Concorso fotoletterario “Arenella e Vomero nella Napoli capitale”

C’è un luogo all’Arenella, popoloso quartiere di Napoli, in cui Gaetano Donizetti ha scritto buona parte della Lucia di Lammermoor, una della sue opere più famose, inscenata in tutto il mondo. Ed è anche un posto di gran pregio architettonico. Eppure il fatto e il luogo sono delittuosamente misconosciuti, come tanti altri attinenti alla zona collinare condivisa dall’Arenella e dal Vomero che conservano memorie da riscoprire, testimonianze del passato che possono riattivare una curiosità intellettuale e dare il là a un’impensabile rivalutazione storica del territorio. È per questo che ho accettato la proposta fattami dal consigliere municipale Mimmo Cerullo di MO di fare da testimonial al concorso fotoletterario “Arenella e Vomero nella Napoli Capitale”, indetto dalla V Municipalità di Napoli. Si tratta di una competizione aperta a tutti i cittadini con almeno 14 anni di età, invitati a partecipare con delle fotografie di posti della zona collinare corredate da un breve testo in cui si evidenzi l’importanza dei soggetti ritratti. L’intento è quello di stimolare la conoscenza e la memoria storica, di fare identità anche in una Municipalità che conta circa 120mila abitanti, una città nella città, demograficamente grande quanto Bergamo, a proposito di Donizetti, o Pescara, e poco meno popolata di Salerno (135mila).
Al netto della presenza del Museo e Certosa di San Martino e del Castel Sant’Elmo, l’Arenella e il Vomero non sono considerate zone di rilievo turistico. Eppure di storia collinare da riscoprire ve n’è tanta, e sono certo che il concorso possa dare un gran contributo in tal senso. Io darò il mio, e sarà un piacere poter premiare i vincitori il 27 maggio nella sala consiliare “Silvia Ruotolo”. Magari, quel giorno, rivelerò dove Donizetti ha scritto la Lucia di Lammermoor, il gran trionfo al San Carlo alla sera del 26 settembre1835.

Angelo Forgione

Regolamento e scheda di partecipazione:
http://www.comune.napoli.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/32542

pagina facebook con quotidiana pubblicazione dei luoghi più interessanti da fotografare e descrivere presenti nella Napoli collinare:
https://www.facebook.com/quintamunicipalita/?fref=ts

Comunicato stampa della V Muncipalità:
ANGELO FORGIONE TESTIMONIAL DEL CONCORSO FOTOLETTERARIO “ARENELLA E VOMERO NELLA NAPOLI CAPITALE”!
Lo scrittore e giornalista Angelo Forgione, opinionista, storicista, colto meridionalista napoletano, sarà il testimonial del concorso che vuole riportare alla luce i monumenti e le memorie dei quartieri collinari della città di Napoli attraverso immagini e testi realizzati da semplici cittadini. Non poteva essere fatta scelta migliore, verrebbe da dire, essendo Forgione uno scrittore al servizio della storia e dell’identità, esperto di Questione Meridionale, curatore del blog V.A.N.T.O. (Valorizzazione Autentica Napoletanità a Tutela dell’Orgoglio) e da tempo profondamente impegnato in prima linea a contribuire al rilancio della città. In questo caso, Forgione darà il suo contributo alla conoscenza di quartieri considerati a torto poco interessanti sotto il profilo turistico e invece ricchi di testimonianze della Napoli Capitale. «Arrivata la proposta da Mimmo Cerullo, consigliere di MO! della V Municipalità, che sta portando avanti il progetto, ho accettato con grande piacere. Ritengo un privilegio aiutare a portare alla conoscenza dei più la storicità dei luoghi dell’Arenella e del Vomero – ha detto Forgione – e poter premiare i vincitori di un concorso che trovo, nel suo formato, assolutamente originale e intrigante!» Forgione, autore di due libri di grande successo come Made in Naples – Come Napoli ha civilizzato l’Europa (e come continua a farlo) (2013), in cui è chiarito come in nessun altro testo perché Napoli è considerata dall’Unesco la culla della cultura occidentale, e Dov’è la Vittoria – Le due Italie nel pallone (2015), in cui sono ricostruiti gli intrecci politico-economici che hanno decretato l’egemonia settentrionale nello sport nazionale, e in procinto di lanciare il suo nuovo libro dedicato alle storie intrecciate di Napoli e Milano, sarà presente agli eventi promozionali e alla premiazione del concorso che si terrà nell’aula consiliare della V Municipalità “Silvia Ruotolo” il prossimo 27 maggio alle ore 17.00. «Sono molto, molto contento che Angelo Forgione abbia accettato un ruolo nella promozione dell’immagine del nostro concorso fotoletterario dedicato all’Arenella ed al Vomero. Il suo appoggio ci garantisce diffusione e, soprattutto, un’accresciuta importanza nei confronti dell’informazione e dei Napoletani» ha commentato Mimmo Cerullo di MO!, promotore del concorso insieme all’ideatore Antonio Lombardi e Unione Mediterranea.

Il vecchio ‘San Paolo’ compie 57 anni

in un video del 1959, le immagini della storica inaugurazione

Angelo Forgione Un momento di storia non solo sportiva di Napoli: 6 dicembre 1959, inaugurazione dello stadio “del Sole” di Fuorigrotta, poi ‘San Paolo’ in ricordo dello sbarco dell’Apostolo sulle coste flegree nel febbraio dell’anno 61. Opera dell’architetto razionalista Carlo Cocchia, nella visione di armonia stilistica del nuovo quartiere Fuorigrotta legata alle altre strutture similari e contemporanee (Arena Flegrea, fontana dell’Esedra, edifici della Mostra d’Oltremare e facoltà di Ingegneria), alcune delle quali firmate dallo stesso architetto.
sanpaolo_corsportIl finanziamento governativo del 1848 e la sua decennale costruzione risultarono indigesti ai rappresentanti delle grandi squadre del Nord, a tal punto che quelli del Napoli andarono all’aspro conflitto in Federazione. Già retrocesso sul campo, il club azzurro fu punito d’ufficio per un illecito sportivo non dimostrato, ricevendo dalla Lega di Milano una punizione per il tentativo di voler coalizzare i club del Sud contro i “poteri forti” del Calcio settentrionale, che facevano opposizione all’ambizioso progetto di realizzare un monumentale e necessario stadio al Sud, il futuro ‘San Paolo‘. Le indagini portarono a una decina di incontri combinati in quella stagione, di cui almeno cinque di Serie A. L’unico club a pagare moralmente fu il riottoso Napoli, schiaffeggiato per dimostare chi comandava.
Il nuovo stadio si rese necessario dopo la guerra. Lo stadio ‘Partenopeo’ di Napoli, simbolo della modernità fascista, con una capienza di quarantamila spettatori, non esisteva praticamente più. In vista dei Mondiali in Italia del ‘34 era stato edificato in cemento armato al posto del vecchio ‘Vesuvio’, stadio con tribune in legno voluto nel ‘30 da Giorgio Ascarelli al rione Luzzatti di Gianturco, ma fu raso al suolo dai raid aerei nel 1942. Il Napoli si era visto costretto a trasferirsi al ‘Campo sportivo del Littorio’ al Vomero (1929), poco dopo requisito dalle forze armate tedesche e utilizzato come campo di concentramento per i napoletani da deportare in Germania, divenendo uno dei luoghi simbolici delle Quattro giornate di Napoli. Conclusa la guerra, il Napoli tornò a giocare in quell’impianto, ormai al limite dell’agibilità. E infatti, durante l’incontro Napoli-Bari del ‘46, una tribuna cedette durante l’esultanza per un goal della squadra di casa: 114 feriti finirono all’ospedale. Ci vollero ben tredici anni per abbandonare una simile precarietà e inadeguatezza.
Il 22 dicembre ‘49 fu finalmente deliberata dal Comune di Napoli, col supporto del CONI e del Governo, la costruzione di un colossale stadio, ormai necessario, ma per vedere la sua inaugurazione si dovette attendere un decennio esatto.

