Jean-Noël Schifano illustra la disunità d’Italia nella città di Garibaldi

al C.U.M. di Nizza conferenza su “la désunité italienne”

Angelo Forgione per napoli.com  – Sempre affascinato da Napoli, Jean-Noël Schifano, direttore letterario per l’editrice Gallimard e critico di Le Monde, ovunque si trovi, descrive la Capitale con stile e ricrea il fascino di una civiltà che mantiene la sua autonomia culturale.
Schifano è stato protagonista mercoledì 4 giugno di una conferenza al Centre Universitaire Méditerranéen di Nizza dal titolo “la désunité italienne”. Sì, la disunità italiana, raccontata proprio nella città natale di Garibaldi. Un’ora e mezza di racconti storici, più un quarto d’ora di risposte alle domande dei più di 300 presenti, per descrivere la realtà meno nota del Regno delle Due Sicilie nel 1860, le sue eccellenze, e l’interruzione del progresso ad opera di Garibaldi il nizzardo, Bixio, Cialdini, Vittorio Emanuele II e Cavour, «i criminali», attraverso «le menzogne e i plebisciti falsati agli occhi di tutti e sempre benedetti dalla Repubblica italiana».
Il percorso storico è culminato nel disastro del presente, nel degrado sociale del Mezzogiorno di oggi che muore sempre più e non può trovare speranze nelle contraddizioni verbali del premier italiano Matteo Renzi, «un nanomachiavelli», prima lusinghiero in campagna elettorale europea nei confronti dell’antico Stato meridionale, a tal punto da eleggerlo a modello di rinascita economica, e poi offensivo subito dopo le elezioni.
Vibrante anche la denuncia del museo lombrosiano di Torino, definito da Schifano «un obbrobrio dell’umanità». Quando dal pubblico l’esposizione è stata definita “una sfumatura della storia”, Schifano ha risposto con decisione: «Fatti e date, caro Signore, fatti e date che il mondo intero può controllare… E, scusi, se lei scoprisse un bel giorno in un museo, su uno scaffale nuovo fiammante, in un boccale conservato da 150 anni, la testa del suo bisnonno, farebbe delle sfumature?» Applausi scroscianti in sala.
Significativa una citazione di Rocco Scotellaro: «Bisogna strappare le maschere con i denti…». Vera emozione del pubblico, unita alla commozione per le reclusioni nel forte di Fenestrelle e per la descrizione, con dovizia di particolari, di alcuni massacri commessi delle truppe piemontesi.
Schifano ha pure messo in evidenza le campagne denigratorie di cui Napoli è vittima da più di un secolo e mezzo, descrivendo per esempio le varie copertine de l’Espresso, tra cui l’ultima titolata “Bevi Napoli e poi muori”: «Innumerevoli umiliazioni per coprire la sola Città capitale d’Italia di onta identitaria e rinforzare a spazi regolari, da 154  anni, una xenofobia storica degna dei peggiori colonizzatori».
«Non immaginate – ha detto l’intellettuale francese – con quanta rabbia Napoli e il Sud stiano riprendendosi sempre di più l’identità rubata, nonostante tutte le razzie economicamente mortali che da 154 anni si sono fatte, da Marsala alla Campania Felix. E questo grazie anche al coraggio di scrittori come Pino Aprile e Angelo Forgione (ringraziamenti, NdR), determinati a pubblicare libri-verità accecanti».
Chiusura con una sentenza: «A giudicare dalla partecipazione, Garibaldi, a Nizza, sembra “seppellito” da molto tempo».

video / Ippolito Nievo, le ruberie dei Mille e la prima strage di Stato

Tratto da La storia siamo noi (Rai), l’enigma del vapore Ercole, la nave scomparsa nel nulla che trasportava la scottante contabilità della spedizione dei Mille. Partì da Palermo la sera del 4 marzo 1861. A bordo c’era Ippolito Nievo con altre settantanove persone tra equipaggio e passeggeri, e il Rendiconto nel quale si dimostrava, con meticolosa precisione, l’operato di tutta l’Intendenza delle finanze garibaldine. Nel fascicolo erano contenute notizie riservate, che non sarebbe stato opportuno rivelare perché avrebbero acclarato la pesante ingerenza del Governo di Londra nella caduta del Regno delle Due Sicilie. Nievo aveva dovuto gestire un ingente finanziamento in piastre turche proveniente dalle massonerie britanniche, che aveva favorito l’arrendevolezza di gran parte degli ufficiali borbonici e delle alte cariche civili duosiciliane: un’immobilità che aveva paralizzato l’Esercito e soprattutto la Marina borbonica, senza la quale il più grande Stato della penisola italiana, con la terza flotta europea di quel tempo, sarebbe difficilmente caduto. Il Vice Intendente era rimasto nauseato da ciò che aveva visto, da come veniva trattato il popolo siciliano e di come le cose erano andate contro le sue aspirazioni.
Il rendiconto non arrivò mai a Napoli, da dove doveva proseguire per Torino. Il console amburghese Hennequin, che a Palermo curava gli interessi inglesi, aveva cercato di dissuadere Nievo dall’imbarcarsi su quella nave, ma il Vice Intendente ignorò, forse consapevole del suo destino, il criptico avviso dell’annunciata prima strage di Stato dell’Italia unita.

