Topolino napoletano a “Unomattina”

Angelo Forgione – Qualcuno ricorderà che lo scorso aprile, incuriosito dall’incredibile somiglianza tra Mickey Mouse e il topo degli sciroppi La Sorgente, contattai i responsabili dell’azienda di Caivano, che mi diedero delle informazioni sul perché il loro disegno campeggiasse da anni indisturbato sulle loro etichette. Il buon Ruggero Guarini, prima di lasciare questo mondo, ebbe giusto il tempo di stupirsi della primogenitura napoletana del primo topo antropomorfo dell’umanità e scriverne sui quotidiani nazionali. Senza dubbio, il fascino partenopeo attorno al topo più famoso del mondo è così coinvolgente da solleticare anche gli autori del programma Rai Unomattina, i quali hanno imbastito una simpatica discussione sul mio approfondimento, ma attribuendomi una storia sulla cui veridicità indago, peraltro smentendo l’esistenza di Michele Sorece.

Il più bel loggiato del mondo

Angelo Forgione – «È mai possibile che nella città più laica e repubblicana d’Italia si identifichino con il nome di un Re, che peraltro non ha mai amato la nostra città, alcuni tra i suoi luoghi più significativi e caratterizzanti? Cambiamo denominazione al corso legato prima a Francesco Giuseppe I e poi all’allora Re del Piemonte Vittorio Emanuele, che voleva a sua volta ricordare la “conquista”. Rispettiamo l’iconografia e la storia popolare della nostra città e la nostra antica via di Nord Est ritorni a chiamarsi con il suo nobile ed antico nome di Corsia De’ Servi».
Il dibattito non riguarda chiaramente il corso Vittorio Emanuele di Napoli ma quello di Milano e la proposta è di Franco D’Alfonso, assessore comunale ai Servizi Civici del capoluogo meneghino. Lì ci ridono su, soprattutto perché i tempi moderni non consentono l’approfondimento culturale e perché per i milanesi, anche per loro, le priorità sono altre; ma la questione non è mica tanto da ridere!? Una replica piccata è giunta da Stefano Di Martino, già consigliere comunale di Alleanza nazionale e fervente monarchico, che ha sfidato a duello l’assessore, ritenendo che Casa Savoia sia stata “insultata” dalla proposta. «lo sfido a duello all’alba, in corso Vittorio Emanuele II, invitandolo a scegliere l’arma che più gli aggrada, dai secchi d’acqua alle sciabole».
Insomma, uno spiffero revisionista raggiunge anche Milano con un assessore che ha avuto il coraggio di proporre quello che nessun collega napoletano con delega alla toponomastica ha mai sollecitato affinché si ritornasse alla denominazione originale, cioè corso Maria Teresa. Eppure, quella strada aperta per alleggerire il traffico di carrozze nel centro urbano, collegare i due punti estremi a oriente e a occidente della città e raccordare la zona bassa col nascente quartiere collinare del Vomero, distaccato dal nucleo cittadino storico, meriterebbe di ritrovare la sua storia, perchè non è una strada qualunque. È la prima vera tangenziale urbana, un primo esempio di viabilità cittadina a scorrimento veloce, capace di catturare l’ammirazione e l’apprezzamento di tutta l’Europa proprio per la velocità di esecuzione e per le soluzioni adottate che la resero un’elegantissima strada panoramica di costa, definita nelle cronache del tempo come “il più bel loggiato del mondo”. Fu voluta da Ferdinando II che, dopo l’iniziale denominazione di strada delle Colline, la intitolò alla consorte regina Maria Teresa d’Asburgo-Teschen. Il toponimo corso Maria Teresa fu mutato subito dopo l’Unità d’Italia e sostituito col nome di corso Vittorio Emanuele. Non basta questo per restituire identità e storia a Napoli? Aggiungiamoci allora che il progetto originale di Errico Alvino, in collaborazione con gli architetti municipali Cangiano, Saponieri, Francesconi e Gavaudan, prevedeva un tracciato misto a mezza costa che avrebbe ricalcato l’orografia dei terreni alle pendici della collina di San Martino, estendendosi fino a Capodimonte; l’arteria, allacciandosi dal complesso monastico di Suor Orsola Benincasa con la via dell’Infrascata, l’attuale via Salvator Rosa, si sarebbe inoltrata a Materdei, congiungendosi alla strada interna realizzata durante il decennio napoleonico della città, l’odierno corso Amedeo di Savoia, per poi versare proprio a Capodimonte. Ciò avrebbe consentito di mettere più facilmente in comunicazione le due colline e la riviera, favorendo inoltre uno sviluppo più logico e ordinato della zona alle spalle del Museo. Ma l’estensione del corso fu realizzata solo parzialmente dopo le vicende risorgimentali e, nel 1873, fu portato a compimento solo il tratto da Suor Orsola Benincasa alla zona della Cesarea, la piazza Mazzini di oggi, cancellando l’approdo alla strada per Capodimonte, lo sviluppo dell’area di Materdei (oggi tra le più degradate dell’area urbana) e tutti i vincoli paesistici che avevano fatto del primo tratto un’elegantissima strada panoramica di costa. Già, perché Ferdinando II, con un lungimirante rescritto reale in materia di tutela e difesa paesistica, aveva infatti decretato il divieto assoluto di edificazione sul lato panoramico della nuova strada affinché fosse preservata la vista d’insieme del golfo, del Vesuvio e della città bassa. È infatti notevole e visibile la differenza estetica tra il tratto borbonico e quello “piemontese” nella strada di oggi. Ma che quella “superstrada” sia stata considerata il più bel loggiato del mondo prima di essere deturpato e stravolto in corso d’opera, solo la storia può insegnarlo… e magari qualche assessore coraggioso.

