Angelo Forgione – Quantunque un semplice impasto di farina schiacciato e cotto in forno risalga ai tempi degli antichi Egiziani e nonostante qualcuno provi a mistificare la storia della pizza, questa, nella sua configurazione moderna e definitiva, è senza dubbio opera del popolo napoletano, così come lo sono le prime pizzerie, luoghi ove gustare il caratteristico cibo napoletano non solo per strada, piegata “a portafoglio”, ma comodamente seduti al chiuso, con tanto di sedie, tavoli e stoviglie.
Più di ogni mia parola — e tante ne ho fatte in questi anni per divulgare la vera storia della pizza — può l’illustrazione tratta dal magazine britannico The Graphic del 12 novembre 1881, in cui furono mostrate agli inglesi delle tipicità esclusivamente napoletane, sconosciute al mondo intero, tra cui una caratteristica “Antica Pizzeria”, definita “pastrycook’s shop”.

Si vede un pizzajuolo al banco che prepara le pizze con l’ausilio di un giovane garzone, un addetto alla cottura in forno, un cameriere che serve e tre tavoli con avventori, sedute e stoviglie. Una pizzeria, insomma, come tante ce ne sono oggi nel mondo, ma che a quel tempo si trovavano solo a Napoli. L’unica particolarità era la separazione dei tavoli con pareti di legno, con cui si creavano i cosiddetti “camerini” o “stanze”. Era appunto il 1881, 24 anni prima dell’apertura della primissima pizzeria di New York, quelle dell’emigrato napoletano Gennaro Lombardi nella Little Italy di Manhattan, il locale alla napoletana che diede il via alla diffusione delle pizzerie negli States.
Nell’illustrazione inglese del 1881, sul banco delle pizze, si legge persino l’aggettivo “antica”, perché quel locale non era una novità per Napoli ma risaliva evidentemente a cinquant’anni prima, 1830 circa, l’epoca dell’apertura delle prime pizzerie napoletane con tavoli, da Port’Alba (1830) a “Le stanze di piazza Carità” (1833), attuale Mattozzi, dove un adolescente Francesco De Sanctis — lo raccontò lui stesso nelle sue memorie di giovinezza: — si accomodava con gli amici invece che mangiare la pizza per strada come si usava da secoli. Per la verità, presso l’Archivio di Stato di Napoli è consultabile l’Elenco dei pizzajuoli con bottega del 1807, 55 in tutto tra esercenti con tanto di nome, cognome e indirizzo, testimoniante il fatto che almeno dal principio dell’Ottocento chi preparava le pizze non riforniva solamente i venditori ambulanti ma le vendeva in proprio in un suo esercizio, anche se magari non disponeva ancora di tavoli e stoviglie. Nella prima statistica realizzata durante il Regno d’italia, datata 1871, i pizzajuoli con bottega censito erano già ben 123, di cui tre donne, un numero doppio rispetto all’inizio del secolo. Molte erano fornite di pozzi per attingere dagli antichi acquedotti sotterranei scavati nel poroso tufo, dai quali si prelevava acqua spesso contaminata dagli scarichi fecali dei pozzi neri, che filtravano nella falda freatica. Circostanze che costituirono la principale causa delle ricorrenti epidemie ottocentesche di colera, arrestare con il nuovo acquedotto del Serino del 1885. E allora anche la pizza divenne sicura, e prese il volo con la leggenda dell’invenzione della “margherita”, falsamente datata 1889.


Filippo Facci, che di Erri De Luca è notoriamente “nemico” (ma lo è un po’ di tutti i veri intellettuali), ha fatto peggio di Giampiero Amandola, il giornalista della sede Rai di Torino che si divertì coi tifosi della Juventus, all’esterno dello stadio bianconero, a capire come questi distinguevano i rivali napoletani. «Li riconoscete dalla puzza», disse il giornalista, e fu licenziato in tronco dopo un 

facendo mettere un morso in bocca alla colossale statua del “Corsiero del Sole”, un cavallo imbizzarrito di bronzo posto su un alto piedistallo marmoreo. Il manufatto, purtroppo, fu poi fuso nel 1322 perché si credeva portatore di stregoneria, ma il cavallo inalberato rimase per secoli il simbolo della città e dell’intero suo Regno, fino all’Unità. Lo troviamo ancora oggi nelle decorazioni delle regge (basta alzare gli occhi nelle stanze reali della Reggia di Caserta così come nello scalone di Palazzo Reale) e pure nelle 

Dopo aver girovagato per i luoghi più emblematici del turismo culturale nei dintorni di Napoli, da Pompei alla Reggia di Caserta, dal Palazzo Reale di Napoli al teatro San Carlo, passando per la Cappella Sansevero, ed esserne rimasto fortemente impressionato, Rafa Benitez ha sentenziato la cosa più condivisibile di questo mondo all’indirizzo delle istituzioni: «Le bellezze di Napoli e della Campania sono straordinarie ma si potrebbe fare di più per la loro valorizzazione dal punto di vista del marketing. Quando ho firmato per il Napoli – ha raccontato l’allenatore del Napoli – ho chiesto ai tifosi su internet quali luoghi avrei dovuto visitare e ho una lista di dieci posti. Me ne manca ancora qualcuno ma posso dire che le bellezze di questo territorio mi hanno impressionato. Certo si può migliorare, magari imparando da quello che fanno in altri luoghi del mondo per valorizzare le bellezze. Luoghi come Palazzo Reale, il Cristo Velato in un altro paese, con un altro tipo di marketing sarebbero sicuramente vendutì di più. Penso a Pompei, che è un luogo bellissimo ma si può vendere meglio e questo porterebbe anche lavoro e soldi al territorio. Io non sono nessuno nel settore ma mi sembra che il marketing sia importante».