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1954 – Achille Lauro e il primo ministro Mario Scelba presentano il plastico del nuovo stadio

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il cantiere, aperto il 27 aprile 1952

Il 6 dicembre ’59, il Napoli prese possesso della sua nuova comoda e impnente casa. E fu subito record della Serie A. Miglior esordio non poteva celebrarsi: vittoria sulla Juventus (2-1). Le nordiche verificarono immediatamente quello che avevano temuto e ciò che già significava per i napoletani il loro nuovo tempio del calcio.
Poi deturpato il quartiere di Fuorigrotta, e sfigurato anche lo stadio con lo scempioso restyling dei Mondiali 1990, l’impianto è purtroppo divenuto un problema per le casse comunali e un limite per le ambizioni del Napoli.

(maggiori approfondimenti su Dov’è la Vittoria – Magenes).

Nel servizio dell’11 dicembre dell’Istituto LUCE, il filmato di quella “assolata” domenica di del dicembre di cinquantacinque anni fa.

Il culto del caffè a Napoli (Acino Ebbro – Radio Siani)

Tratto da Radio Siani, l’intervento di Angelo Forgione alla trasmissione Acino Ebbro di Marina Alaimo sulla storia del caffè e del suo radicamento nella cultura napoletana e italiana.

L’intera puntata, con l’intervento di Paola Campana della torrefazione artigianale Campana, che racconta le diverse varietà, le origini geografiche e il metodo di tostatura, è disponibile qui.

 

A Napoli il primo cane per non vedenti a scuola ma l’insegnante mortifica la città

cane_scuola.pngAngelo Forgione Il liceo ‘Mazzini’ di Napoli prima scuola ad accogliere un cane per non vedenti in aula. Un bel primato di civiltà, non c’è che dire, anche perché in casi analoghi il permesso è stato più volte negato in passato. E al Vomero arrivano anche le telecamere del Tg5 per la rubrica L’Arca di Noè del 3 gennaio. Insieme alla studentessa non vedente Noemi Marano e alla sua ben addestrata accompagnatrice a quattro zampe, ad accogliere la giornalista Mediaset Maria Luisa Cocozza anche l’insegnante Sara Miele, cui spetta il compito di esprimere l’orgoglio per un segno di civiltà tutto partenopeo. Peccato che esordisca in modo infelice: «Sì, una volta tanto possiamo essere orgogliosi di essere napoletani». Consigliamo all’intervistata di esprimersi a titolo personale in una prossima ribalta televisiva, e non a nome dei tantissimi napoletani che orgogliosi di esserlo lo sono sempre, e non una tantum, per tutto ciò che Napoli rappresenta.