Italia corrotta, quando e come nasce

dall’Unità in poi, solo governi votati al profitto personale

Angelo Forgione La corruzione è un carattere distintivo e fortemente accentuato in Italia. Non è solo una percezione nostrana ma qualcosa di ben radicato nell’opinione pubblica internazionale. Nella classifica di dicembre 2013 dei coefficienti di corruzione di 177 Paesi nel mondo, redatta dalla ong Transparency International, l’Italia si è piazzata al 69esimo posto, a pari “merito” con il Kuwait e la Romania, e dietro a Uruguay, Botswana, Costarica e Lesotho. L’ultima posizione è occupata dalla Somalia, proprio quella nazione con cui l’Italia di Craxi strinse patti basati sul traffico di armi e rifiuti tossici, dai quali è poi conseguito l’inquinamento della Campania e del Mezzogiorno. In Europa, peggio di noi fanno solo Serbia, Bulgaria, Grecia e Albania, oltre a Russia e Ucraina. Ma qual’è l’origine di tanta disonestà?
L’Italia è nata così, non lo è diventata. Tanto per cominciare, fiumi di denaro in piastre turche, facilmente commerciabili e difficilmente tracciabili, sono scorsi da Londra via Torino per pagare la spedizione garibaldina e annettere il Sud al Piemonte. II criminologo positivista dell’Ottocento Cesare Lombroso, un grande agitatore di idee che fa discutere ancora oggi, molto criticato per alcune sue teorie scientifiche sulla fisiognomica destituite di ogni fondamento, ma al quale va comunque riconosciuto il merito di aver iniziato gli studi criminologici moderni, nel suo trattato L’uomo delinquente del 1876 lanciò strali su ministri e deputati del Regno d’Italia, da Cavour ad Agostino Depretis, in carica in quel momento:
“[…] Una triste osservazione in Italia mi ha dimostrato che dopo Cavour non si ebbe un ministero completamente onesto che potesse reggersi. Se vi prevalevano uomini troppo onesti, il ministero era certo di una brevissima durata, perché non aveva abbastanza tenacia, furberia, tristizia contro le mene parlamentari. […] Il ministro certamente più carico di delitti che sia mai esistito poté or ora, non solo reggersi davanti alla Camera, ma anche davanti alla opinione pubblica e governare senza una vera opposizione nel paese che tanto più gli si prostrava sommesso, quanto più si allontanava dalla legge. Ed è morto pieno di onori e d’anni ed ha una statua collocatagli certo per volere di molti italiani, quel ministro mediocrissimo di mente che se pur non corrotto instaurava da noi la più sfacciata corruzione parlamentare. Ecco dunque il vizio divenuto quasi necessario pel governo parlamentare. Anche agli specialisti medici, avvocati, la bugia è necessaria nei nostri tempi, è quasi la base delle loro operazioni.”
Del resto, quando Vittorio Emanuele II morì, nel 1878, lasciò debiti su questa terra per 40 milioni di lire dell’epoca, circa quarantacinque milioni di euro attuali, e lo storico Denis Mack Smith, specializzato nella storia italiana dal Risorgimento, afferma in Vittorio Emanuele II (Laterza, 1983) che “le carte di Cavour vennero tolte di forza dal governo italiano agli eredi del conte nel 1876, e in seguito soltanto poche persone hanno potuto vederle. Sembra che nel 1878 una parte di quelle carte siano state trasferite negli archivi reali, e ciò serviva senza dubbio a nascondere certi fatti nei quali il sovrano era coinvolto”. Una disinvolta tendenza a dissipare che iniziò allora, quando la corte sabauda era considerata tra le più sfarzose e spendaccione d’Europa.
I primi scandali finanziari del Regno d’Italia furono anche copiosi. Vale la pena citarne qualcuno per tutti: dietro la regia del politico e banchiere Pietro Bastogi, Ministro delle Finanze, le Ferrovie Meridionali furono cedute alla propria compagnia finanziaria privata, per poi subappaltare clandestinamente i lavori, dando luogo alle indagini di una Commissione d’inchiesta parlamentare, senza che però le speculazioni sulla costruzione delle reti ferroviarie terminassero. Il capitale fu ripartito tra le banche del Nord, con Torino, Milano e Livorno che presero la fetta più grande. Sempre dietro la regia di Bastogi, nel settore edilizio si sviluppò una forte speculazione a Roma, Napoli e Milano, nata dall’alleanza tra aristocratici proprietari terrieri e grandi banchieri settentrionali, interessati a guadagni a breve termine e senza rischi. In quegli anni, tra l’altro, fu decisa l’edificazione a Roma del Vittoriano, monumento nazionale a Vittorio Emanuele II appena morto, un’enorme mole di marmi e sculture dal costo insostenibile per l’Italia. Gli squilibri creati dall’edilizia impazzita fecero crollare il settore e fallire gli istituti di investimento immobiliare, generando lo scandalo della Banca Romana. Per coprire le enormi perdite, l’istituto di credito capitolino forzò l’emissione di moneta senza autorizzazione e stampò un ingentissimo quantitativo di banconote con un numero di serie identico ad altre emesse precedentemente, riservandone una parte per pagare politici e giornalisti. Una colossale truffa in cui furono implicati Francesco Crispi, Giovanni Giolitti e una ventina di parlamentari, nonché, seppur indirettamente, il re Umberto di Savoia, fortemente indebitato proprio con la Banca Romana.
