Alfonso Pecoraro Scanio contro Alberto Grandi a tutela della Pizza napoletana

Angelo Forgione  — Chi meglio di Alfonso Pecoraro Scanio potevo allertare per arginare più incisivamente le inneffabili teorie di Alberto Grandi sulla pizza e non solo su quella? L’ex ministro delle politiche agricole, oggi presidente della Fondazione Univerde, è stato il promotore dell’Arte del Piazziuolo napoletano quale patrimonio immateriale dell’umanità Unesco, e ha portato questo prestigioso risultato all’Italia e a Napoli. Era il più indicato per tutelare la pizza napoletana dalle sballate notizie storiche e dalle opinioni del professore mantovano di Scienza dell’alimentazione, alla ribalta con le sue narrazioni sulla storia e sull’evoluzione dei cibi italiani più rappresentativi, per lui riconducibili a origini e influenze americane più che italiane. Grandi, con l’intervista rilasciata al Financial Times, è tornato a far parlare di sé con più vigore dopo la ribalta conquistata lo scorso anno, attirandosi una tempesta di critiche da più fronti, ma pontificando sostanzialmente indisturbato.

Corrado Formigli ha ospitato entrambi a Piazzapulita (La7), e non è mancato un vivace botta e risposta su quanto di più antistorico ha dichiarato Grandi al Corriere della Sera:

«Finché è rimasta a Napoli, la pizza è stata una grandissima schifezza. Ma quando è arrivata a New York si è riempita di prodotti nuovi, in particolare della salsa di pomodoro, diventando la meraviglia che conosciamo oggi. Senza il viaggio degli italiani in America sono convinto che questa specialità sarebbe scomparsa».

Una “schifezza”, la pizza a Napoli, per il professore, finché, a inizio Novecento, non fu nobilitata negli Stati Uniti dal pomodoro. Smentito documentazione alla mano dal sottoscritto a mezzo stampa, in questi giorni come un anno fa, è dunque toccato farlo in tivù ad Alfonso Pecoraro Scanio, ben informato sul periodo storico in cui il pomodoro lungo è finito sulla pizza per la lettura del mio saggio Il Re di Napoli, in cui sono riportate tutte le documentazioni che attestano come la pizza con il pomodoro sia nata a Napoli nella prima metà dell’Ottocento, un secolo prima del periodo indicato dal professor Grandi (il primo Novecento newyorkese).

Lo scrive nel 1835 ne Le Corricolo Alexandre Dumas, probabilmente informato dal suo collaboratore napoletano, Pier Angelo Fiorentino, che il pomodoro è già sulla pizza in quel periodo:

“[…] La pizza è con l’olio, la pizza è con salame, la pizza è al lardo, la pizza è al formaggio, la pizza è al pomodoro, la pizza è con le acciughe. […]”.

Alberto Grandi ha sottolineato che «la salsa al pomodoro non è il pomodoro», facendone una questione di tipologia. Vien da chiedersi per il Nostro, e per Lorenzo Biagiarelli che nel dibattito ne condivideva l’obiezione, cosa finisca sulla pizza, oggi come due secoli fa, se non pomodoro lungo passato. E dunque, bene ha fatto Alfonso Pecoraro Scanio a reclamare con prontezza che i napoletani del primo Ottocento, con il pomodoro lungo, ci facevano banalmente la salsa passata. E mica ci voleva chissà quale scienza per schiacciarlo!

«Non erano degli imbecilli che non sapevano fare la salsa», l’opportuna riflessione dell’ex ministro. «La chiamavano “salsa alla spagnola”», ha replicato Grandi, scambiando la semplice salsa di pomodoro passato con un’altra più elaborata che a Napoli si preparava almeno dal secondo Seicento con pomodoro tondo. Ce ne dà testimonianza Antonio Latini ne Lo scalco alla moderna, overo l’arte di ben disporre i conviti, scritto e pubblicato a Napoli nel 1692, elencando la ricetta della “Salsa di Pomadoro, alla Spagnola”, fatta con pomodori (tondi), cipolle, peperoni, timo, sale, olio e aceto.