guarda la puntata al minuto 2:40

Napoli sospesa tra opinione e diffamazione

Angelo Forgione C’è una sostanziale differenza tra opinione e diffamazione. Il vocabolario della lingua italiana è chiarissimo: l’opinione è un giudizio individuale, un punto di vista soggettivo, che talvolta può diventare collettivo, mentre la diffamazione è pur sempre un giudizio individuale, che però reca un danno morale e si converte in offesa. Stabilire l’esatto confine tra opinione e diffamazione non è facile, ma esiste, e a ben vedere è netto.
Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione: lo dice la Costituzione, ed è un principio sancito da tutti i moderni Stati democratici. Tuttavia l’opinione espressa non può mai ledere l’altrui reputazione. La legge e la giurisprudenza ritengono lecito esprimere un’opinione personale o una critica utilizzando un linguaggio garbato seppur deciso, non denigratorio o insinuante e, soprattutto, senza la volontà e la consapevolezza di offendere. Se ci si attiene a tali regole non si deve temere alcuna azione penale, in quanto si esercita la propria libertà di espressione e di critica. Ciò che bisogna evitare è l’uso di espressioni e argomenti offensivi, denigratori o anche dubitativi, insinuanti, allusivi, che in sostanza trascendano in attacchi diretti a colpire gratuitamente la sfera morale e privata altrui.
È tutta qui la differenza tra il verbo transitivo “sabotare” usato da Erri De Luca nella vicenda della Tav piemontese, passato in giudicato con assoluzione dell’imputato (gli avvocati della società querelante hanno dichiarato di non volerne fare “una battaglia campale”), e il verbo intransitivo “puzzare” usato da Filippo Facci per descrivere Napoli. È opinione quella dello scrittore napoletano, forte nei toni, certo, ma pur sempre opinione, secondo cui la Tav va sabotata perché dannosa per la Val di Susa. Allo stesso modo è opinione quella di Massimo Giletti, secondo cui Napoli sarebbe indecorosa per colpa dei suoi amministratori, che andrebbero cacciati (il Comune di Napoli, sentendosi diffamato, ha ritenuto di presentare una denuncia, per diffamazione dell’ente comunale, non dell’intera comunità partenopea). Non è più solo opinione ma diffamazione il giudizio di Filippo Facci, secondo cui Napoli puzza. Il fatto è che Napoli non puzza, e un giudizio lesivo basato su una falsità diffusa tramite mezzi di comunicazione di massa è ampiamente meritevole di azione penale.
Erri De Luca è stato additato da qualcuno di essere interprete di un paradosso per essersi schierato col sindaco di Napoli Luigi De Magistris, dichiarando che «la querela serve a moderare i termini di quelli che si allargano su Napoli, per la quale le accuse che vengono da fuori sono stonate». Riferendosi a Giletti, autore di un’accusa, la difesa di De Luca può chiaramente apparire contraddittoria. Ma se ci si sposta sul campo delle offese di Facci, la difesa è più che condivisibile.
Filippo Facci, che di Erri De Luca è notoriamente “nemico” (ma lo è un po’ di tutti i veri intellettuali), ha fatto peggio di Giampiero Amandola, il giornalista della sede Rai di Torino che si divertì coi tifosi della Juventus, all’esterno dello stadio bianconero, a capire come questi distinguevano i rivali napoletani. «Li riconoscete dalla puzza», disse il giornalista, e fu licenziato in tronco dopo un polverone alzato proprio da questo blog, con tanto di scuse della redazione Rai Piemonte ai cittadini di Napoli e a tutti gli italianiFacci non si è espresso sul campo del Calcio, che genera terremoti mediatici di magnitudo impareggiabili, ma andrebbe rimosso dal direttore del giornale (Libero) per cui scrive, se quel direttore non avesse evidentemente la stessa opinione e si indignasse per quanto scritto e pubblicato. E invece quel quotidiano puntella il pensiero di Facci. È evidente che per certi operatori della (mala)informazione scrivere e dire che Napoli puzza, come fanno ormai impunemente gli ultras negli stadi, è prassi, come è prassi spendersi per strumentalizzare criticità del passato e renderle croniche, persistenti, eterne, in modo da dare in pasto all’opinione pubblica settentrionale, e non solo, un’immagine di Napoli oltremodo distorta.
eco_bgUn altro esempio? Martedì 10, veniva pubblicato sull’edizione online de L’Eco di Bergamo un articolo di Giorgio Gondola che analizzava il caso Giletti-Napoli e il presunto paradosso-De Luca. La fotografia utilizzata a corredo era un’immagine di via Toledo, altezza Ponte di Tappia, deturpata da un gran cumulo di rifiuti, in piena crisi; uno scatto del 2010, se non precedente, allorché le discariche erano sature e le cricche del Nord ricattavano l’amministrazione comunale (secondo la Procura di Napoli i veneti Gavioli e alcuni collaboratori tentarono in quel periodo da incubo “di mettere all’angolo l’amministrazione napoletana attraverso il grave ricatto di lasciare la città affogare nei rifiuti strumentalizzando la situazione emergenziale e la protesta dei lavoratori del settore per costringerla a cedere a infondate e inusitate pretese economiche”). Dopo le nostre “precisazioni” alla redazione online del quotidiano orobico, l’immagine veniva immediatamente sostituita, e spuntava come per incanto una suggestiva veduta del Vomero. Con un semplice click cambiava la “immagine” di Napoli, almeno sui computer, perché non sappiamo se il pezzo era stato pubblicato anche sul cartaceo. Ecco spiegato, anche visivamente, il sottile confine tra opinione e diffamazione, tra analisi e strumentalizzazione. Quella Napoli non c’è più! Ora bisogna dibattere seriamente sull’inefficienza del servizio di rimozione dei rifiuti e sullo spazzamento carente delle strade di Napoli, che non può certamente adagiarsi su un’emergenza lontana; ma continuare a proporre a chi è lontano l’immagine di una spaventosa crisi ormai datata è operazione di manipolazione che offende la dignità dei napoletani e arreca danno al flusso turistico, che non è più solo morale. Chi osserva certe foto datate è indotto a evitare una magnifica città, in tutte le sue contraddizioni, anche a proprio danno. Sì, perché Napoli non puzza ma, al contrario, profuma, di mare, di cibo, di vita e anche di storia. Chi dice il contrario dichiara scientemente il falso e merita di essere punito moralmente per il reato non scritto di ignoranza. Altroché!

Napoli e Verona si incontrano al Vomero

Angelo Forgione – Fabio Pozzerle è veronese ma vorrebbe vivere a Napoli. È convinto che non possa esistere rinascita dell’Italia Mediterranea – come la definisce lui – senza una rinascita del Mezzogiorno. «Napoli – spiega – è una città che può fare da traino per la “ripartenza” del Sud».
Giovedì 22 ottobre sarò con lui alla libreria Iocisto di Napoli (Vomero), per la presentazione del suo libro, con cui propone una terapia per tutto l’insieme italico. Sarà un bell’incontro Sud-Nord, non solo parlato. Sarà un’occasione per analizzare gli errori del 1860 e indicare, se c’è, un modo per resettare.

Clicca qui per ascoltare l’intervento di Fabio Pozzerle a La Radiazza (Radio Marte)

In ricordo di Giancarlo Siani… 30 anni dopo

Angelo Forgione23 settembre 1985, 30 anni fa. Eravamo vicini di casa, ma non ci conoscevamo; tu più grande di me. Io pensavo a giocare in strada e tu sgomitavi per guadagnarti un lavoro. Quella sera rincasavi per una doccia, e poi via, allo stadio San Paolo per il concerto di Vasco. E invece ti portarono via con la tua sana incoscienza, la tua giovinezza, le tue speranze e persino i sogni di scudetto del Napoli di cui eri tifoso. Il rumore sordo degli spari silenziati non lo sentii dalla mia stanza, ma quello delle sirene di Polizia e ambulanza sì, quelle sì. Lo ricordo come fosse ieri. Un ragazzino che si trova davanti agli occhi quella scena finisce col rendersi conto delle difficoltà ambientali in cui è immerso, anche se vive in un quartiere bene assai lontano dalla provincia insanguinata e dai rioni bui dalla Napoli di piombo degli anni Ottanta, nella Campania in cui piovono i miliardi per la lenta, lentissima ricostruzione delle zone colpite dal terremoto. Anche il nostro idolo Diego Maradona era servito per stemperare le tensioni sociali, pensa un po’, ma credo che neanche tu, più maturo di me, potevi capirlo. Lì ho iniziato a crescere, a capire, senza mai dimenticare il tuo esempio di purezza e ingenuità, ed è anche per quel che ho visto quella sera che oggi amo raccontare la verità, scavare oltre le apparenze.
Eri un precario, mica un giornalista di punta! Ma lavoravi in modo impeccabile, e raccontavi con puntualità come la camorra, infiltrata nella vita politica, condizionava decisioni ed elezioni. Avevano deciso di amazzarti molti giorni prima, sicuramente dopo la pubblicazione di un tuo articolo su Il Mattino del 10 giugno in cui avevi rivelato che il boss di Torre Annunziata Valentino Gionta era stato arrestato per una soffiata ai Carabinieri fatta partire dal suo alleato Lorenzo Nuvoletta, al quale un terzo boss, Antonio Bardellino, aveva imposto invece l’omicidio del Gionta. Gli facesti fare una figuraccia a quel re ormai nudo che decise di mettere fine alla tua vita. Sì, non ti uccisero perché sapevi qualcosa di grosso e incutevi preoccupazione. Ti uccisero per una questione di onore, una volgarissima questione di onore. E perciò non immaginavi neanche lontanamente che potessero arrivare a tanto. C’era forse dell’altro, chissà?
A quel muro davanti al quale ti hanno zittito porto sempre il pensiero che mi stringe la mente. Disarmato e di spalle, in quell’angolo isolato e oscuro, ti colpirono due vigliacchi. Due contro uno. Due armati contro un disarmato. Alle spalle. Triplice codardia che non dimentico e non dimenticherò mai!