approfondimenti su “Made in Naples” di Angelo Forgione (Magenes, 2013)

Lo “Speciale Tg1” che rafforza i pregiudizi

Pollice verso, o quasi, per lo “Speciale Tg1” dedicato al colera del 1973 a Napoli. C’era da essere preoccupati a ragione. Napoli è stata dipinta ancora come una Calcutta italiana, nelle stesse condizioni igieniche di quarant’anni fa. Nonostante la crisi dei rifiuti degli anni scorsi, è francamente troppo! Questa è stata la conclusione tratta da Gennaro Sangiuliano, vicedirettore del Tg1 e curatore dello speciale terminato con la notizia del sequestro di due coltivazioni di cozze in acque prossime a scarichi fognari nel Golfo di Napoli. Casi che dimostrano evidentemente il buon monitoraggio dalla Guardia di Finanza, impegnata in una rassicurante opera di prevenzione.
Il taglio del reportage si è rivelato ben diverso dallo speciale “Napoli al tempo del colera” di Sergio Lambiase e Aldo Zappalà realizzato per “La storia siamo noi” in collaborazione con il master in giornalismo dell’Università Suor Orsola Benincasa. Quello si che descrive i fatti in maniera più equilibrata e veritiera, scagionando le cozze napoletane seppur coltivate con disinvoltura allo sbocco di cloache e collettori. Nella cozza partenopea c’era magari di tutto, eccetto il vibrione del colera che arrivò da molto lontano nel Pacifico. E senza la partita di mitili tunisini, Napoli e le città mediterranee non sarebbero state contagiate. Lo “Speciale Tg1” ha gettato ancora una volta la croce addosso alla città del Vesuvio, facendo solo qualche piccolo riferimento al coinvolgimento di altre città del Mediterraneo nella pandemia, come se queste fossero state contagiate dal focolaio napoletano. I 6 morti di Bari equivalgono ai 23 di Napoli, se si rapporta la popolazione delle due città, e neanche si è accennato al lungo perdurare dell’emergenza altrove, mentre a Napoli tutto fu risolto in circa due mesi con la più grande profilassi d’Europa favorita dalla compostezza del popolo partenopeo.
Napoli non può continuare ad essere dipinta come una dannata città del Seicento. Questo esercizio non fa altro che alimentare i luoghi comuni, gli stessi che allontanarono i turisti nel 1973, tornati in città solo con la buona vetrina del G7 del 1994. Produrre un reportage con certi messaggi sdoganati dalla rete ammiraglia della RAI in un momento in cui il turismo in Italia è in calo causa danni all’immagine di una città che, dopo lo scandalo rifiuti, di viaggiatori internazionali ne sta intercettando molti e sta reggendo alla flessione del dato nazionale. Chi scopre Napoli resta spesso sorpreso in positivo da ciò che vede, scrollandosi l’immagine distorta della vigilia che prende una forma più fedele al contatto con la realtà osservata coi propri occhi (vedi servizio del TgR Campania del 25 agosto ’13 in basso). Marcello Mastroianni raccontò che negli anni Ottanta, in occasione delle riprese del film “Maccheroni”, Jack Lemmon portò una valigia piena di medicinali: “Chissà cosa gli avevano detto a Hollywood. Colera… vai a sapere cosa poteva prendere a Napoli. E invece rimase sbalordito e si rese conto che non era così… che era una città amorevole, piena di simpatia per lo straniero” (guarda il video).
Il vicedirettore Sangiuliano, serio e preparato professionista napoletano, avrebbe potuto sfruttare l’occasione per parlare di rifiuti tossici delle aziende del Centro-Nord seppelliti nelle campagne tra Napoli e Caserta con la complicità di camorra e colletti bianchi, quello sì un problema tragicamente attuale, invece di ricalcare un pernicioso canovaccio ai danni di Napoli e mettere in guardia da un vibrione che sembrerebbe in agguato.