Due anni dopo la pubblicazione de Le Corricolo di Dumas, nel 1837, Ippolito Cavalcanti, incluse la ricetta dei “Vermicielli co le pommadore” nell’appendice dialettale Cucina casarinola all’uso nuosto napolitano del suo ampio trattato didattico Cucina teorico-pratica, e scrisse in vernacolo che bisognava far cuocere i pomodori, passarli e poi bollire “chella sauza” dopo aver fatto soffriggere olio e aglio.
Nello stesso trattato, il Cavalcanti elencava la “sauza de pommadore” tra gli ingredienti delle “Molignane a la Parmisciana”, la Parmigiana di melanzane.

Confusione tra salsa di pomodoro semplice ed elaborata, quella di Alberto Grandi, ma in ogni caso, va da sé che la salsa di pomodoro era già nelle conoscenze gastronomiche dei napoletani, e c’era già sulla pizza, come confermano pure i medici Achille Spatuzzi, Luigi Somma ed Errico De Renzi nella ricerca scientifica Sull’alimentazione del popolo minuto in Napoli, pubblicata nel 1863.

Crolla anche con il contributo di Grandi il teorema di Grandi, il quale ha pur sostenuto che la pizza napoletana, senza l’emigrazione in America, sarebbe scomparsa. Nella Napoli di inizio Novecento, mentre il primo napoletano faceva conoscere le pizze a New York (Gennaro Lombardi), si mangiava la pizza con il pomodoro da un secolo, e quella senza da almeno tre.

Le eresie del professore mantovano sono poi sfociate anche nell’argomento Dieta mediterranea:

«Ancel Keys – ha detto Grandi – ha scoperto alla fine della Seconda guerra mondiale che, rispetto agli americani, i napoletani non avevano colesterolo. Per forza, non mangiavano! Ci mancava anche che avessero il colesterolo».

«Forse mangiavano bene», ha ribattuto Pecoraro Scanio, anche in questo caso a giusta ragione.

Per il professore deve evidentemente valere la rappresentazione dei napoletani straccioni, gli unici nei quali poteva imbattersi Ancel Keys quando, nel 1952, si recò a Napoli con la moglie, la biologa Margaret Haney, per studiare l’alimentazione locale e la relativa incidenza sullo stato di salute dei cittadini una volta informato dal collega napoletano Gino Bergami della ridottissima incidenza delle patologie cardiovascolari nel capoluogo campano e dintorni. E invece il fisiologo americano, nei laboratori del Vecchio Policlinico, condusse le ricerche analizzando la salute e le abitudini alimentari dei Vigili del Fuoco e degli impiegati comunali, lavoratori stipendiati che il piatto a tavola lo portavano tranquillamente; e si recò nei mercati rionali per osservare cosa comprassero le massaie napoletane. Lo scienziato americano e la moglie rilevarono il basso consumo di carne e la dieta a base di pasta ricca di carboidrati, di verdure, di olio d’oliva, di pane, di legumi e di pesce, convincendosi che la riduzione dei grassi animali era alla base della buona salute dei napoletani. Al termine dei suoi studi, nei suoi appunti, Keys annotò:

“A Napoli la dieta comune era scarsa di carne e prodotti caseari, la pasta generalmente sostituiva la carne a cena. Nei mercati alimentari scoprii montagne di verdura e le buste della spesa delle donne erano cariche di verdura frondosa. Nello stesso tempo, i campioni di sangue degli uomini sotto controllo medico che noi stavamo visitando presentavano un basso livello di colesterolo. I pazienti con disturbi cardiaci alle coronarie erano rari negli ospedali e i medici locali ci dissero che gli attacchi di cuore alle coronarie non erano molto frequenti. I disturbi cardiaci alle coronarie erano ritenuti essere più comuni nelle classi benestanti dove la dieta era più ricca di carne e prodotti caseari. Mi convinsi che la dieta salutare era un motivo dell’assenza di disturbi cardiaci.
A Napoli trovammo la conferma che Bergami aveva ragione riguardo alla rarità della malattia ischemica coronarica nella popolazione generale, ma in ospedali privati che ricoveravano persone ricche vi erano pazienti con infarto al miocardio. La dieta della popolazione generale era ovviamente molto povera in carne e formaggi, e Margaret trovò livelli di colesterolo sierico molto bassi in numerose centinaia di operai e impiegati presi in esame dal Dott. Flaminio Fidanza, un assistente di Bergami nell’Istituto di Fisiologia. Fui invitato a cena con i membri del Rotary Club. La pasta era condita con sugo di carne e tutti la ricoprivano con formaggio Parmigiano. Un arrosto di carne era il secondo piatto. Il dessert era una scelta di gelato o ricchi dolci. Persuasi alcuni commensali a venire da me per essere esaminati, e Margaret trovò il loro livello di colesterolo molto più alto che negli operai.”