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Il Napoli, la storia di un club che rispecchia una città

(l’articolo riprende alcuni passi del libro Dov’è la Vittoria, Magenes, 2015)

Angelo Forgione – 1 Agosto 1926, 1 Agosto 2015: 89 anni di storia azzurra ufficialmente contati all’anagrafe. La Società Sportiva Calcio Napoli entra nel suo novantesimo anno di vita e lo fa alla vigilia del sua partecipazione numero 73 alla massima divisione nazionale, che dal 1929 si disputa con la formula del girone unico (la Serie A). 2 Scudetti, 5 secondi posti e 9 terzi posti, questi i migliori risultati, al netto delle 5 Coppe nazionali vinte, delle 2 Supercoppe italiane e della

1926
Coppa Uefa. È tra i 15 club almeno una volta Campioni d’Italia, il quarto della Penisola per bacino d’utenza. È il primo per passione, molto più di una squadra di calcio per il suo innamorato popolo, interpretato come unico vessillo sotto il quale cercare una dignità cancellata; è un’entità ingombrante che condiziona anche troppo gli umori cittadini; è il simbolo dell’auto-riconoscimento in una precisa identità culturale, in una squadra che porta il nome della propria città, della propria provincia, del territorio di appartenenza. La squadra azzurra è spesso indicata come veicolo di riscatto della Città, ruolo cui non può assolvere il Calcio, le cui emozioni non hanno alcun potere di risolvere seri problemi sociali. Il Napoli è invece a pieno titolo un simbolo di appartenenza e legame territoriale, il riferimento principe di una vasta provincia che, coi suoi 3 milioni di abitanti circa, è la terza d’Italia per popolazione; e non condivide il territorio con nessuno, diversamente da quanto accade a Roma, Milano, Torino e in tutti i maggiori centri del Vecchio Continente. Quella di Napoli è infatti una delle due grandi aree metropolitane europee che esprimono una sola squadra (l’altra è quella di Parigi). Nessuna delle 8 squadre di Londra rappresenta la grande metropoli britannica, ma è ognuna espressione delle differenze dei suoi quartieri. Roma è certamente un feudo giallorosso e i romanisti vivono con l’Urbe un legame solidissimo, ma il discorso si riequilibra allargando i confini, dove la coinquilina Lazio, che porta il nome della regione, raccoglie buon seguito. Gli juventini sono in ogni dove d’Italia, ma non più numerosi dei granata nell’area urbana di Torino, dove si è bianconeri soprattutto se figli o nipoti di immigrati del Sud. Spaccata in due è anche Milano, così come la più piccola Genova. A Napoli, invece, quella azzurra è religione identitaria monoteista, attorno alla quale gravitano culti esotici minori. In realtà il Napoli di anni ne ha quattro in più, quindi 93, perché il conteggio convenzionale parte dal cambio di denominazione da inglese ad italiano, dettato dall’applicazione della Carta di Viareggio, uno statuto ufficializzato proprio nell’agosto 1926 dal commissario straordinario della FIGC e presidente del CONI Lando Ferretti per mettere letteralmente il movimento calcistico italiano nelle mani del Fascismo. La storia del Napoli è dunque legata anche alla storia del Calcio tricolore e dello stesso Stivale. Ripercorriamola, partendo proprio dall’estate del ’26. Per ben 25 stagioni, il Nord-Italia ha monopolizzato il campionato italiano, rendendolo espressione del “triangolo industriale” appena nato e relegando le squadre centro-meridionali al ruolo di comprimarie, prima negandogli la possibilità di partecipare ai tornei che dal 1898 assegnavano il titolo di campione d’Italia e poi fingendo di ascoltarne le proteste nel 1912 con la concessione di una finalissima tra le squadre vincitrici di un Girone Nord (con Liguria, Piemonte, Lombardia, Emilia e Veneto) e di un Girone Sud (con Toscana, Lazio e Campania). In realtà la FIGC di allora è ben conscia del divario esistente tra i due movimenti calcistici – uno in cui i soldi delle zone industrializzate hanno condotto al semiprofessionismo e l’altro ancora fermo al totale dilettantismo – e sa che le finalissime possono solo avere un valore pro forma senza alcun significato tecnico-agonistico. Il regime fascista, impegnato nel processo di “nazionalizzazione”, non può consentire che il Calcio italiano resti spaccato e mostri disgregazione sociale. Così, a prescindere dal divario tecnico esistente, sancisce l’unificazione delle leghe Nord e Sud in un’unica ‘Divisione Nazionale’. In modo coatto, le diverse squadre di Roma e Napoli vengono azzerate da varie fusioni imposte dall’alto, finalizzate alla creazione di sodalizi più solidi e più forti tecnicamente. Sotto al Vesuvio sgambettano i calciatori di squadre minori e quelli del più importante Internaples (nato dalla fusione sancita nell’ottobre del 1922 tra il Naples Football Club e l’U.S. Internazionale Napoli), che a luglio ha perso la finale Sud contro l’Alba Roma, a sua volta massacrata dalla Juventus nella doppia finalissima nazionale dell’8 e 22 agosto.

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articoli digitalizzati de Il Mezzogiorno (12-13 e 25-26 agosto 1926)

Proprio in quel caldo mese, il giorno 2, la Commissione di Riforma dell’ordinamento della Federazione emana ufficialmente la ‘Carta di Viareggio’, e il 3 agosto l’Internaples ottiene l’affiliazione alla Lega Nazionale. L’assemblea dei soci, il giorno 25, scrive e formalizza il cambio di nome: da Foot Ball Club Internaples ad Associazione Calcio Napoli. Il regime fascista non gradisce gli inglesismi e il termine “Internazionale” ricorda l’Internazionale comunista, avversaria politica. Il presidente Giorgio Ascarelli, ricco commerciante napoletano di origine ebraica, suggerisce la più opportuna adozione del nome italiano della città.


I sodalizi del Nord protestano per le decisioni superiori, riunendosi più volte a Genova, Torino e Milano, ritenendo le 3 squadre di Napoli e Roma (a fronte di 17 settentrionali) inadeguate alla competizione e usurpatrici di posti spettanti al Calcio settentrionale. L’ostracismo, però, deve arrendersi alla volontà politica. Alle squadre meridionali tocca la resa sul campo, disastrose nell’impatto col “Calcio industriale”. Il Napoli conta sul veloce attaccante
Attila Sallustro, un idolo, il primo idolo… e si identifica in uno stemma con il Corsiero del Sole,

un cavallo rampante e sfrenato, emblema della città capitale durante il Regno delle Due Sicilie, ma retrocede insieme all’Alba Roma e alla Fortitudo Roma, rimediando un solo punto in graduatoria. In un bar di ritrovo di via Santa Brigida, Raffaele Riano, uno sconfortato sostenitore azzurro, urla: «Ma quale cavallo! Sta squadra nostra me pare ‘o ciuccio ‘e Fichella: 33 piaghe e ‘a coda fracida». È quella l’immagine del Napoli, ma anche dell’intero Calcio meridionale. A quel pittoresco sfogo tipicamente partenopeo fanno seguito le fragorose risate dei presenti, che lo suggeriscono alla redazione di un giornale umoristico. Nei giorni seguenti, le edicole di Napoli diffondono l’illustrazione di un asinello incerottato e con una miserabile coda. Per espressione di popolo, il nobilissimo cavallo napoletano si trasforma in “ciucciariello”. Il Regime non si arrende e ripesca più volte le retrocesse pur di supportare il processo di unificazione tra Nord e Sud del Calcio italiano. Ascarelli garantisce investimenti e nel 1929 decide di abbandonare lo stadio militare dell’Arenaccia, prima casa azzurra, commissionando a proprie spese la costruzione di un nuovo impianto sportivo al Rione Luzzatti, in zona Gianturco, con tribune in legno per oltre 15mila spettatori. Viene inaugurato col nome di