40 anni dopo, il colera del 1973 a “Speciale Tg1”. Quali intenti?

Domenica 25 agosto andrà in onda una puntata di “Speciale Tg1” che rivisiterà i drammatici eventi del colera a Napoli del 1973, a quarant’anni dall’epidemia che colpì non solo la città partenopea ma anche altre città del bacino del Mediterraneo.
«Dopo quarant’anni Napoli si ritrova nelle medesime condizioni di allora, se non peggio». Il giudizio tranchant sarà espresso del regista napoletano Francesco Rosi nel documentario curato dal vicedirettore della testata, il napoletano Gennaro Sangiuliano. E in effetti le condizioni igieniche di Napoli sono ancora oggi al di sotto degli standard europei e indegne di una città di grandissima storia e cultura. Nessuno lo neghi e lo nasconda, ma c’è da chiedersi quali siano gli intenti nel “celebrare” quegli eventi a otto lustri di distanza, riproponendo presumibilmente le inchieste realizzate all’epoca dei fatti che non furono certamente obiettive ed equilibrate. Quell’epidemia, infatti, non fu causata dalle pur precarie condizioni igieniche della Napoli degli anni Settanta, non dalle cozze coltivate nel mare napoletano cui furono attribuite le colpe, ma da una partita di mitili provenienti dalla Tunisia, da cui transitò la pandemia proveniente dalla Turchia via Senegal, cozze che furono sdoganate anche a Palermo, Bari, Cagliari e Barcellona, colpite anch’esse dal vibrione del colera. A questo proposito, si legge dalle pagine online dell’Espresso che lo speciale del Tg1 racconterà “una pagina cupa della storia di Napoli, troppo presto dimenticata, decine di morti e migliaia di contagiati, con casi che si estesero a Bari e ad altre località del Mezzogiorno”. Scritto così, sembra che le altre città furono contagiate dal focolaio di Napoli. E del resto, in quei giorni, fu proprio L’Espresso a titolare in copertina “Bandiera gialla”, schiaffeggiando la città insieme a tutta la stampa, nazionale e internazionale, che perse il senso della misura, speculando sulla città partenopea con racconti di fantasia sui napoletani e diffondendo notizie non verificate. Una biologa inglese, ricoverata al Cotugno per altri motivi, scrisse un reportage per il Times ricco di ricami sulle condizioni igieniche dell’ospedale, in cui parlò di un’esperienza da incubo. Poi ritrattò.
Il presidente dell’Ente Porto e l’Ufficiale Sanitario vennero indiziati di epidemia colposa dalla magistratura, per poi essere scagionati proprio dalla cozza tunisina. L’epidemia, a Napoli, fu debellata velocemente, e l’emergenza fu ufficialmente dichiarata chiusa in meno di due mesi dall’OMS, a tempo di record grazie alla più imponente profilassi della storia europea e ad un’ammirevole compostezza della popolazione nelle operazioni di vaccino, mentre le altre città, Barcellona compresa, ci misero due anni per liberarsene completamente. Tutto questo è raccontato con grande precisione ed equilibrio da uno speciale de “La storia siamo noi” del 2011 (guarda il video), a cura di “Village Doc&Films” di Sergio Lambiase e Aldo Zappalà, in cui anche Paolo Mieli dichiara che “la criminalizzazione di Napoli fu davvero sproporzionata”.
I media dell’epoca alterarono la realtà, consegnandola al pregiudizio, rompendo le ossa all’immagine della città. Solo quando dopo trenta giorni a Napoli tutto finì fu reso noto che il vibrione era nelle cozze tunisine. Nessuno però descrisse più l’epidemia che perdurava altrove, mentre Napoli si ritrovò orfana di turisti, ormai convinti che fosse una Calcutta italiana. Negli stadi d’Italia, luogo di crescente calciocentrismo nazionale, il Napoli di Vinicio fu da allora accolto al grido di “colera”, e fu proprio in quel momento storico che nacque quel coro/slogan razzista ancora ben radicato e mai contrastato dagli ipocriti organi preposti al contrasto dei fenomeni razziali negli impianti sportivi. Baresi, palermitani, cagliaritani e catalani non sono apostrofati come “colerosi”, e neanche i tifosi delle squadre di Milano, Genova, Torino, Verona, Treviso, Venezia, Trieste, Parma, Modena, Como, Bergamo, Brescia e altre città del Nord non bagnato dal mare ma colpite nell’Ottocento da diverse pandemie di colera per le scarse condizioni igieniche e non per delle cozze importate.
Bisogna augurarsi che “Speciale Tg1” sia equilibrato e corretto quanto “La storia siamo noi”, evitando di calcare la mano sulla cassa di risonanza che da sempre Napoli offre ai romanzieri dell’informazione ma, al contrario, cogliendo l’occasione per ricostruire la realtà dei fatti del settembre 1973 e riattribuire a Napoli quanto in quel periodo fu tolto sotto il profilo dell’immagine. In caso contrario, il documentario produrrebbe il solo risultato di alimentare stereotipi e pregiudizi, danneggiando nuovamente l’immagine di una città che faticosamente sta di nuovo intercettando il turismo internazionale, dando tra l’altro ulteriore fiato al volgare razzismo anti-Napoli negli stadi. Che poi la Napoli di oggi abbia più o meno gli stessi gravi e irrisolti problemi, come sostiene Rosi, non c’è alcun dubbio; ma questa è un’altra storia, che anche all’epoca dei fatti del colera fu strumentalizzata per vendere giornali, quotidiani e inchieste televisive.
La carente igiene di Napoli e del Sud-Italia esposto al mare di certo non aiutò a respingere il colera, che partì nel 1961 dall’isola indonesiana di Sulawesi e travolse un po’ tutto il Globo (vedi immagine in basso tratta da “Principi di Microbiologia Medica” – La Placa XII edizione). Si auspica che il vicedirettore Sangiuliano, napoletano, vorrà descriverlo.