L’incredibile esplosione di scandali e fallimenti bancari della seconda metà dell’Ottocento scandirono lo sviluppo politico che seguì all’unificazione nazionale. Nel 1876, la “Destra storica” piemontese di Cavour, La Marmora e Ricasoli fu sconfitta dalla “Sinistra” monarchica di Depretis, Nicotera e Zanardelli. Ma i due schieramenti governativi non rappresentavano espressioni diverse e alternative, essendo facce della stessa medaglia, entrambe espressione della borghesia liberale. Si sviluppò il “trasformismo” del sistema di governo italiano, che costruiva ogni maggioranza con accordi e patti basati su interessi contingenti. Il clima consociativo, cioè privo di una vera e propria opposizione politica, alimentò le furbizie e le manovre segrete, costruendo un sistema politico a vantaggio di tutti, tale da non incoraggiare le riforme necessarie per modernizzare l’Italia, a favore degli interessi privati. Giustino Fortunato denunciò che il governo d’Italia delegò i politici meridionali  a sostenere rapporti con le mafie per ricorrervi in occasione di tornate elettorali. Già un rapporto del 30 novembre 1869 emesso della Prefettura di Napoli evidenziò le frequentazioni tra Giovanni Nicotera, futuro Ministro degli Interni, e un camorrista del quartiere Mercato. Lo Stato, in sostanza, garantiva riduzioni di pena e trattamenti compiacenti in cambio di favori elettorali. Nacque e si definì così il voto di scambio all’italiana. Nel 1901, in una Napoli travolta dalla speculazione edilizia piemontese-romana, nell’ambito del risanamento dei rioni popolari, e da una “tangentopoli” attorno agli appalti per l’illuminazione pubblica e i tram, venne istituita una Commissione d’inchiesta presieduta dal savonese Giuseppe Saredo, che portò a galla la grave situazione di inquinamento da accresciuto potere della camorra politico-governativa, accertando i legami del parlamentare Alberto Aniello Casale con la camorra, coinvolgendo anche il giornalista Edoardo Scarfoglio, direttore de Il Mattino, accusato di aver intascato danaro per sostenere i corrotti sulle pagine del quotidiano. Un brano del rapporto conclusivo della Commissione appurò le responsabilità dei parlamenti di Torino, Firenze e Roma nell’accrescimento del potere camorrista:
“Il male più grave, a nostro avviso, fu quello di aver fatto ingigantire la Camorra, lasciandola infiltrare in tutti gli strati della vita pubblica e per tutta la compagine sociale, invece di distruggerla, come dovevano consigliare le libere istituzioni, o per lo meno di tenerla circoscritta, là donde proveniva, cioè negli infimi gradini sociali. In corrispondenza quindi alla bassa camorra originaria, esercitata sulla povera plebe in tempi di abiezione e di servaggio, con diverse forme di prepotenza si vide sorgere un’alta camorra, costituita dai più scaltri e audaci borghesi. […] È quest’alta camorra, che patteggia e mercanteggia colla bassa, e promette per ottenere, e ottiene promettendo, che considera campo da mietere e da sfruttare tutta la pubblica amministrazione, come strumenti la scaltrezza, la audacia e la violenza, come forza la piazza, ben a ragione è da considerare come fenomeno più pericoloso, perché ha ristabilito il peggiore dei nepotismi, elevando a regime la prepotenza, sostituendo l’imposizione alla volontà, annullando l’individualità e la libertà e frodando le leggi e la pubblica fede.”
Con il dilagare indisturbato della corruzione dei deputati e la sparizione di soldi pubblici si inaugurò inevitabilmente la crescita del deficit dello Stato. Dopo il 1855, l’indebitato Piemonte, che da solo ebbe, fino al 1898, 41 ministri contro 47 dell’intero Sud, non compilò più il bilancio statale, oscurando le informazioni. Dopo aver invaso il Regno delle Due Sicilie, il Regno d’Italia si inaugurò a Torino con un alto debito che è sempre cresciuto nel corso di questi 153 anni, arrivando a superare i 2.000 miliardi di euro.
Il sistema politico-sociale della Nazione è rimasto sempre lo stesso, costruito sulla corruzione e sull’interesse personale. Ricordare la storia d’Italia del secondo Novecento servirebbe solo ad allungare il brodo. Meglio indugiare su una vignetta che nel 2009 ha vinto il Concorso nazionale di Satira e Umorismo “L’Ortica” (in basso). Si chiama “Homo Ridens: tributo semiserio a Darwin”, ed è stata realizzata da Marco Martellini, che ha disegnato ogni figura col un suo perfetto corrispettivo sul versante opposto. L’evoluzione della specie parte da una scimmia che si ingobbisce per diventare prima uomo di Neanderthal e poi predatore. L’acme è rappresentato da Giulio Cesare e dalla “civitas romana”. L’inizio dell’involuzione è rappresentato dall’Unità d’Italia nella figura del massone Garibaldi, omologo del predatore, che prelude alle tre figure imperanti della politica del Novecento: Mussolini, Andreotti e Berlusconi.
Mi fermo col quesito di Lorenzo Del Boca, dal 2001 al 2010 presidente dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti: «Con queste premesse, è possibile pensare che l’Italia avrebbe potuto essere diversa da quella che è?» È l’interrogativo con cui, nel febbraio 2012, concluse un intervento (clicca qui per ascoltare) sulle nascita risorgimentale della corruzione in Italia. Per chi non lo sapesse, Del Boca è un piemontese doc di Novara, non un meridionale.

