Angelo Forgione – E pazienza, caro Cruciani. Sono costretto a indugiare malvolentieri di nuovo su di te.
Come la tua amica Selvaggia, anche tu hai fatto il marchettone anti-napoletani con un carico di mottini ricevuti dall’ufficio stampa del Buondì Motta (Bauli), ma non è questo un problema, figuriamoci; è notoriamente il vostro pessimo stile, e vi fa onore che non ne facciate mistero.
Mi fa in qualche modo piacere che il marchettone l’abbia messo in scena davanti le telecamere e i microfoni espressamente per me, con il fallimentare intento di farmi indispettire. Mi lusinga tutta questa considerazione, e però non posso proprio ringraziarti. Lo farei se tu fossi personaggio di ben diverso spessore culturale e umano. E invece sei solo un buon provocatore pruriginoso, e ti diverti ora a storpiare il mio cognome, anche se lo conosci benissimo, perché mi leggi con interesse e, unitamente a Francesco Paolantoni e Germano Bellavia, mi hai messo da tempo nella lista dei nemici, posizione che è per me un onore, credimi. Ma vedi, io non ti considero più del dovuto, che è poco, e non cerco di intimidire nessuno, tantomeno te. Io scrivo di storia, di cultura, di sport, costume e società in chiave identitaria, e se quel che produco in lettere ti infastidisce perché inoppugnabilmente inconfutabile dagli anti-napoletani di professione come te, il problema è esclusivamente tuo e di quelli come te. E dev’essere anche un problema serio, a giudicare da quel che mi dici in forma plurale: “ne sappiamo molto più di voi”. Hai forse qualche complesso di inferiorità, caro Giuseppe? Suvvia, sei un gigante dell’etere, fomentatore di bassa lega, e io un piccolo divulgatore di alta napoletanità… una zanzara fastidiosa, per te, direi.
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La noiosa battaglia contro la deficienza naturale
Angelo Forgione – Lo spot del Buondì Motta (Bauli) con connotazione musicale neomelodica sta facendo discutere. Giuseppe Cruciani, nel corso de La Zanzara (Radio 24), non ha perso occasione per provocare i napoletani, strumentalizzando le parole del sottoscritto.
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Di seguito delle mie “doverose” precisazioni all’irriverente conduttore radiofonico:
Caro Cruciani,
io non ti rompo i coglioni, come dici tu con la tua proverbiale eleganza. Vedi, il fatto è che io non ti considero affatto, e scrivo per chi mi legge. Evidentemente mi leggi anche tu, e mi leggesti anche quando sparirono dei faretti a led dai nuovi bagni dello stadio San Paolo. Ricordi? Tu, al solito, ci sguazzasti, come se Napoli fosse l’unica città dove potessero accadere simili cose, e allora elencai tutti i posti pubblici d’Italia dove erano stati rubati faretti a led. E facesti una magra figura, senza neanche accorgertene.
Semmai sei tu che rompi i coglioni ai napoletani, ma con me caschi male, anche se fai il furbetto nella tua potente radio leggendo ciò che ho scritto (non a te ma al pubblico) sulla vicenda dello spot del Buondì e provando a dileggiarmi senza avere il buon gusto e la correttezza di avvertirmi, per giunta con il tipico turpiloquio che ti contraddistingue. Che poi, per interpretare quell’inviso personaggio che ti sei cucito addosso, intendi usare me per irridere tutti i napoletani e la cultura partenopea. E perciò, dopo aver letto il passaggio in cui scrivo “la musica di Napoli è mondo colto”, fai partire più volte dalla regia una strozzata nota iniziale di mandolino, dando sfogo a certa deficienza, ma naturale.
Rilassati, Giuseppe. È chiaro che qui l’ossessionato non sono io ma tu; da Napoli.
L’Umberto assassinato e imbrattato
Angelo Forgione – Cola vernice rossa sul basamento della statua di Umberto I di Savoia sul lungomare di Santa Lucia a Napoli. Che si tratti di anarchici, filoborbonici o semplici vandali, a rimetterci è comunque il decoro della città, al di là dell’accanimento che la storia sembra non voler risparmiare a una figura assai discutibile, morto nel 1900 al quarto tentativo di regicidio subito.
