoro per questo.”

Oltre ad essere un appassionato ricercatore della storia e della lingua napoletana, sei anche un tifoso ed esperto di calcio. Dopo 33 anni il Napoli vince nuovamente il campionato italiano. Cosa rappresenta questo per i napoletani?

AF:”I napoletani amano il Napoli in modo viscerale, lo percepiscono come una voce della città, sperando sempre che faccia la voce grossa con le squadre del Nord e i loro tifosi, che sono dappertutto, ma anche con le realtà del capitale d’Italia. Vincere al Sud è difficilissimo, e il Napoli è l’unico club meridionale che può arrivare alla vittoria. I napoletani hanno la percezione che prima o poi il trionfo arriverà. E proprio per i motivi già spiegati di tifo identitario, il trionfo venturo sarà di quelli che doneranno gioia collettiva di popolo ed emozioni condivise.
Certo che il calcio non risolve i problemi di un luogo e le diseguaglianze, ma il calcio è la più coinvolgente delle passioni popolari, e perciò i trionfi del Napoli ritemprano l’umore collettivo, cosa di cui c’è sempre forte bisogno laddove c’è da impegnarsi costantemente per risolvere i quotidiani problemi esistenziali. E poi sono trionfi che significano che c’è un Sud del calcio che può guastare i piani del Nord, e questo è un esempio per tutto il resto della vita sociale d’Italia. Stavolta, lo scudetto, diversamente da quelli degli anni di Maradona, ha dato ulteriore spinta a una città in pieno rilancio culturale e turistico e non ha fatto da traino ma ha rafforzato ancora di più l’esposizione mediatica e l’appeal di Napoli.”

Se dici Napoli

Parte la nuova stagione del Napoli, e parte anche “Se dici Napoli“, il nuovo programma televisivo post-partita dei Campione d’Italia (esclusi quelli della domenica sera) per approfondirne risultati e prestazioni. In onda su Otto Channel, Canale 16 in Campania, ma visibile dappertutto in streaming (www.ottochannel.tv/diretta-live) e pagine facebook.
Alla conduzione, Arturo Minervini. In studio, analisi di Angelo Forgione e Maurizio Zaccone. Al touch, per interagire con il pubblico sui social, Eugenia Saporito. Voci partenopee per commentare i risultati e le prestazioni degli Azzurri.
Segui la napoletanità. Quest’anno, “se dici Napoli”… dici Canale 16 del digitale terrestre in Campania.