vignetta

Il palazzo della Borsa che inganna i napoletani

Lo ordinò Cialdini per nascondere la scia di sangue lasciata al Sud

Angelo Forgione – Il Comune di Casamassima, Bari, ha cancellato Enrico Cialdini dalla toponomastica stradale; dal 30 dicembre 2013 non esiste più (leggi qui). Lo stesso, dopo pochi giorni, ha fatto Mestre, Venezia (leggi qui).
Cialdini, per chi non lo sapesse, fu il luogotenente di Vittorio Emanuele II a Napoli, con poteri eccezionali per fronteggiare il brigantaggio. Lasciò una scia di sangue e dolore in tutto il Sud, firmando la condanna a morte di circa 9000 meridionali, oltre ai violentissimi bombardamenti dell’assediata Gaeta, la decina di paesi interamente dati alle fiamme (Pontelandolfo e Casalduni i più noti), i feriti, i prigionieri, i deportati, le perquisizioni e le chiese saccheggiate. A chi si domanda a cosa serva ritirare fuori tutto questo dal passato basti ricordare che l’Italia ha fatto sparire il capitano delle SS naziste Erich Priebke nel nulla di un posto segreto per le 335 vittime delle Fosse Ardeatine. Non è forse passato anche quello? E però quest’Italia non si è mai scomposta per figure ben più feroci come quella di Enrico Cialdini, serenamente seppellito a Livorno. La guerra tra italiani ha portato in gloria un generale sanguinario e vanaglorioso che continua a godere di falsi onori.
Recentemente, in una seduta consiliare del Comune di Bacoli è passato un documento per la celebrazione del bicentenario dei Carabinieri, ringraziati anche “per la lotta ai briganti”. I consiglieri indipendenti Adele Schiavo e Josi Della Ragione si sono opposti, proponendo un emendamento con cui chiedevano l’eliminazione della parte della frase relativa alla lotta ai briganti, bocciato per i voti contrari dei consiglieri di PD e Forza italia. Briganti o patrioti? La rilettura degli avvenimenti che sconvolsero il meridione dopo il 1860 è in corso ma fatica a trovare accoglimento nei luoghi istituzionali. Al palazzo della Borsa di Napoli in piazza Bovio, ad esempio, nel salone delle contrattazioni, c’è proprio il simbolo della colonizzazione culturale dalla quale deriva tutto il resto: il busto di Cialdini (clicca sulla foto per ingrandire). Fu una sua volontà. Un bell’edificio costruito a fine Ottocento per cancellare lo splendore della precedente sede della prima Borsa d’Italia, la Borsa Cambi e Merci, nata nel 1778. Dal 1826 svolgeva la sua attività nella Gran Sala del Real Edificio dei Ministeri di Stato, l’attuale Palazzo di San Giacomo, a metà dell’antico cammino coperto in ferro e vetro realizzato da Stefano Gasse che conduceva a via Toledo, cancellato nel Ventennio fascista dalla costruzione del palazzo del Banco di Napoli (nel 1778, le contrattazioni avvenivano nel chiostro del complesso religioso di san Tommaso d’Aquino, tra via Toledo e via Medina, abbattuto nel 1932, e poi, con l’arrivo dei francesi, nella sede del palazzo del Monte dei Poveri Vergognosi in via Toledo, divenuto successivamente quello de “La Rinascente”).
Quello attuale si chiama salone delle contrattazioni solo pro forma, visto che Cialdini compartecipò allo svuotamento delle casse degli istituti di credito meridionali e alla progressiva sparizione della Borsa di Napoli dalle scene finanziarie nazionali ed internazionali. Quel busto, insieme a quello di Cavour che gli sta di fianco, sempre voluto da Cialdini, è una beffa, un simbolo di colonizzazione a bella posta. Il luogotenente modenese elargì una parte di quanto risparmiato dalle spese di rappresentanza per conto di Vittorio Emanuele II sui fondi messigli a disposizione dal Re d’Italia, e fece costruire il palazzo della Borsa in modo che il suo nome non fosse maledetto dai napoletani e dai meridionali, auto-assolvendosi in questa maniera per le sventure procurate. La sua coscienza era sporca e lo si capisce dalle parole pronunciate quando lasciò la città al termine della sua luogotenenza: «Tolga il cielo che il mio soggiorno tra Voi sia stato di danno a queste belle Provincie». Sui muri della città i napoletani gli lasciarono un messaggio esplicito: «quando il Vesuvio rugge, Cialdini fugge». Era il verso alla frase «quando rugge il Vesuvio, Portici trema» con cui, il 19 luglio 1861, il generale concluse il minaccioso proclama di insediamento a Napoli. Il Vesuvio era egli stesso, e dietro il nome di Portici alludeva alla nobiltà filoborbonica ritiratasi nei paesi vesuviani per non vedere la cancellazione della patria napolitana.
Cialdini non immaginava che sarebbero trascorsi circa quarant’anni prima che il palazzo col suo busto fosse inaugurato. Solo dopo la sua morte (1894) furono avviati i lavori di costruzione. La difficoltà di trovare un suolo adeguato allungò i tempi, durante i quali si aggiunsero contributi della Provincia, del Comune e del Banco di Napoli. A rendere ancora più grande la beffa ci ha pensato l’amministrazione Iervolino che, nel dicembre 2010, ha fatto sistemare il monumento equestre di Vittorio Emanuele II (rimosso da piazza Municipio) nella piazza appena rimessa a nuovo con la chiusura dei cantieri della metropolitana. Qualche tempo fa, come riportato su questo blog, Jean-Noël Schifano chiese al presidente della Camera di Commercio di Napoli di far rimuovere il busto di Cialdini perché, appunto, offensivo. Maurizio Maddaloni rispose che se fosse stato per lui avrebbe già incappucciato anche Cavour. Chi sta a guardia di certi simboli su cui non ci si deve interrogare?