colera

Plebiscito: al via il restyling

ma quali misure per la sorveglianza e l’illuminazione?

Angelo Forgione – Partiranno entro il mese di luglio i lavori di restyling di Largo di Palazzo, alias piazza del Plebiscito, che dureranno almeno due anni, periodo durante il quale, come annunciato dal Comune di Napoli e dal Provveditorato alle Opere Pubbliche, si procederà al restauro del colonnato della basilica di San Francesco di Paola e al recupero dell’ipogeo. 3 milioni di euro che si aggiungono ai 15 già da tempo stanziati dal Ministero dei Beni Culturali per il recupero di Palazzo Reale, in partenza entro fine 2013. L’assessore alla Cultura e al Turismo Nino Daniele ha annunciato che sarà tutta l’insula compresa tra piazza del Plebiscito e il Porto ad essere interessata da importanti interventi di restauro e di valorizzazione.
C’è da esclamare un corale “finalmente!”, anche se, una volta recuparato l’antico Largo di Palazzo si porrà il problema della conservazione del decoro dei luoghi, che, a distanza di venti anni dall’ultimo recupero (1994), e ormai da troppo tempo, versano in condizioni inaccettabili. Al momento non trapelano notizie su eventuali interventi previsti per l’illuminazione, da sempre umiliante in piazza come in tutti i luoghi monumentali della città, e la videosorveglianza.

Il pallagrello, vino reale alla tavola di Ferdinando

pallagrello.jpgAngelo Forgione La sfera è simbolo di perfezione, concetto che ben si può applicare anche all’enologia campana, in cui spiccava nel Settecento un’uva detta la pallarella proprio per la sfericità degli acini. Quell’uva non è scomparsa ma è ancora coltivata nel Casertano sotto altro nome, che è una trasformazione di quello antico: da pallarella a pallagrello.
Uva eccellente di bacca bianca e rossa, delle migliori, blasonata, per vini nobili da portare insieme a quelli francesi sulla tavola reale di Ferdinando di Borbone, che lo selezionava dai menu di casa reale con una certa fierezza e preferenza. Fu lui stesso a volere l’uva pallarella, l’unica italiana, nella storica Vigna del Ventaglio a San Leucio, in cui si lavoravano le più pregiate del Regno. Un semicerchio diviso in dieci raggi per dieci viti di diversa specie, dove la pallarella era contrassegnata col nome del vino che dava: Piedimonte Rosso e Piedimonte Bianco. Il Pallagrello era offerto anche in dono pregiato ai diplomatici e plenipotenziari stranieri. Poi, nel primo Novecento, con la decadenza e l’abbandono dei territori meridionali e la filossera, di quest’uva si sono perse le tracce, per poi tornare in auge qualche anno fa, riscoperta e ben rilanciata fino a diventare improvvisamente di tendenza.