Del resto, prima di essere chiamati “mangiamaccheroni”, i napoletani erano detti i “mangiafoglia”, perché erano i più grandi vegetariani d’Europa da secoli. Già nel Quattrocento abbondavano i vegetali nella cucina della corte aragonese di Napoli, diversamente da quella toscana dei Medici, dove eccedevano carni e selvaggina. Il broccolo era stato lo stereotipo alimentare dei napoletani prima di pizza e spaghetti, che erano cibi popolari nati nelle strade e accessibili anche per i più poveri. Vincenzo Corrado, altra figura di spicco della cultura gastronomica napoletana, scrisse nel secondo Settecento Il cibo pitagorico (Pitagora fu un convinto vegetariano), primo ricettario vegetariano della storia, un elogio al cibo fatto “di tutto ciò che dalla terra si produce” contro la sofisticata e pesante cucina di carne.

Alberto Grandi ha pure avvisato che gli italiani di oggi credono essere antichissima una dieta, la “mediterranea”, che fu invenzione di Ancel Keys. La verità è che la codifica, non invenzione, del fisiologo statunitense, sviluppata nel Cilento, partì dall’alimentazione dei napoletani, e si rifece anche e soprattutto alla loro cucina. Da tempo la gente partenopea seguiva, senza saperlo, una dieta molto prossima a quella che è oggi è considerata la più sana ed equilibrata del pianeta. La dieta napoletana era davvero la madre di quella “mediterranea”. Era, ma non è, perché è stata proprio la penetrazione delle abitudini alimentari americane dagli anni del benessere economico italiano in poi, a seppellire la sana alimentazione del popolo partenopeo. la Dieta mediterranea, globalizzata dall’Unesco, è sempre meno applicata in Italia, dove i potentati del cibo spazzatura impongono i propri stili, soprattutto tra i giovani e le fasce con un basso livello socio-economico. Numerose indagini hanno infatti mostrato un aumento di sovrappeso e obesità, anche in età adolescenziale, e il fenomeno è più diffuso al Sud, proprio lì dove è nata la dieta mediterranea. E meno male che le narrazioni imprecise di Alberto Grandi esaltano esattamente le influenze americane nella cucina italiana tutta.


Napoli, Campania, Sud: la culla del vino

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Angelo ForgioneI vini del Nord, nel secolo scorso, hanno beneficiato di un vantaggio enorme su quelli del Sud nelle preferenze degli appassionati. Eppure i vini italiani sono nati nel Meridione, in quella Magna Grecia dove, tra il VII-VI secolo a.C., furono introdotte la vitis vinifere madri di quelle che ancora oggi danno i vini che beviamo. L’Aglianico, per esempio, è greco già nel nome: “ellenikon”, latinizzato “ellenico” e poi divenuto “allianico” in epoca aragonese, da cui “aglianico” per effetto della pronuncia spagnola della doppia elle. La Falanghina è vite vinifera che sempre i Greci introdussero sulle colline degli oggi detti Campi Flegrei, legandole a dei pali piantati nel terreno su più file e schierati come fossero una falange d’assalto, la tipica “falangae” del mondo ellenistico, da cui il nome dell’uva bianca Falanghina.
Aglianico è anche il Taurasi, greco come il Greco di Tufo e il Fiano di Avellino, i DOCG irpini ai quali si affianca quello beneventano, l’Aglianico del Taburno, a fare della Campania una delle regioni del Vino d’eccellenza.