Sissi e Maria Sofia, due sorelle regine in guerra

wittelsbachAngelo Forgione per napoli.com Maria Sofia Wittelsbach, l’ultima regina di Napoli, sposa di Francesco II di Borbone, e la più celebre sorella Elisabetta, moglie di Francesco Giuseppe d’Austria, detta “Sissi”, erano donne molto simili e tanto affiatate. Figlie del duca di Baviera Max e della duchessa Ludovica, crebbero insieme nella tenuta di Possehofen, dove divennero abili cavallerizze, impararono a tirare di scherma, a fare ginnastica e a nuotare. Maria Sofia, di circa quattro anni più giovane, era la preferita del padre che si rivedeva in lei. Ma Elisabetta era molto somigliante a Maria Sofia, non solo esteticamente: entrambe erano molto vicine a rassicuranti per i loro soldati. La “napolitana” resistette con i suoi sul forte di Gaeta, sotto assedio delle bombe dei potenti cannoni rigati in dotazione ai piemontesi, guidati dal feroce generale Cialdini. Si recava sul fronte, e poi negli ospedali, dove portava il suo conforto. Aveva diciannove anni, il suo Francesco ventiquattro. Due ragazzi catapultati sullo scenario internazionale, ad accompagnare la fine di un Regno. Si erano sposati l’8 gennaio 1859 a Monaco di Baviera e lei, subito dopo, prima di trasferisi a Napoli, si era recata per un breve soggiorno a Vienna, per stare accanto alla sorella Sissi, in quel momento malata. Ciò nonostante, Elisabetta ricambiò il gesto, accompagnando Maria Sofia a Trieste, da dove si imbarcò alla volta di Bari per giungere a Napoli, dove avrebbe presto preso le redini di uno Stato considerato il giardino d’Europa.
Gli eventi, per le due, stavano per precipitare. Napoleone III e Cavour si accordarono segretamente per una guerra a Francesco Giuseppe, combattuta tra il 27 aprile e il 12 luglio. L’Austria, perdente, fu costretta a cedere alla Francia la Lombardia, girata poi al Regno di Sardegna. Ne conseguì la fine delle ingerenze politiche della sovranità austriaca in Italia, con Toscana, Parma, Modena e Romagna pontificia che consegnarono il potere a governi provvisori filopiemontesi. Restavano da spodestare i Borbone dal Sud e fu più facile con la morte di Ferdinando II, che, durante gli ultimi giorni della sua vita, aveva istruito i principi ereditari sulle faccende del Regno, raccomandando la bavarese di non fidarsi mai dei “parenti di Torino”, definiti “piemontesi falsi e cortesi”.
Garibaldi iniziò l’invasione a maggio. La preoccupazione per l’amata sorella Maria Sofia spinse Elisabetta a chiedere un intervento dell’Austria a favore delle Due Sicilie, ma Francesco Giuseppe preferì evitare di intromettersi in uno scenario in cui le grandi potenze di Inghilterra e Francia avevano deciso perentoriamente le sorti italiane. Il matrimonio tra i due, già minato da notizie di infedeltà da parte dell’Imperatore, entrò in crisi.
L’8 dicembre, Francesco II decretò la resa al Piemonte e il 14 febbraio successivo, dalla piazzaforte di Gaeta, diede il suo commiato ai soldati al culmine di una resistenza valorosa. La borbonica Gaeta fu rasa al suolo, punita perché nel 1848 aveva ospitato Pio IX nel suo riparo dalla Repubblica Romana di Mazzini, Saffi e Armellini. Con il Re, Maria Sofia lasciò la “fedelissima” per l’esilio vaticano di Roma, a bordo del piroscafo francese Mouette, mentre sulla fortezza le truppe sabaude ammainavano per l’ultima volta la bandiera bianca delle Due Sicilie per issare il tricolore sabaudo. L’Italia iniziava lì, e poco più di un mese più tardi Vittorio Emanuele II si sarebbe autoproclamato “Roi de l’Italie”. La piccola Wittelsbach avrebbe odiato per sempre i piemontesi, covando vendetta e sperando sempre di trovare il modo per riprendersi il suo Regno. Già dalla sua nuova residenza di Palazzo Farnese, proprietà dei Borbone in una sporca e decadente Roma, progettò con legittimisti, banditi e avventurieri, il riscatto. Non vi riuscì mai. Anzi, subì infamia, a cominciare dalla pubblicazione, nel 1862, del primo fotomotaggio della storia con il suo volto applicato al corpo nudo di una prostituta, messo in circolazione da agenti liberali filo-piemontesi. Nel 1917, durante la Prima guerra mondiale, appoggiò l’Impero tedesco e quello austro-ungarico contro il Regno d’Italia dei Savoia. Come a Gaeta 56 anni prima, visitò i campi dei prigionieri italiani per portare loro dei libri, dei sigari e un po’ di cibo. Cercava quelli meridionali, ai quali si rivolgeva con un curioso accento tedesco-napoletano, e quelli non sapevano chi fosse quell’anziana signora così sensibile e cordiale. La valorosa donna tedesca visse sempre in esilio, lontana dalla “sua” Napoli.
Nell’ex Capitale si recò invece Sissi, l’11 settembre del 1890; un tour di cinque giorni per vedere i posti in cui la sorella minore aveva regnato e per lenire un grosso dolore: l’anno prima, il figlio Rodolfo si era tolto la vita dopo aver ucciso la donna amata. Elisabetta non si sarebbe mai ripresa da quel dolore, portando il lutto fino all’ultimo giorno della sua vita, in preda a continui esaurimenti nervosi. Giunse a Napoli a bordo del suo yacht e si tuffò subito nella città della congiunta. Tra caffè e gelati al Gambrinus, visitò monumenti, gustò panorami e curiosò tra negozi e botteghe, dove si rifornì di porcellane, pastori da presepe, coralli e molte altre specificità locali che gli artigiani napoletani lavorarono esclusivamente per lei. Fu anche alla Reggia di Caserta, dove ammirò con emozione i ritratti della sorella e, fortemente scossa, si soffermò in contemplazione al cospetto di quello col figlio Rodolfo. Il 17 novembre Sissi prese il treno e andò a Pompei, dove alcuni artisti stavano copiando per lei affreschi e decorazioni da riprodurre nella sua villa di Corfù. Quattro anni dopo, il cognato Francesco II delle Due Sicilie, malato di diabete, morì ad Arco di Trento. Nel 1898 toccò a lei: a Ginevra fu accoltellata da un anarchico squilibrato, trovando riposo eterno nella Cripta Imperiale di Vienna.
Maria Sofia visse più a lungo. Solo il 19 gennaio del 1925, a Monaco, l’ultima regina di Napoli lasciò questo mondo. Riuscì a tornare a Napoli col marito solo il 18 maggio 1984, quando le loro spoglie furono traslate dalla chiesa dello Spirito Santo dei Napoletani a Roma nella basilica di Santa Chiara. Poco più di un mese dopo, un certo Diego Armando Maradona sarebbe sbarcato a Napoli. Un altro re, che avrebbe portato il primo scudetto in città in un 10 maggio (1987), la stessa data dell’ingresso di Carlo di Borbone nel 1734. Ma questa è un’altra storia.