Solo dieci mesi dopo la sua salita al trono d’Italia, nel 1878, Umberto I rischiò di raggiungere prematuramente il defunto padre Vittorio Emanuele II. Gli anarchici repubblicani Alberigo Altieri a Foggia e, più efficacemente, Antonio Passannante a Napoli, tentarono di scagliarvisi contro per ucciderlo, un giorno dopo l’altro. Il secondo aspirante regicida, di origine lucana, tentò l’assassinio durante un corteo reale in via Toledo, e dichiarò durante l’interrogatorio che con il suo gesto aveva provato a riscattare lo stato di disgrazia in cui il Mezzogiorno era stato condotto dalle politiche del Regno d’Italia.
Nemmeno l’operazione simpatia che condusse viaggiando per l’Italia riuscì a metterlo al riparo dall’odio che certe frange occulte provavano per lui, dettato dalle condizioni di avanzante miseria in cui non solo il meridione ma anche il resto del Paese, sia pure in misura minore, versavano sotto il suo trono.
La buona legge per il Risanamento di Napoli, necessaria per risolvere le problematiche igieniche di alcuni rioni di Napoli dopo il colera del 1884, fu strumentalizzata per un’operazione di vantaggiosa speculazione edilizia a beneficio di società immobiliari e bancarie torinesi e romane, che contribuì alla creazione di una bolla edilizia nelle principali città d’Italia, esplosa con lo scandalo della Banca Romana.
Un terzo attentato si verificò nel 1897, stavolta a Roma, dopo che il sovrano restò implicato nello scandalo per via del suo personale indebitamento proprio con la Banca Romana. L’anarchico laziale Pietro Acciarito si mescolò tra la folla all’ippodromo delle Capannelle e si lanciò verso la carrozza reale armato di coltello. Ancora una volta, il Re schivò l’offensiva e ne uscì illeso.
Alla fine qualcuno riuscì ad ucciderlo. Il Re pagò con la vita il conferimento della Croce di Grand’Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia e la carica di senatore al generale Fiorenzo Bava Beccaris, responsabile di uno dei più gravi eccidi delle forze dell’ordine nella storia della Nazione, la spietata e sanguinaria repressione della cosiddetta “rivolta dello stomaco” di Milano. Umberto I fu assassinato a Monza nell’estate del 1900 dall’anarchico toscano Gaetano Bresci. Se nei primi tre attentati le lame non erano andate a segno, i colpi di rivoltella al polmone e al cuore de Re non lasciarono scampo.
La statua che oggi lo vede esattamente al centro della colmata di Santa Lucia, ad osservare la bellezza del Golfo di Napoli, è effigie elevata a somma figura morale della moderna storia nazionale nei libri di storia, negli odonimi stradali e, appunto, sui basamenti monumentali dello Stivale. Lui e tutti i cosiddetti “padri della patria”, di fatto ladri della patria Napolitana, sono ancora ben saldi a indicare ai meno sprovveduti quanto influente sia stata ed è la Massoneria in un paese di profonde radici cattoliche.
Mi piacerebbe non vederle più certe statue, ma finché insisteranno preferisco il sacro valore del decoro della città. Poco male, perché per certe sculture la ripulitura è pressoché immediata, mentre altre restano imbrattate per anni.
per approfondimenti: Napoli Capitale Morale (Magenes)
Juventus-Napoli, il vero derby del Sud
Angelo Forgione – Se pensate che Juventus-Napoli sia Nord contro Sud, Torino opposta a Napoli, vi sbagliate. Juve-Napoli è il vero derby del Sud!