La prima zona di produzione del vino in Italia è con tutta probabilità proprio la Campania, dove i Greci si spinsero per trovare la fertilità vulcanica. Gli Etruschi, che pure coltivavano la vite di tipo selvatico nelle zone centrali d’Italia, a contatto con i Greci conobbero i nuovi vitigni di origine orientale e li incrociarono con le varietà locali.
Strabone, nel suo Rerum Geographicarum del 18 dopo Cristo, descrisse un Vesuvio cinto tutt’intorno da campi coltivati. Qualche anno dopo la tragica eruzione del 79, un epigramma di Marco Valerio Marziale chiarì che i fecondi terreni vesuviani, prima della tragedia, erano in gran parte coltivati a vite, e descrisse un Vesuvio un tempo verdeggiante di vigneti ombrosi le cui pregiate uve avevano fatto traboccare le tinozze, sostenendo romanticamente che Bacco aveva amato il vulcano più dei nativi colli di Nisa prima che tutto giacesse sommerso da fiamme e lapilli.
Anfore e affreschi di Pompei ed Ercolano ci dicono proprio che i Romani, facendo tesoro dei vini greci, svilupparono enormemente la vitivinicoltura in Campania Felix, producendo vini flegrei, vesuviani, sorrentini e più ampiamente campani, i più pregiati dell’Italia antica. Su tutti il Falernum (Falerno), “il vino degli imperatori”. Tra i tanti, bevevano anche il Trifolinum, un vino prodotto probabilmente sul colle che sovrastava Neapolis, ovvero l’attuale Vomero. Lo si evince leggendo Marziale e, più avanti, lo storico Scipione Mazzella nella Descrittione del Regno di Napoli scritta nel 1586, in cui si apprende che Trifolino (da trifoglio) era chiamato il monte dove nel Trecento fu costruita la Certosa di San Martino, volgarmente detto monte di Sant’Hermo (cioè di Sant’Erasmo), da cui San’Elmo.

Proprio osservando l’attuale Vomero, o monte Trifolino/Sant’Hermo, si può notare che una porzione di parete collinare è rimasta intatta. Si tratta dell’antica Vigna dei monaci di San Martino, immediatamente ai piedi della Certosa, nata insieme alla Certosa stessa nel Trecento, salvata dall’aggressione edilizia nei secoli a seguire e dichiarata Monumento nazionale italiano nel dicembre del 2010. Un vero e proprio territorio agricolo urbano coltivato a vite con una vista mozzafiato sul Golfo e sul Vesuvio. Da quel pezzo incontaminato di Napoli vengono fuori litri di vini autoctoni, tra cui la Falanghina, l’Aglianico, il Piedirosso e il Catalanesca, un bianco molto gradito nella Napoli aragonese, originariamente fatto con le uve catalane, portate dalla Catalogna a Napoli alla metà del Quattrocento e piantate sulle vulcaniche pendici vesuviane del Monte Somma per volontà di Alfonso V d’Aragona, il sovrano che nel 1442 trasferì la capitale mediterranea dell’impero catalano-aragonese da Barcellona a Napoli.

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Pezzi che parlano dell’antichissimo rapporto di Napoli con il vino a chi è più attento. Già, perché sono davvero in pochissimi, napoletani compresi, a sapere che la città di Napoli, dopo Vienna, è quella con più terreni coltivati a vite in Europa. Un primato a cui non ci si crederebbe, eppure la Napoli di oggi, un milione di persone accalcate, conserva ancora parte dei suoi antichi vigneti e li protegge nei suoi quartieri. La collina del Vomero e il declivio di Posillipo che degradano dolcemente verso il mare e sui Campi Flegrei, il cratere spento degli Astroni ad Agnano, il Maioriello di Capodimonte, i Camaldoli, Chiaiano e altri fazzoletti di città nascondono piccoli vigneti metropolitani, preziosi appezzamenti verdi, macchie più o meno grandi di eroici filari tra le costruzioni che colorano il paesaggio e ne diventano parte integrante. Un patrimonio salvato dall’estinzione di cui si parla poco e niente, ma che esiste in silenzio e resiste al trascorrere dei secoli. Una particolarità che conserva a sua volta un unicum napoletano molto apprezzato da enologi ed amanti del vino. Napoli, ma anche la sua provincia, presidiate dal Vesuvio e dai vulcani dei Campi Flegrei, costituiscono infatti uno dei pochi territori al mondo a preservare il tipo di coltivazione “a piede franco”, patrimonio genetico originario della vite europea, ossia la coltura senza l’impiego della vite americana come portainnesto. I filari napoletani di oggi sono davvero eredi diretti delle prime piante portate dai Greci in Campania, una rarità dovuta alla conformazione vulcanica del terreno sabbioso, caratteristica che da una parte rende il lavoro più difficile ma dall’altra ha consentito ai vigneti partenopei di tenere lontana l’aggressione parassitaria, quindi di preservare la biodiversità vegetale, la purezza dei vitigni e una maggiore concentrazione di profumi nelle uve, con sentori di mineralità e sapidità che rendono i vini di Napoli tipici e differenti, impossibili da produrre in altre zone del mondo.