Napoli scaccia i Maya. Quando i sabaudi?

Angelo Forgione – I sacrosanti strali di Jean-Noël Schifano contro il busto di Cialdini alla presentazione del “Corno Show” (guarda il video) sono da benedire perché aprono un prezioso dibattito identitario e non revanscista nelle sedi istituzionali. “Il Mattino” di oggi commenta con un articolo di Enrica Procaccini la sua scritta “Che crepi Cialdini il cialtrone” apposta col pennarello argento sul corno di Lello Esposito. E si legge così: “Ma con Maddaloni, Schifano sfonda una porta aperta. «Fosse per me – spiega Maddaloni – avrei già incappucciato anche chi nel nostro salone sta a fianco di Cialdini» (Cavour, n.d.r.) perché sono figure che con il popolo napoletano hanno ben poco a che fare».
Il presidente della Camera di Commercio sarà pure d’accordo con Schifano e con coloro che la storia la conoscono, ma anche lui dimostra con quel “fosse per me” che la porta è tutt’altro che aperta. Anzi, è sbarrata a 152 mandate perchè se non può rimuovere Cialdini vuol dire che qualcuno quella porta l’ha blindata anni fa e qualcun altro oggi la sorveglia evitando che venga sfondata.
borsa_napoliIl busto di Cialdini all’interno del palazzo della borsa di Napoli (clicca sulla foto per ingrandire) parla da sè con la sua espressione sprezzante e autoritaria. Ma se qualcuno non si spaventa a vederlo forse può trasalire pensando ai circa 9.000 fucilati (anche esponenti del clero), ai circa 10.000 feriti, ai circa 7.000 prigionieri, alle circa 1.000 case incendiate, alle circa 3.000 famiglie violate, ai circa 14.000 deportati in Piemonte, ai 6 paesi interamente messi a ferro e fuoco, ai circa 1.400 comuni assediati, alle circa 160.000 bombe scaricate su Gaeta che fecero circa 5.000 vittime tra napoletani (in grande maggioranza) colpiti anche da tifo e piemontesi, alle chiese e le regge saccheggiate. Tutto sommato basta per descrivere il generale vanaglorioso e spietato che “liberò” Napoli e il Sud per conto di Vittorio Emanuele II. A proposito, il monumento equestre al re è proprio fuori il palazzo camerale, al centro della nuova piazza, e qualcuno ne ha già imbrattato il basamento posteriore con la scritta “Sud libero”.
Vuoi vedere che invece di scacciare la fine del mondo dei Maya è iniziata l’epurazione dei falsi eroi risorgimentali? Chissà cosa è più probabile.

Schifano: «via il busto di Cialdini da Napoli»

Il corno di 270 centimetri in vetroresina dell’artista Lello Esposito è stato svelato alla Camera di Commercio che ha ospitato la presentazione del “Corno Show” oggi, 12/12/12 alle 12:12, per esorcizzare la profezia dei Maya. Il corno apparirà in primavera nelle piazze della città, ne saranno installati 36 nei punti più gettonati dai turisti con l’obiettivo di riqualificare e rivitalizzare il centro storico, decorati da altrettanti artisti. Faranno da contorno alle World Series di America’s Cup e al Maggio dei Monumenti. Una mostra che vuole essere «un intervento semplice ma qualitativo di arredo urbano», ha detto il presidente della Camera di Commercio Maurizio Maddaloni. Con lui, tra gli altri, l’intellettuale Jean-Noël Schifano che ha sollecitato più identità napoletana al posto dei simboli dell’occupazione risorgimentale lanciando un appello alla città affinché sia eliminato dall’edificio camerale il busto del «criminale di guerra e boia Enrico Cialdini, un cialtrone che uccise migliaia di briganti e rappresentanti di clero e nobiltà nel 1861», così come quello di Cavour e di tutte le altre icone piemontesi dai luoghi di Napoli. Schifano ha poi firmato il corno gigante con il pennarello argento, lasciando ben chiaro il messaggio: “Che crepi Cialdini”.