2 Giugno con Daverio a Caserta

Angelo Forgione – Un pezzo di marmo lesionato della facciata della Reggia di Caserta, nella zona Nord, stava per staccarsi dalla struttura, ma fortunatamente una dipendente della Scuola Superiore della Pubblica amministrazione situata all’interno del palazzo se n’è accorta e ha chiamato il 115, evitando il peggio.
La reggia continua a crollare lentamente. È ora che chi ha a cuore i monumenti della storia di Napoli (e non solo quelli) si dia da fare. Iniziando magari da Domenica mattina, quando alle 11,30 Philippe Daverio e il sindaco di Caserta Pio Del Gaudio aspetteranno nella piazza Carlo III tutti coloro che hanno a cuore il destino di uno dei complessi monumentali più importanti d’Europa, lanciando un appello per la salvaguardia e il rilancio dello straordinario patrimonio artistico del Mezzogiorno d’Italia attraverso il movimento d’opinione “Save Italy”. V.A.N.T.O. ci sarà!
La data è simbolica poiché si tratta del 2 giugno, Festa della Repubblica, laddove il Meridione si trova ad essere vittima dell’Unità imposta dalla monarchia sabauda. Philippe Daverio sa benissimo che i monumenti del Sud crollano perché potenti simboli di un passato trascurato e da trascurare; sa benissimo che l’Italia non ha alcuna volontà di salvarli. Così il critico d’arte alsaziano chiama a raccolta sul sito saveitaly.info:
“Il regno di Napoli aveva allora riserve auree tredici volte superiori a quelle del Piemonte; era fiorente con un popolo poverissimo. Ora è privo di riserve e purtroppo non molto più agiato. E al contempo il suo vasto patrimonio storico è scivolato verso un decadimento del quale il caso Pompei è sicuramente il più clamoroso, ma non affatto l’unico. Il paesaggio inebriante nato da oltre due millenni di fatiche è stato ipotecato da pochi decenni di appetiti recenti. E’ ora di salvare il Meridione con il più colossale intervento di restauro che l’Europa si sia trovata ad affrontare dopo la redenzione della Germania Orientale, e l’Europa si dovrà trovare pronta a farlo per riconquistare la credibilità che la sola moneta unica non sembra più in grado di darle. Se crediamo all’Europa delle culture e non solo a quella della moneta, allora la battaglia di sensibilizzazione per la rinascita del Meridione diventa centrale. La bellezza del territorio, l’insostituibile sedimentazione storica, la qualità della natura, del tempo, del mare potevano essere motore di sviluppo ben più attraente e ben meno adatto ai controlli delle mafie. Le mafie di vario nome sono incolte, sono ineleganti. E per questo motivo sono inadatte a qualsivoglia operazione di riqualificazione. E’ solo con quella qualità estetica che fu del Meridione prima dell’epoca moderna che potranno essere combattute.
Ecco perché suona l’ora di chiedere a quell’Europa che nel Meridione d’Italia ha una delle sue culle centrali di assumere con coscienza il compito di salvarla, questa culla, con una sorta di piano che sia forte come lo fu il piano Marshall quando l’America si trovò a salvare la sua culla, ch’era l’Europa.
Ed ecco perché la Rivoluzione degli Educati può continuare il suo percorso a Caserta il 2 giugno 2013.”

Mickey Mouse napoletano fa parlare di sé

Angelo Forgione – Lo scrittore e giornalista Ruggero Guarini, che ringrazio, ha riportato sul Corriere della Sera – Corriere del Mezzogiorno del 18 maggio l’indagine sulle origini napoletane di Mickey Mouse pubblicata su questo blog e su napoli.com.
Tra curiosità più o meno interessanti come questa e grandi verità da riaffermare, la riscoperta della centralità napoletana avanza con sempre maggiore vigore.