Non solo a beneficio degli amanti del vino, è utile evidenziare che a Napoli, nella prima metà dell’Ottocento, fu istituita la Compagnia Enologica Industriale per il miglioramento della vinificazione del Regno delle Due Sicilie, il primo esempio di associazionismo applicato al perfezionamento dei vini attraverso l’approfondimento dell’enologia. I giornali italiani ne riportarono i successi ottenuti in pochi anni attraverso le sperimentazioni compiute nella fornitissima cantina nella zona di Piedigrotta, diffondendo in Toscana, in Lombardia, in Veneto e un po’ ovunque il desiderio di creare altre aggregazioni simili. La Società Enologica Lombardo-Veneta, costituita a Milano nel 1838, fu iniziativa di alcuni impresari locali decisi a fondare – si leggeva nell’atto costitutivo“una Ditta enologica sulle basi della Compagnia delle Due Sicilie creata in Napoli, ove l’industria vinaria ha fatto tali progressi, di aver potuto emancipare quel regno dalla passività estera, e metterlo in grado di far concorrenza colla Francia nella esportazione”.

Con la regressione postunitaria causata dalle politiche filosettentrionali del Regno d’Italia i vini del Sud persero appeal. La decadenza sociale e politica di fine Ottocento, l’abbandono delle campagne meridionali, il contemporaneo sviluppo industriale dell’enologia piemontese e toscana, nonché l’aggressione della fillossera, causarono enorme danno alla produzione enologica del Sud, destinata ad essere terra di vini sfusi da taglio per equilibrare e irrobustire i vini settentrionali ma anche francesi. Mentre il vino dei Borbone, il Piedimonte, spariva, il vino dei Savoia, il Barolo, diventava “il Re dei vini”.

Oggi il Piedimonte è tornato in auge, riscoperto da un ventennio e ben rilanciato fino a rendere la sua versione contemporanea, il Pallagrello, un vino di buona tendenza. È uno dei tanti segnali della riscossa dei vini meridionali, che guadagnano sempre più posizioni nel gradimento del pubblico e nell’esportazioni. La Campania contribuisce alla crescita con l’eccellenza DOCG dei grandi vini irpini e beneventani, ai quali si aggiungono i vini DOC della provincia di Napoli, dell’area vesuviana, di Capri e Ischia, del Litorale Domizio, dell’Alto Casertano, dell’Aversano, della Costiera Amalfitana e del Cilento. Una regione culla del vino che, insieme alla Sicilia, alla Puglia, alla Basilicata e alla Calabria, ha rialzato la testa e la qualità delle sue bottiglie, con tutti il carico di storia che si portano dentro.

Al MAGNA educazione all’alimentazione napoletana, radice della dieta mediterranea. Domenica col caffè.