Un dono per Gennaro Iezzo

Un dono per Gennaro Iezzo

all’ex azzurro il pumphlet “Malaunità, 150 anni portati male”

L’ex portiere del Napoli Gennaro Iezzo non ha ancora finito di leggere “Terroni” ma ha già la prossima lettura meridionalista… magari sotto l’ombrellone.

Eugenio Di Rienzo: «il revisionismo non è invenzione»

Eugenio Di Rienzo: «il revisionismo non è invenzione»

a Tg2 “Mizar” un’altra spallata alla retorica risorgimentale

Angelo Forgione – Nel video “il più bello dei regni” dedicato alla vittoria sportiva del Napoli sul Chelsea, ho fatto qualche riferimento storico al ruolo che l’Inghilterra e le politiche di Londra hanno avuto (anche) nella storia di Napoli. Le ingerenze e le prepotenze furono tante perchè tanto timore e tanto astio si accumulò durante il regno di Ferdinando II che non accettava imposizioni di politica estera e non subiva alcun complesso di inferiorità.
Nella notte tra Sabato 25 e Domenica 26 Febbraio, la rubrica del Tg2 “Mizar“, una delle più sensibili alla verità storica, ha proposto una recensione del libro “Il Regno delle Due Sicilie e le potenze europee” (euro 14,00) dello storico Eugenio Di Rienzo dell’Università “La Sapienza” di Roma il quale ha spiegato a chiare lettere che il 150° anniversario dell’unità d’Italia è stato un’imposizione all’apologia del Risorgimento e che gli storici hanno il dovere di fare luce sugli accadimenti. Di Rienzo ha dato un’ulteriore spallata alla storiografia ufficiale legittimando una volta di più le tesi dei revisionisti: «Tanti fatti scaturiti dagli archivi stranieri che ho scritto sono considerati da anni leggenda neoborbonica ma quella non è leggenda» (è certamente più fantasiosa la leggenda dell’orgoglio rancoroso di matrice cazzulliana).
Il libro descrive il crollo del Regno delle Due Sicilie per causa di una decisiva pressione delle grandi “potenze marittime”, Francia e Inghilterra,  che dalla metà del XIX secolo tentarono di trasformare il Mezzogiorno in una colonia economica e in un avamposto strategico funzionale alla loro strategia mediterranea. Nel testo è proposta una documentazione inedita, proveniente dagli archivi diplomatici francesi, inglesi, austriaci, russi, spagnoli. Il saggio suggerisce inoltre che la stessa debolezza geopolitica che determinò il crollo dello Stato napoletano avrebbe condizionato, fino ai nostri giorni, il destino della “media potenza” italiana nel segno di un passato destinato a non passare.
E non è un caso che Garibaldi, recatosi a Londra nel 1864, fu acclamato da migliaia di persone deliranti. Fu l’uomo che cancellò il nemico napoletano, il più grande pericolo nel Mediterraneo; fu l’uomo che regalò un regno ricco e orgoglioso ai mediocri Savoia creandone uno più grande ma politicamente suddito del Regno unito.

13 Febbraio 1861, a Gaeta finiva l’indipendenza del Sud

Il tragico assedio di Gaeta mai raccontato nei testi scolastici

di Angelo Forgione per napoli.com

7 Settembre 1860: Garibaldi arriva a Napoli lasciando dietro di sé le “conquiste” siciliane e il re Francesco II di Borbone, per risparmiare disordini e distruzioni alla capitale, lascia Napoli, stabilendo la base operativa militare per l’ultima difesa del regno nella Piazzaforte di Gaeta.

Ormai, l’esercito borbonico, indebolito dai tradimenti al soldo dei corruttori, può ben poco contro il fuoco delle truppe di Vittorio Emanuele II di Savoia capeggiate dal furioso generale Cialdini, che si appresta a scippare il posto dei garibaldini e a raccogliere i frutti della strumentale spedizione al Sud con l’ultima battaglia, la più sanguinosa: quello di Gaeta.

Si tratterà, come per la Spedizione dei Mille, di un attacco che violerà tutte le regole militari e diplomatiche internazionali, senza dichiarazione di guerra o un motivo per giustificare l’intervento straniero in territorio legittimo. Un assedio estenuante che inizierà sul fronte di terra il 5 novembre 1860 e durerà tre lunghissimi mesi, durante i quali le truppe piemontesi mettono in campo i moderni cannoni rigati “Cavalli” a lunga gittata contro le ormai inadeguate bocche da fuoco dei napoletani. Vengono sparate contro la piazzaforte circa 500 colpi di cannone al giorno per tutta la durata del conflitto, durante il quale il Re e la Regina Maria Sofia di Wittelsbach, sorella della principessa “Sissi” Elisabetta di Baviera, restano valorosamente sempre al fianco dei fedeli soldati, persino sul campo di battaglia tra le esplosioni dei colpi di cannone che piovono dal fronte piemontese di Castellone a Mola di Gaeta, l’attuale Formia. È proprio la regina ad avere un ruolo di grande spessore umano, ormai innamorata del suo popolo e del suo regno, che non intende cedere all’invasore.

Inizialmente, la presenza della flotta francese nel golfo impedisce a quella piemontese, rafforzata da unità napoletane i cui ufficiali sono passate al nemico, di cannoneggiare la costa. Ma, a Gennaio, Cavour, da Torino, convince Napoleone III a desistere dal “proteggere” i napoletani e da quel momento i bombardamenti si fanno insistenti.