Vesuvio il 23 febbraio 1930, diciassette giorni prima della prematura scomparsa del presidente (a 34 anni), cui, a furor di popolo, viene poi intitolato il nuovo stadio. La stagione si chiude con gli azzurri al 5° posto, finalmente competitivi. Scomparso Ascarelli, lo stadio viene requisito dal Regime, che, in vista dei Mondiali del 1934 in Italia, lo ristruttura in cemento armato, ne muta l’aspetto con una facciata imponente e maestosa in stile fascista e ne aumenta la capienza portandola a circa 40mila spettatori. È ribattezzato Stadio Partenopeo poiché il nome di un ebreo non è gradito per un simbolo fascista della modernità, nonché uno dei più fulgidi esempi di propaganda del regime al Sud. L’arena ospiterà la finale per il 3° e 4° posto del torneo iridato. Ma gran parte del movimento meridionale è ancora finanziariamente impreparato a sostenere le spese di gestione dei campionati, con gli incassi che al Sud sono di cinque volte inferiori di quelli del Nord. Il Napoli si ritrova ben presto ricoperto di debiti e l’ancora di salvezza giunge nuovamente dall’alto, per mano del Governo fascista: il segretario federale

di Napoli Nicola Sansanelli incarica del salvataggio il ‘Comandante’ Achille Lauro, noto armatore sorrentino, uno dei più importanti imprenditori italiani, che ha potuto ingrandire la propria flotta grazie agli agganci politici e pertanto non può di certo disobbedire alle volontà superiori. È il 1936 quando deve acquistare il club partenopeo per risanarlo e condurlo per circa 30 anni. Lo sfrutterà per ottenere gran popolarità e raggiungere importanti obiettivi politici e imprenditoriali. La prima retrocessione de facto in Serie B avviene nella stagione 1941-42, conclusa con un 17° posto, proprio mentre la Roma vince il primo tricolore, interrompendo il monopolio settentrionale. Se i capitolini si avvantaggiano della Guerra, i napoletani ne risultano fortemente penalizzati. I tanti calciatori italiani chiamati alle armi sono obbligati a pesanti trasferimenti nella Capitale, così abbandonando gli allenamenti, mentre quelli della Roma possono beneficiare del vantaggio di non doversi impegnare in faticosi viaggi e di potersi allenare col resto della squadra in una città immune dai bombardamenti fino al luglio del 1943. Le strategie belliche anglo-americane, particolarmente intense nei territori meridionali, colpiscono pesantemente l’apparato industriale e infrastrutturale di Napoli, la città più bersagliata, rasa al suolo da un centinaio di bombardamenti degli Alleati, che

designano la città quale principale obiettivo strategico nel Mediterraneo. È raso al suolo anche lo stadio Partenopeo, andando incontro ad un triste saccheggio prima di essere abbattuto definitivamente. Contrariamente alla Roma campione, il Napoli, impossibilitato ad allenarsi a dovere (i calciatori neanche dormivano la notte) e destinato alla retrocessione dal travaglio di una stagione tormentata, è costretto a trasferirsi al Campo sportivo del Littorio al Vomero (del 1929), poco dopo requisito dalle forze armate tedesche e utilizzato come campo di concentramento per i napoletani da deportare in Germania, uno dei luoghi simbolici delle Quattro giornate di Napoli.

Finita la guerra, i partenopei tornano a giocare in quell’impianto, ormai al limite dell’agibilità, e durante l’incontro Napoli-Bari del ‘46 (Serie A) una tribuna cede per l’esultanza accesa da un gol della squadra di casa: 114 feriti finiscono all’ospedale. Ci vogliono ben 13 anni per abbandonare una simile precarietà e inadeguatezza. Il 22 dicembre 1949, nonostante le invidie e le proteste di una casta milanese che governa la Lega Calcio, è deliberata dal Comune di Napoli, col supporto del CONI e del Governo (un miliardo di lire assegnato), la costruzione di un colossale stadio, ormai necessario. Achille Lauro si presenta alle elezioni comunali del 1952 e per attrarre consensi e voti si mette in testa di accendere la fantasia e i sogni dei tifosi napoletani. Con la cifra record di 105 milioni di lire brucia la concorrenza dell’Inter e mette a segno il colpo a sensazione all’hotel Gallia di Milano, acquistando dall’Atalanta Hasse Jeppson, centravanti della Nazionale svedese (terza ai

mondiali del ‘50). Un ulteriore rinforzo è l’argentino Bruno Pesaola, prelevato dal Novara. Lauro riesce a vincere alle urne, prendendosi la fascia di sindaco, ma la sua squadra non riesce a vincere il campionato. Nel 1955, a far coppia con Jeppson, arriva in azzurro il brasiliano Luis Vinicio, battezzato dai tifosi ‘o Lione. Ma neanche l’ingaggio del grintoso e possente centravanti serve affinché il Napoli lotti per lo Scudetto. La partita Napoli-Fiorentina (2-4) del 31 dicembre sul neutro dello stadi

o Olimpico di Roma (stadio del Vomero di Napoli squalificato) è la prima trasmessa in diretta televisiva al Sud. 7 giorni prima, esattamente alla vigilia di Natale, le trasmissioni televisive sono state estese fino a Napoli, immettendo un’importantissima superficie di 3 milioni di abitanti nella rete dei programmi Rai. Per vedere l’inaugurazione del nuovo stadio si deve attendere il 6 dicembre 1959, giorno in cui il Napoli prende possesso della sua nuova comoda casa, l’imponente stadio del Sole di Fuorigrotta, nuovo tempio del Calcio per circa 90.000 spettatori, poi ribattezzato San Paolo in ricordo dello sbarco dell’apostolo sulle coste flegree nel febbraio dell’anno 61, durante il suo viaggio dalla Giudea a Roma.