Angelo Forgione – Quando si parla di Dieta Mediterranea, la più salutare al mondo, l’associazione spontanea è con il Cilento. È infatti nella località di Pioppi che il fisiologo statunitense Ancel Keys acquistò una casa per indagare sulle diete di vari paesi con culture e stili di vita differenti, giungendo dopo circa un ventennio alla definizione della miglior dieta contro l’infarto, ispirata alle usanze di Italia, Grecia, Spagna e Marocco. In realtà la scintilla nacque a Napoli, dove lo statunitense si recò nel 1952 una volta appreso dal collega napoletano Gino Bergami della ridottissima incidenza delle patologie cardiovascolari in Campania. E iniziò a studiare l’alimentazione dei napoletani, conducendo le ricerche nei laboratori del Vecchio Policlinico, sulla scorta degli esperimenti condotti sui Vigili del Fuoco e sugli impiegati comunali. Il basso consumo di carne e le sane abitudini alla pasta ricca di carboidrati, alle verdure, all’olio d’oliva, al pane, ai legumi e al pesce, lo convinsero che la riduzione dei grassi animali era alla base della buona salute dei napoletani.
Bastarono pochi mesi per stabilire che il “il regime alimentare a Napoli era povero di grassi e che soltanto le persone ricche subivano attacchi cardiaci”. Nella città partenopea, Keys scoprì un tipo di alimentazione che non conosceva: “Pasta variamente condita, insalate con una spruzzata di olio d’oliva, tutti i tipi di verdura di stagione e spesso formaggio, il tutto completato da frutta e in molti casi accompagnato da un bicchiere di vino”. Lo studioso appurò che a Napoli gli infarti erano effettivamente rari, “fatta eccezione per la ristretta cerchia delle classi più ricche, la cui alimentazione era diversa rispetto a quella del resto della popolazione: mangiavano carne ogni giorno anziché ogni una o due settimane.
Oggi, il popolo che a metà del Novecento stupì Ancel Keys per la sua alimentazione è il più affetto da obesità d’Italia. Cosa è successo? È successo che i napoletani hanno spalmato lungo l’arco della settimana quello che un tempo era il pranzo festivo della domenica, e hanno consentito alle multinazionali dell’alimentazione di imporre alcune abitudini malsane.
Alla rassegna MAGNA – mostra agroalimentare napoletana, in corso nei week-end fino al 10 gennaio al Complesso Monumentale di San Domenico Maggiore in Napoli, si affronta il problema cercando di rieducare e sensibilizzare i napoletani alla tema dell’agricoltura e della gastronomia napoletana con discussioni e mostre a carattere storico, scientifico e sociale.
Nel calendario della rassegna, per Domenica 1 novembre è previsto un interessante incontro pubblico a tema su origini, storia e caratteristiche di preparazione del caffè di Napoli. Dove nasce il caffé? Come e quando arriva a Napoli? Perché diventa un’eccellenza della gastronomia partenopea? Qual è la storia dei caffè storici di Napoli? Quali sono le caratteristiche delle diverse miscele? E perché è particolare la torrefazione napoletana? Spiegherò tutto, in compagnia di Paola Campana della torrefazione Campana Caffè.
Appuntamento alle ore 11 nel Complesso Monumentale di San Domenico Maggiore, in vico San Domenico Maggiore 18, con accesso libero e degustazione di caffè nel corso dell’evento.

Un’inglese addolorata dalle parole di Antonella Cilento

Ricevo e pubblico lo scritto di Dawn Bissell, 41enne inglese di Birmingham residente a Roma, amante di Napoli, addolorata per le parole della scrittrice Antonella Cilento al TG1.

Salve. Ho scritto un messaggio alla Signora Antonella Cilento, e volevo farvi conoscere il mio grandissimo dispiacere nel sentire la sua intervista al TG1, dove dice che Napoli nel 1600 era “GIÀ corrotta, sporca, puzzolente…”. Sono INGLESE, e se si indigna un’inglese davanti alle sue parole, figuriamoci tutti quei napoletani che sono orgogliosi della propria città, e che si trovano a dover lottare sempre contro lo sport nazionale di denigrare Napoli in ogni occasione. Parole come quelle della Signora Cilento non aiutano a far aprire gli occhi della gente su tutto ciò che c’è di bello e di apprezzabile a Napoli. Forse sembrerà un’esagerazione, ma ogni parola negativa affidata ai grandi media è una pietra in più che viene scagliata contro la città, che non le permette di avere il rispetto degli italiani.

Dawn Bissell
(residente a Roma, nata e cresciuta a Birmingham-UK)

Antonella Cilento: «Napoli nel 1600 già puzzolente come oggi»

Angelo Forgione – Antonella Cilento, scrittrice napoletana, a TG1 Billy del 18 maggio: «Napoli nel 1600 è la più grande città d’Europa… È già la metropoli di oggi, è già corrotta, sporca, puzzolente…»
C’è qualche “già” di troppo, e troppo pesante, nelle parole ascoltate in tivù, simili a quelle pronunciate in passato da un antimeridionale come Giorgio Bocca. In quell’Europa problematica, funestata da sporicizia ed epidemie, Napoli non era certo peggio di Parigi e Londra, tra le città più sporche e fetide del Continente, afflitte dal sudiciume maleodorante degli abitanti, molti dei quali non praticavano alcun tipo di abluzione.
Nel 1615 un grande napoletano, Giovan Battista Marino, fu severissimo nel descrivere Parigi dopo esservisi recato: “quando piove è il miglior tempo che faccia, perché allora si lavano le strade: in altri tempi la broda e la mostarda vi baciano le mani”.
Epidemie colpivano tutti a quei tempi, ed è nota la grande peste seicentesca di Napoli, le cui condizioni, nel Settecento e Ottocento, migliorarono (Goethe ne apprezzò la pulizia e detestò la sporcizia del Triveneto e non solo, mentre Restif de la Bretonne denunciò in Les Nuits de Paris il lerciume della capitale francese, dei cui miasmi narrano numerosi racconti dell’epoca) mentre quelle di Parigi e Londra restarono pessime. Si ricorda nel 1858 la drammatica “Grande puzza“, the Great Stink della capitale inglese, causata dal Tamigi, dove venivano gettati i rifiuti solidi e gli escrementi umani (e più o meno lo stesso accadeva nella Senna). Colera e febbre tifoide dilagarono drammaticamente.