Per l’esercito borbonico la battaglia é impari, anche se non mancano valorosi scontri che alzano illusoriamente il morale; come quello del 22 gennaio 1861 allorchè i napoletani conseguono una parziale rivincita dopo aver subito, l’8 Gennaio, un cannoneggiamento di dieci ore con cui vengono distrutti anche i quartieri civili. La flotta piemontese deve ritirarsi per i danni causati dagli colpi sparati dalla piazzaforte a ognuno dei quali corrisponde il grido «Viva ‘o Rre». Alla sospensione dei bombardamenti la banda militare suona l’inno di Paisiello.

I reali napoletani sperano nell’intervento diplomatico di altre nazioni europee, magari quelle più amiche, che però non si concretizza, lasciando lo schieramento napoletano sempre più in balia dello sconforto. La cancellazione delle Due Sicilie è in realtà già stata stabilita a tavolino dalle più potenti nazioni d’Europa, che intendono spazzare via il più grande pericolo del Mediterraneo: il connubio amichevole tra lo stato ricco e cattolico del sud e il potere temporale del Papa.

Giunge quindi il tempo delle trattative per risparmiare vite umane, ma il generale Cialdini, uomo spietato e vanaglorioso, non solo non blandisce i bombardamenti ma li intensifica con maggior vigore, dirigendo le operazioni dalla sua comoda postazione nel borgo di Castellone.

La capitolazione dei napoletani è inevitabile e l’11 febbraio Francesco II decide di interrompere la carneficina. La resa viene sancita con una firma il 13 Febbraio, che però non basta ad arrestare la sete di trionfo di Cialdini. Mentre i borbonici si apprestano a porre fine alla resistenza e a deporre le armi, salta in aria la polveriera della Batteria “Transilvania”, dove cade l’ultimo difensore di Gaeta, Carlo Giordano, un giovane di sedici anni fuggito dalla Scuola Militare della Nunziatella per difendere la sua Patria. È l’ultima vittima in ordine di tempo dei circa 2700 fedeli caduti a Gaeta, che non avranno mai degna sepoltura. E poi circa 4000 feriti e 1500 dispersi.

Campani, siciliani, calabresi, lucani, pugliesi e abruzzesi, falcidiati dai bombardamenti e dal tifo petecchiale, in condizioni di vita rese impossibili anche da un inverno che è tra i più freddi di quel secolo. Eppure resistono fino allo spietato colpo di grazia di un generale considerato oggi uno dei padri della patria e che avrà dal Nuovo Re d’Italia Vittorio Emanuele II la nomina a Duca di Gaeta, città da lui rasa al suolo, e la medaglia al valore militare per i successivi eccidi di interi paesi del meridione.

Il Re Francesco II di Borbone e la regina Maria Sofia lasciano Gaeta il 14 febbraio imbarcandosi sulla corvetta francese “Mouette”, che li porta a Civitavecchia, in territorio pontificio, laddove inizia il loro triste esilio. Vengono salutati con 21 colpi di salva reale della Batteria “Santa Maria” e con il triplice ammainarsi della bandiera borbonica dalla Torre d’Orlando, tra la commozione di quanti capiscono che la fine del Regno delle Due Sicilie é giunta. Messina e Civitella del Tronto si arrenderanno solo a Marzo, ma la sottomissione di Gaeta segna di fatto il tramonto di un’indipendenza. Al posto della bandiera bianca coi gigli viene issato il tricolore con lo stemma della dinastia Savoia, a sancire la scrittura finale di una pagina cruenta inenarrata dai testi scolastici ma sempre viva nella memoria del popolo napoletano, che non dimentica una fine gloriosa e dignitosa di esempio ai posteri.

Nonostante gli accordi stipulati nell’armistizio, migliaia di fedeli soldati borbonici che non vogliono tradire il proprio giuramento al Re per sposare la causa militare piemontese vengono deportati in  carceri settentrionali come il forte di Fenestrelle, nella freddissima Val Chisone, dovduree sono avviati a stenti e sofferenze in quello che viene oggi definito il “lager dei Savoia”. Campi di concentramento anche a S. Maurizio Canavese, Alessandria, Genova, Savona, Bergamo, Milano, Parma, Modena, Bologna e in altre località settentrionali. A queste vittime si aggiungeranno nel decennio successivo quelle della repressione del brigantaggio. Civiltà Cattolica parlò, forse per eccesso, di circa un milione di morti su una popolazione delle Due Sicilie di circa nove milioni. In ogni caso, si trattò di eccidio, che non trova alcun ricordo o commemorazione.

Qualche anno fa, a seguito di scavi per interventi urbanistici a Gaeta, sono state rinvenute testimonianze di quei giorni di terrore e sangue: scheletri, frammenti ossei, stracci di divise militari, bottoni e monete. Testimonianze del colpo di grazia dato al Regno napoletano mettendo in ginocchio la “fedelissima” Gaeta, detta anche “secondo Stato pontificio”, che pagò perché colpevole di aver ospitato undici anni prima Papa Pio IX in fuga dalla Repubblica Romana. La cittadina fu retrocessa da vicecapoluogo provinciale a cittadina di provincia, per poi essere separata dalla sua storia e dalla provincia di Terra di Lavoro, regione del Regno delle Due Sicilie, e assegnata al Lazio nel 1927 nella nuova provincia di Latina.

Nella città è sempre viva la memoria di quegli eventi e va oltre il muro della retorica che nasconde le sepolte verità della nostra storia.