Miglior battesimo non può celebrarsi: sconfitta la Juventus di Omar Sivori (2-1), in una “assolata” giornata di fine autunno. Il primo trofeo nazionale giunge nel 1962, al culmine di una stagione in Serie B che regala la promozione e la Coppa Italia. Guidato in panchina da Bruno Pesaola, il club azzurro eguaglia il Vado vincendo la Coppa pur militando in cadetteria. Per


affrontare la Serie A Lauro ingaggia per sua decisione Faustinho Jarbas Cané, brasiliano d’ebano di Rio de Janeiro. È tra i primi atleti di pelle nera a calcare i campi italiani e ad ascoltare le offese da parte dei tifosi del Nord. Dalle giovanili viene promosso in prima squadra un promettentissimo Antonio Juliano. Tra sali e scendi dalla A alla B, Il 25 giugno del 1964 l’ A.C. Napoli soffocata dai debiti si trasforma in Società Sportiva Calcio Napoli. Primo

presidente della SSC è nominato Roberto Fiore, mentre Achille Lauro, ancora “coinvolto”, non versa una lira nel nuovo capitale sociale ma ottiene comunque il 40% delle azioni per i crediti vantati e il titolo di presidente onorario. La nuova denominazione porta decisamente bene, perché finalmente il Napoli si fa davvero competitivo con gli acquisti di Josè Altafini dal Milan e di Omar Sivori dalla Juventus. Arrivano un terzo posto e la vittoria della Coppa delle Alpi, un trofeo internazionale di livello minore (abolito nel 1987), ma anche le invidie di Lauro per Fiore, che non intende fermarsi: porta in dote pure 69mila abbonati e sfiora l’acquisto dal Cagliari del capocannoniere Gigi Riva. Finisce che al suo posto viene nominato Giacchino Lauro, rampollo del ‘Comandante’. Il secondo posto del campionato 1967-68, con in porta l’angelo azzurro Dino Zoff, alle spalle dell’irraggiungibile Milan, significa il miglior risultato mai raggiunto, mentre tra i dirigenti spunta lontano dai riflettori la figura di un giovane ingegnere, borbonico convinto, di padre calabrese e madre milanese, che ama le auto da corsa e i motoscafi veloci, spinto dall’ormai defilato Achille Lauro all’acquisto della maggioranza del club per beffare i soci nemici. Il 18 gennaio del 1969, a soli 37 anni, Corrado Ferlaino è eletto presidente. È un uomo scaltro, capace di tessere rapporti con le teste più importanti dell’ambiente calcistico e politico. Il club è sull’orlo del fallimento e nell’estate del 1972 cede alla Juventus Altafini e Zoff, quest’ultimo ormai elemento fisso della Nazionale, strappando al manager juventino Italo Allodi una promessa: un giorno dovrà lavorare per lui al Napoli. La squadra si piazza sul podio nel ’71 e nel ’74, e sfiora lo

Scudetto nel ’75, con l’ex calciatore Vinicio in panchina. ‘O Lione, nel solco del Calcio totale all’olandese, per primo attua il pressing, il fuorigioco e 4 difensori a zona nella patria del “catenaccio”, e sfiora il colpaccio, perdendo lo scontro decisivo a Torino contro la Juventus per un goal siglato a 2 minuti dal termine dall’ex Altafini, perciò soprannominato dai napoletani Core ‘ngrato. Fallito il tentativo, Ferlaino acquista dal Bologna il bomber Beppe Savoldi, sollevando scalpore per l’esborso della cifra record di 2 miliardi. Mister 2 miliardi da il suo contributo per la vittoria della Coppa Italia (’76), la seconda della storia azzurra (insieme alla Coppa di Lega Italo-Inglese). I tifosi inaugurano il canto di ‘O surdato ‘nnammurato, ma lo Scudetto resta una chimera. L’ingegnere va alla caccia del calciatore che possa fare la

differenza per sovvertire le gerarchie tra Nord e Sud. Nell’estate del 1978, in pieni Mondiali argentini, il tecnico del Napoli Gianni Di Marzio gli segnala un giovane campioncino dell’Argentinos Juniors di nome Diego Armando Maradona, ma le frontiere in Italia sono chiuse e Ferlaino non accetta di “parcheggiarlo” in Svizzera per un paio d’anni. Vuole calciatori affermati, e tenta l’acquisto del bomber Paolo Rossi dal Perugia. «A Napoli non andrò mai», dichiara in segreto l’attaccante italiano ad alcuni amici, facendosi intercettare dal giornalista Mimmo Porpiglia, pronto a pubblicare la notizia. L’affronto finisce in contestazione: il 20 ottobre ‘79, 89.992 spettatori paganti (record nella storia della Serie A) con fischietti alla bocca riempiono il San Paolo per lo sfizio di contestare l’autore del gran rifiuto sceso a Napoli con la maglia del Perugia. La caccia al fuoriclasse decisivo non si arresta e nell’estate del 1980, in pieno scandalo Totonero, alla riapertura delle frontiere, Corrado Ferlaino e il D.G. Antonio Juliano ingaggiano dai canadesi del

Vancouver Whitecaps Ruud Krol, faro difensivo dell’Olanda dal gioco totale con licenza di offendere. È a fine carriera ma ha ancora classe da vendere. Si innamora delle donne napoletane e delle mozzarelle di bufala, a tal punto da non poter disputare un’amichevole durante il ritiro in Toscana per un’indigestione. Con lui il Napoli sfiora nuovamente lo Scudetto, ma il sogno si incrina in primavera contro il Perugia già retrocesso, che espugna il San Paolo grazie ad uno sciagurato autogol iniziale di Moreno Ferrario, e si spezza con un’altra autorete di Mario Guidetti nello scontro diretto in casa alla penultima giornata contro la Juventus che getta nello sconforto una città intera pronta ad esplodere. Niente da fare, sembra proprio che per qualche maledizione lo Scudetto non debba mai scendere a Napoli. Krol, provato dagli infortuni, lascia Napoli nell’estate del 1984 proprio mentre il dirigente dell’Avellino Pierpaolo Marino viene a sapere tramite un mediatore argentino che quel campione argentino, finito al Barcellona due anni prima, è in rotta con il club catalano. Informa prima la Juventus, che rifiuta di trattarlo, e poi il Napoli. Maradona, già considerato il più talentuoso degli astri nascenti, vuole lasciare la Catalogna e si fionda senza esitazioni sulla prima squadra italiana che gli fornisce l’occasione di evadere dalla ricca prigione spagnola e volare nel campionato più importante del Globo (in quel momento). Il Barça pure vuole disfarsene, ma a caro prezzo. La trattativa è estenuante e si conclude in extremis, anzi oltre i termini consentiti. Il prezzo è oltre i 13 miliardi di lire, e il Napoli quei soldi non ce li ha. Ma nell’estate del 1984, in piene ruberie post-sisma nella Campania dei terremotati, dei disoccupati e dei cassintegrati, la politica democristiana decide di dare ai napoletani il calciatore dei sogni e il benefico divertimento. Nel Consiglio di Amministrazione del club figurarono i democristiani Clemente Mastella, Alfredo Vito e Guido