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Vittorio Emanuele II pulito. Ma…

Angelo Forgione – Le scritte “Sud libero” e “Autonomia meridionale” campeggiano sul monumento equestre a Vittorio Emanuele II nella rinnovata Piazza Bovio dallo scorso Novembre, spruzzate con una vernice azzurra durante una manifestazione studentesca. Non un messaggio casuale, ma comunque uno sfregio al decoro di un luogo recuperato alla dignità, non storica ma comunque urbana.
Le scritte stanno per andare via, le farà sparire la restauratrice Maria Rosaria Vigorito della Tecni Kos Restauro dell’Aren (Associazione Restauratori Napoletani), già artefice della ripulitura del basamento del campanile della Basilica di Santa Chiara. L’intervento è previsto per Mercoledì 10 ed è stato attivato dal Comitato per la tutela e la salvaguardia di Piazza Bovio, sensibile alla tutela del luogo.
Il rispetto dei luoghi di Napoli è fondamentale. Detto ciò, è ormai evidente che certi simboli, i più curati, creino sempre più fastidio intimo a tanti napoletani. È un ulteriore problema con cui chi è deputato alla salvaguardia degli spazi pubblici deve fare i conti.
Bisogna anche domandarsi perché da anni le statue equestri più preziose della città, quelle di Carlo e Ferdinando di Borbone scolpite dal grande Canova (e completate dall’allievo Calì), restino imbrattate e prive di descrizione, senza alcun interessamento. La guglia di Portosalvo e la fontana della Maruzza sono sempre dimenticate, quella dell’Immacolata è ancora avvolta dalle reti di protezione in attesa del restauro. La fontana del Nettuno se la passa male, come quella della sirena Partenope. La cassa armonica è sfigurata, per non parlare delle condizioni della fontana di Carlo II a Monteoliveto. Un po’ tutto il patrimonio monumentale è messo male, ma c’è una “isola felice”: le statue di Vittorio Emanuele II, Giuseppe Garibaldi, Giovanni Nicotera, Nicola Amore, Paolo Emilio Imbriani, Carlo Poerio, la colonna di Piazza dei Martiri e Dante Alighieri. Un filo conduttore ha unito tutte queste statue, con una benefica ondata di restauri non casuali, avviati tutti nello stesso periodo, quello delle celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia. I personaggi immortalati sono tutte figure e simboli risorgimentali, “sommo poeta” del Rinascimento compreso, la cui statua fu realizzata proprio durante il mandato di sindaco del patriota Paolo Emilio Imbriani e sul cui basamento è incisa l’epigrafe “All’unità d’Italia raffigurata in Dante Alighieri”. La ricorrenza ha dunque aperto un canale preferenziale di fondi, anche se le statue di Imbriani e Dante erano fuori lotto e hanno goduto dell’intervento di sponsor privati a completo supporto del Comune e delle Municipalità di competenza. Il resto è stato promosso e finanziato da “Italia 150”, ossia dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, coordinato dalla Direzione Generale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Campania “nell’obiettivo di contribuire alla riqualificazione dell’immagine della città e alla sensibilizzazione dei cittadini affinché proteggano la loro storia e la memoria”.
Tutto giusto, o quasi, perché si parla di “loro storia” e viene da chiedersi allora perché le statue che comunicano l’autentica storia identitaria di Napoli debbano restare relegate al degrado assoluto. Chissà quando saranno ripulite le preziose sculture del Canova, magari alzando delle eleganti cancellate alte, sulla scorta degli esperimenti riusciti di Piazza Dante e Piazza Mazzini, dove le statue sono rimaste intonse.

Sostegno alla Treves, sostegno alla cultura che muore

Angelo Forgione – Si è svolto a Piazza del Plebiscito l’incontro sul caso Treves e abbandono della piazza, per richiamare con forza l’attenzione delle istituzioni sulle gravi difficoltà in cui versa la maggior parte delle realtà culturali napoletane. Il dibattito si è svolto in una piazza abbandonata, dove regna il degrado su tutti i versanti. Presenti i soliti noti, e NapoliUrbanBlog tra le pochissime fonti informative che hanno raccolto le varie voci inascoltate.
Nel mio intervento, ho sottolineato ai presenti che la chiusura della Treves sarebbe un’ulteriore operazione di negazione della cultura, avviata da anni in questa città. Chiudere una libreria è come lasciare vuoti (come sono) i leggii dei monumenti equestri in modo che i napoletani non sappiano chi raffigurino e chi li abbia scolpiti. Chiudere una libreria è come rubare libri antichi dalla libreria dei Girolamini.