Si tratta delle due squadre più tifate nel Mezzogiorno, una con seguito primeggiante in tutte le regioni meridionali, tranne la Campania, dove l’altra genera fortissima identificazione. La Juventus intercetta la passione di Sicilia e Calabria, dietro solo a Lombardia e Piemonte, e poi di Abruzzo, Puglia, Basilicata e la stessa Campania, dove però cede il primato al Napoli e non compie la cancellazione dell’identità territoriale, così come in Sardegna, là dove primeggia il Cagliari.
La geografia del tifo meridionale è figlia di una passione storica costruita a tavolino al culmine dell’ondata migratoria avutasi a Torino negli anni 70, quando il capoluogo piemontese divenne la terza più grande città “meridionale”
d’Italia dopo Napoli e Palermo e gli Agnelli fecero leva sull’attaccamento agli idoli meridionali in maglia bianconera per promuovere l’integrazione degli operai e contenere le rivendicazioni sindacali. E così i calciatori del Sud vennero scelti per incontrare il favore dei meridionali in fabbrica e dei loro parenti rimasti a casa.
Oggi la fidelizzazione bianconera segue dinamiche psicologiche. Lo juventinismo, anche più del milanismo e dell’interismo, cresce allontanandosi dai nuclei territoriali delle squadre con seguito identitario ampio e attecchisce nei piccoli e medi centri che non riescono a emergere nel calcio che conta. Un bambino di Messina, Catanzaro, Matera, Brindisi, Teramo e altre province fuori dai grandi giochi, senza una storia calcistica e lontane dai grandi capoluoghi, fa più facilmente una scelta che gli consenta di partecipare, di non sentirsi escluso, e per convenienza inconscia si affeziona alla squadra forte, quella che vince, meglio ancora se ha già vinto tanto in passato.
Nelle regione meridionali a prevalenza juventina è spesso adottata una fedeltà doppia: per la squadra locale, che non ha legami stretti con la vittoria, e per quella in grado di vincere, che non ha legami stretti col territorio. È un’assicurazione sulla partecipazione al divertimento.
In Campania, più che nelle altre regioni, e specialmente nella popolosissima provincia di Napoli, non esiste un problema di presenza, di competitività e di radicamento territoriale. Il napoletano, come il romano, il milanese, il torinese e il fiorentino, non sostiene la squadra della sua città e la Juventus allo stesso tempo. O l’una o l’altra! Ed è soprattutto il Napoli.
Ecco perché il tifo napoletano, il quarto per bacino in Italia, si concentra soprattutto all’ombra del Vesuvio, e inizia a disperdersi allontanandosi dal vulcano, unico baluardo identitario del tifo, molto più che il Colosseo, conteso da romanisti e laziali, che il Duomo, spaccato tra interisti e milanisti, che la Mole, divisa tra granata e bianconeri.
Tutto il resto non ha nulla a che vedere con l’identificazione territoriale ma è piuttosto il modo più facile per recitare, da meridionali, un ruolo da protagonista in pubblico. Perché Napoli c’è e il resto del Sud, purtroppo, non ce la fa ad esserci, a meno che non si aggrappi al Napoli o, come più spesso accade, alla Juventus o alle milanesi.
La grande storia della cucina di Napoli a Livorno
Per gli amici di Livorno e dintorni, sabato sera arrivo a Villa Sansoni, zona Ardenza, per raccontare la fantastica storia del pomodoro e della cucina napoletana.
Dopo le mie chiacchiere, lo chef Francesco Riverso preparerà una cena napoletana per deliziare i presenti.
E poi, canzoni napoletane della grande tradizione.
Se siete in zona… prenotazione obbligatoria.

Mughini, si informi!
Angelo Forgione – Ospite dello speciale “C’era una volta il Sarrismo” (Canale 21) dal lungomare di Napoli, sto commentando la presentazione di Sarri alla Juventus quando Giampiero Mughini, dallo studio di Agnano, decide di entrarmi a gamba tesa, visibilmente irritato dalla lettura del mio scritto di commento alle (ipocrite) parole del nuovo allenatore bianconero. Un passaggio lo ha sconquassato, ovvero quello in cui è scritto “nessuno però ha chiesto a Sarri come si sente ad essere l’allenatore di una squadra che impoverisce il sistema”.