D’Angelo, rispettivamente in quota De Mita, Gava e Cirino Pomicino; uno per ogni corrente della Democrazia Cristiana. Il sindaco DC Enzo Scotti attiva un pool di banche per fornire la copertura finanziaria dell’operazione; il D.G. Juliano tratta a Barcellona e Ferlaino, con astuto blitz all’ultimo giorno utile, consegna una busta vuota negli uffici della Lega per poi volare in Spagna per le firme. Torna a Milano a notte fonda e, con l’aiuto di una compiacente guardia giurata, riesce a sostituire la busta vuota con una contenente il contratto firmato da Maradona. La città esplode in una festa improvvisa, e non ha vinto ancora nulla. Il 5 luglio il San Paolo è pieno come un uovo per vedere Maradona palleggiare e calciare lontano un pallone. Si inaugura così l’era d’oro del Napoli, ma nessuno sa ancora a che prezzo. Tutti intuiscono che ora, con el pibe de oro, il Napoli può vincere. Tutti comprendono che il più forte calciatore del mondo, se ben assecondato, può far saltare gli equilibri precostituiti e può condurre la collassata metropoli partenopea nella competizione


con i potentati economici del Nord Italia. Anche Italo Allodi capisce nel giugno del 1985 che è il momento giusto per onorare la promessa fatta a Ferlaino tredici anni prima. Lo affianca Pier Paolo Marino, proprio il dirigente dell’Avellino che ha dato la grande soffiata. Allodi, però, è improvvisamente coinvolto in uno scandalo bis del Totonero. Si parla di “sistema Allodi”, di partite sistemate, e il manager scoppia in lacrime per le accuse. Ne esce assolto “con qualche motivo di perplessità”, ma anche sconvolto: nel gennaio del 1987 viene colto da ictus ed è costretto ad uscire lentamente dal mondo del Calcio. Dopo quattro mesi tutto sembra dimenticato quando gli azzurri riescono a mettere finalmente le mani sullo Scudetto, sul primo storico tricolore. Maradona esulta


con Bruno Giordano, Salvatore Bagni, Andrea Carnevale, Fernando De Napoli, Alessandro Renica, Claudio Garella e l’esordiente Ciro Ferrara. È l’apoteosi per il popolo partenopeo che prepara la festa come una Piedigrotta d’altri tempi e si riversa nelle strade al fischio finale di Napoli-Fiorentina del 10 maggio ’87. È un evento anche per la RAI, che manda in prima serata e sulla rete ammiraglia uno show celebrativo condotto da Gianni Minà. Qualche giorno dopo si compie l’accoppiatta Scudetto-Coppa Italia, riuscita prima di allora solo a Juventus e Torino.

Il Napoli sostituisce Allodi con il suo allievo Luciano Moggi, scafato manager in grande ascesa che aveva mosso i primi passi alla Juventus proprio all’ombra dell’ormai “pensionato” e malato Italo. Il bis Scudetto sembra cosa fatta con la MA.GI.CA. Maradona-Giordano-Careca, un tridente formidabile completato dal funambolico e imprendibile fuoriclasse brasiliano, che sceglie Napoli e si libera dal suo San Paolo perché vuole a tutti i costi giocare con il fenomeno argentino. Il Napoli vola e sembra non avere rivali a tre quarti del campionato, ma ecco spuntare il Milan di Berlusconi e Sacchi, bravo a spingere sul finale e ad approfittare della brusca e improvvisa frenata degli azzurri. Il giocattolo sembra essersi rotto sotto le accuse di aver perso lo Scudetto di proposito. Si parla di un accordo politico occulto per far vincere il Milan ma anche di scommesse al mercato nero, di forti puntate sul bis tricolore degli azzurri che avrebbe fatto perdere agli allibratori della malavita qualcosa come 260 miliardi di lire. Alla fine pagano alcuni giocatori, cacciati dal club al contrario di Maradona, che inizia a mostrare insofferenza e fastidio nei confronti di Ferlaino, il quale continua a non mantenere la promessa fatta nel 1984 di accasarlo in una villa con piscina e a lasciarlo “recluso” in un appartamento di via Scipione Capece a Posillipo. Ma il ciclo del Napoli è ancora incompleto e così giungono la Coppa Uefa nel 1989 e il secondo Scudetto nel 1990, tra una richiesta e l’altra di Maradona di lasciare il club per campionati meno stressanti. Ma lui stesso sa che è prigioniero di Ferlaino e della venerazione che i napoletani gli riservano. Un fanatismo al confine col feticismo. Egli stesso si è fatto capopopolo, accostando i napoletani agli argentini e denunciando il razzismo italiano verso i “terroni”, lo stesso che ha provato in Spagna sentendosi additato come “sudaca”. Anche per questo ha odiato Barcellona e ora detesta Verona e tutti i campi del Nord dove legge striscioni su cui è scritto “lavatevi” e sente volgarità indegne. E detesta le tre “big” del Nord, polo di un potere che si diverte a sabotare sul campo. Arriva anche la prima Supercoppa, con un sonoro 5-1 alla Juventus dopo i Mondiali italiani, quelli che segnano la definitiva rottura tra l’Italia e il campione argentino, ormai troppo inviso ai vertici federali cui ha sottratto la finalissima e offeso durante l’inno argentino a Milano, Torino e Roma. È l’ultimo bagliore di una squadra che crolla sotto la tossicodipendenza del suo leader. Una tossicodipendenza nata a Barcellona e degenerata a tal punto da bloccare troppo spesso Maradona in casa, anche quando c’è da volare a Mosca per la Coppa dei Campioni. Le maglie dei controlli antidoping sono larghissime da anni ma stranamente si fanno strette e il campione argentino ci casca solo nell’aprile 1991, proprio nel giorno in cui Moggi annuncia alla stampa che il ciclo del Napoli è finito e lui

andrà via a fine stagione. Tenere in squadra un Maradona allo sbando che non incide più non conviene alle casse del club, che, per accontentare il suo fuoriclasse e mettergli attorno altri campioni negli anni, ha speso in ingaggi il 30% in più di quanto incassato. Ma neanche si può vendere l’idolo assoluto dei napoletani, l’orgoglio massimo della storia azzurra, più prezioso dei trofei portati alla bacheca azzurra, pena la sommossa popolare. La storia napoletana di Diego si conclude nel modo meno “catastrofico”. Il suo erede l’ha portato in casa proprio Moggi, e si chiama Gianfranco Zola. Gli sforzi economici, senza una grande holding alle spalle ma architettati da uno smaliziato costruttore edile, stanno per presentare il conto. Inizia una crisi che dura oltre un decennio, con continui passaggi della maggioranza a imprenditori incapaci di risollevare il club, uscite e rientri di Ferlaino, cessioni dolorose (Ciro Ferrara prima e Fabio Cannavaro poi), qualche soddisfazione targata Claudio Ranieri e Marcello Lippi, e tanta Serie B, dopo 33 anni consecutivi di permanenza nella massima serie. Il televenditore riminese Giorgio Corbelli e l’imprenditore alberghiero napoletano Salvatore Naldi liquidano l’ingegnere ma a tentare il disperato salvataggio resta solo il secondo, che cede nell’estate 2004 e porta i libri contabili in tribunale. Il 2 agosto 2004 la Società Sportiva Calcio Napoli viene decretata fallita. È questo il prezzo differito che il club paga per aver portato a Napoli il miglior calciatore del mondo, gli scudetti e le coppe. L’iscrizione al campionato di B è impossibile. Resta percorribile la strada dell’iscrizione alla Serie C1, ma bisogna assicurare una nuova proprietà e grandi investimenti. 6 possibili acquirenti si fanno avanti. La curatela fallimentare snobba la proposta d’acquisto del plateale presidente del Perugia Luciano Gaucci e si orienta verso quella più seria del proprietario dell’Udinese Giampaolo Pozzo, il quale ha tutto l’interesse a portare la regina del Sud in