La dieta mediterranea ha smarrito casa

alimentazione sana nata a Napoli e codificata al Sud, dove ora cresce l’obesità

Angelo Forgione Anche l’Expo di Milano, con uno spot istituzionale, apre una triste riflessione sulla tradizione alimentare meridionale: La dieta mediterranea, che nasce a Napoli e viene codificata nel Mezzogiorno negli anni Cinquanta, non abita più a casa sua (nel video). Nel mio Made in Naples ho espresso una riflessione sull’argomento, che riporto in sintesi di seguito con qualche passaggio del libro.
Ancel Keys, in un convegno mondiale sull’alimentazione svoltosi a Roma nel 1951, apprese dal collega napoletano Gino Bergami della ridottissima incidenza delle patologie cardiache in Campania. E così studiò l’alimentazione dei napoletani, ricca di carboidrati, verdure, olio di oliva, pane, legumi e pesce, convincendosi con le sue ricerche nei laboratori del Vecchio Policlinico di Napoli che la riduzione dei grassi animali era alla base della buona salute della popolazione locale.

“A Napoli la dieta comune era scarsa di carne e prodotti caseari, la pasta generalmente sostituiva la carne a cena. Nei mercati alimentari scoprii montagne di verdura e le buste della spesa delle donne erano cariche di verdura frondosa. Nello stesso tempo, i campioni di sangue degli uomini sotto controllo medico che noi stavamo visitando presentavano un basso livello di colesterolo. I pazienti con disturbi cardiaci alle coronarie erano rari negli ospedali e i medici locali ci dissero che gli attacchi di cuore alle coronarie non erano molto frequenti. I disturbi cardiaci alle coronarie erano ritenuti essere più comuni nelle classi benestanti dove la dieta era più ricca di carne e prodotti caseari. Mi convinsi che la dieta salutare era un motivo dell’assenza di disturbi cardiaci.”

Keys girò per il Meridione, trovando ulteriori spunti di ricerca nella località calabrese di Nicotera e in quella cilentana di Pioppi, e giunse alla codifica delle diete di vari Paesi con culture e stili di vita differenti, codificando il modello nutrizionale della dieta mediterranea quale misura alimentare per prevenire l’infarto, ispirata alle usanze di Italia, Grecia, Spagna e Marocco, riconosciuta patrimonio culturale immateriale dell’umanità dall’UNESCO nel 2010.
Tutto questo, descritto in maniera più chiara e completa in Made in Naples, mi ha condotto ad una riflessione nella trattazione della “denapoletanizzazione” da arginare.

[…] Così Napoli si è fatta, più di ogni altro luogo, cuore di una riflessione che riguarda le metropoli più antiche del mondo che hanno smarrito il loro orientamento. Il suo limite, il più devastante, autentico dramma sociale della miseria, è identico a quello del 1750, quando Antonio Genovesi e Bartolomeo Intieri individuarono nella carente formazione intellettuale il freno di un popolo dalle grandi potenzialità. È l’ignoranza diffusa la vera inibizione della Napoli del Duemila, figlia della dispersione scolastica che tocca percentuali inaccettabili. A questa si associa l’influenza negativa del mondo esterno globalizzato che, inquinando il pensiero individuale, omologa e sconvolge la specificità. Il popolo che nel 1951 stupì Ancel Keys per la sua alimentazione, presa a modello per la formulazione della dieta mediterranea, è oggi il più affetto da obesità d’Italia.

Purtroppo la dieta mediterranea, globalizzata dall’Unesco, è sempre meno seguita in Italia, dove i potentati del cibo spazzatura impongono i propri stili, soprattutto tra i giovani e le fasce con un basso livello socio-economico. Numerose indagini hanno infatti mostrato un aumento di sovrappeso e obesità e il fenomeno è più diffuso al Sud, particolarmente in Abruzzo, Molise, Campania, Puglia e Basilicata, ovvero lì dove è nata la dieta mediterranea.