orbita friulana. Ma ecco che all’improvviso compare sulla scena il cineasta romano di famiglia napoletana Aurelio De Laurentiis, che con un blitz convincente fa suo il club. Il nuovo proprietario riporta subito a Napoli Pierpaolo Marino e, in tre stagioni, la Serie A. Il 10 giugno 2007, col pareggio in trasferta contro il Genoa, esplode una nuova festa in Città. Stavolta sono i più giovani ad animarla, quelli che negli anni Ottanta non erano nati, e che sono cresciuti vedendo la squadra del cuore arrancare nelle serie minori. Il Napoli di De Laurentiis cresce e raggiunge anche l’Europa, prima quella minore e

poi quella dei Grandi. Torna pure il profumo di Scudetto con il trio Cavani-Lavezzi-Hamsik diretto da Walter Mazzarri, ma il primo trofeo della nuova Era è la Coppa Italia, la quarta della storia, nell’indimenticabile finale del 20 maggio 2012 a Roma contro la Juventus. Due anni dopo, il 3 maggio 2014, sempre a Roma, anche la quinta coppa nazionale contro la Fiorentina, macchiata dall’aggressione a mano armata che causa la morte del

tifoso Ciro Esposito. Stavolta in panchina c’è il vincente tecnico spagnolo Rafa Benitez, tra i più quotati del mondo, che ha il compito di accompagnare il Napoli in una crescita di respiro internazionale. Ma le sue aspettative e quelle dei tifosi non vengono appagate fino in fondo, nonostante la vittoria della seconda Supercoppa in un’interminabile finale a Doha conclusa ai rigori contro la rivale di sempre: la Juventus. Il monte ingaggi è cresciuto con 70 milioni di investimento e 135 milioni per i cartellini di calciatori importanti, su tutti l’argentino Gonzalo Higuain, uno dei più completi attaccanti al mondo, chiamato a sostituire il partente Cavani. Due mancate

partecipazioni alla Champions League creano un danno alle floride casse sociali e fanno rinunciare al progetto, anche se la squadra accede all’Europa per il sesto anno consecutivo (record corrente della Serie A) e prosegue in un ciclo che, in quanto a risultati e vittorie, è secondo solo a quello oneroso dell’Era Maradona. L’abiura si chiama Maurizio Sarri, una scommessa che segna un nuovo corso tutto da scoprire, mentre il club targato De Laurentiis divide i tifosi per l’impostazione aziendale a carattere familiare e per la parsimonia che tiene lontano lo spettro del dissesto; uno spauracchio ora esorcizzato ma che ha accompagnato l’azzurro per ottant’anni, compresi quelli d’oro degli Scudetti in cui la bigliettazione allo stadio rappresentava il 90% del fatturato (altri tempi). È la prima volta che accade nella storia di un club che è massima espressione calcistica di un territorio, quello meridionale, che non supera il 20% di presenza delle proprie squadre al Massimo Campionato, capace di vincere solo 8 scudetti contro i 103 del calcio settentrionale. La storia insegna che non si impara nulla da essa, ma quella azzurra deve invece inorgoglire i suoi tifosi a prescindere dai traguardi raggiunti, dai grandi campioni che l’hanno scritta e dai tanti travagli vissuti. Essere tifosi del Napoli, in ogni parte del mondo, vuol dire sostenitore un club unico come la Città che rappresenta, e dei cui affanni è specchio fedele, così come della sua ineguagliabile volontà di non chinare la testa, nonostante tutto. Auguri, Napoli. Auguri, passione azzurra.

Il gusto “Regno delle Due Sicilie” vince il GelatoFestival

Angelo Forgionegelato_5Domenica 17, alla tappa napoletana del GelatoFestival che si è svolta al quartiere Vomero di Napoli, ho avuto la fortuna di assaporare un prodotto veramente eccezionale: il gusto “Regno delle Due Sicilie”, un sensorial tour dalla Sicilia alla Campania, con pistacchio di Bronte, cioccolato di Modica, nocciola di Giffoni IGP e Arancia bionda di Sorrento.
Ideato e proposto dai simpatici Oreste e Marcella Mantovani, della gelateria Gelatosità di Napoli, il suo nome potrebbe indicare un giudizio di parte. Il fatto è che il festival prevedeva una gara tra tutti i gusti proposti dalle varie gelaterie, e il mio è stato solo uno dei tanti voti della giuria popolare che hanno decretato vincitore per plebiscito il gusto delle Due Sicilie, mentre la giuria tecnica premiava ex aequo il napoletano Marco Infante di Casa Infante con il gusto “Terramia” e Pina Moltierno di Caserta con il gusto “Desir Noir”.
La vittoria di tappa manda ora i fratelli Mantovani alla finalissima europea di ottobre di Firenze, ultimo evento del Tour 2015 che proclamerà il miglior gelatiere d’Europa. Il gusto “Regno delle Due Sicilie” ci sarà. Anche in gelateria, si spera.

A Napoli la prima libreria ad azionariato popolare

Angelo Forgione – Periodo di forte crisi editoriale e culturale, ma da Napoli parte una nuova sfida e una forte risposta alle ripetute chiusure delle librerie. Il 21 luglio, alle 21, in cima a via Cimarosa 20, nel cuore del Vomero, di fronte alla Funicolare Centrale di piazza Fuga, apre “IoCiSto”, la prima libreria ad azionariato popolare d’Italia. Si tratta di un esempio, nato dalla volontà di arginare la desertificazione culturale del Vomero.
Nessun grande imprenditore, nessun marchio storico, nessun franchising. In soli due mesi il progetto ha messo insieme più di trecento persone e le loro risorse economiche per dar vita a “la libreria di tutti”: 250 metri quadri di esposizione libraria, luoghi di lettura e spazi per eventi. Una conferenza stampa di presentazione è indetta per venerdì 18 luglio alle ore 12, e farà da preludio all’adunata pubblica di lunedì sera, quando si accoglieranno tutti coloro che spontaneamente vorranno presentarsi (anche senza invito) per dare il loro pur piccolo contributo e aderire all’associazione. Cui va un grosso “in bocca al lupo”.

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