Non sa, Mughini, che la paternità della definizione non è mia ma di Maurizio Sarri in persona, pronunciata in conferenza stampa nel post Fiorentina-Napoli, match dello “scudetto perso in albergo”, riferita all’ininterrotta sequela di tricolori bianconeri che fa male a tutto il calcio italiano.
La ritiene, il disinformato Mughini, una mia «pagliacciata», e allora non vede l’ora di cogliermi in castagna. Netta la sensazione che in passato abbia già letto qualcosa su di lui scritto da me quando chiede a Titti Improta se io sia Angelo Forgione. Riceve conferma e crede di farsi giustizia. Gli andrà molto male.
Il canuto juventino scatta con la solita arroganza a base di urla e sbraiti, tra cui faticosamente gli arriva alle orecchie la mia risposta: «L’ha detto Sarri, non l’ho detto io. Mughini, Lei è disinformato!». E allora il catanese rinnegato la gira sull’opportunità, cioè sulla necessità da parte di Sarri di non ripetere una simile affermazione in casa Juve, che poi è esattamente quello che ho evidenziato ironicamente nel mio post.
Sono tra gente che cena e si volta capendo che sta accadendo qualcosa. Mi preoccupo di non disturbare e cerco di tenere i toni bassi, per quanto possibile, mentre il mio interlocutore, che sento ma non vedo, la butta in caciara. Svantaggiato dalla mancata sincronizzazione audio rispetto a quanto arriva dallo studio, ammonisco Mughini della sua incoerenza, di cui è maestro, ricordandogli che lui è la stessa persona che da una parte ha rimproverato ai napoletani di non tifare per la Juventus in Europa perché non si sentono italiani e dall’altra si è dichiarato uno sfortunato catanese che purtroppo non è nato a Parigi.
Più irritato che mai, colpito al centro, il mancato francese, mi dà del “pagliaccio”, anzi, «pagliaccio che non sa niente», incrociando le braccia in atteggiamento di difesa. Ed è lì che prende il colpo in pieno volto, realizzando che la frase incriminata è di Sarri, non di Forgione.
Risposta: «Non sapevo che Sarri avesse detto una tale cretineria. Non immaginavo possibile che avesse detto una tale cretineria». E chissà se il gran tifoso juventino ha capito che fariseo è l’allenatore che si è messo in casa la sua Juve.
Braccia aperte e la resa: «Le chiedo scusa, Angelo». Mughini in silenzio.
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Il rencido caffè napoletano secondo Godina

Angelo Forgione – Report, con la coppia Bernardo Iovene – Andrej Godina, è tornato sul luogo del delitto, a Napoli, che dopo più di cinque anni si è fatta trovare ancora impreparata e un po’ vaga sulla sacra questione caffè.
Allora fu un massacro. Le tazzine napoletane descritte come ciofeche degne dei peggiori bar di Caracas. Il triestino Godina già allora non era uno qualunque. Dottore di ricerca in Scienza, Tecnologia ed Economia dell’Industria del caffè, dall’alto di questa qualifica si spese per sfatare il mito dell’espresso napoletano. In verità, il suo anatema era partito qualche mese prima con un tour personale in compagnia di un barista romano, e aveva trovato il tempo di fermarsi alla Feltrinelli della stazione centrale, comprare il mio Made in Naples e snobbare il capitolo “Il Caffè”, mentre Alberto Angela lo adottava come fonte per i suoi approfondimenti storici sul rito del caffè a Napoli. Poi era andato ad assaggiare qualche caffè in piazza Garibaldi, al Gambrinus e a Santa Lucia, dove aveva scattato qualche foto per la sua pagina facebook, sulla quale poi autocommentò che con la sua passeggiata partenopea aveva “definitivamente sfatato il mito del buon caffè a Napoli!”.
Una volta tornato a casa, il dottor degustatore scrisse un articolo che fece parlare il web già prima della messa in onda della prima inchiesta di Report. E lì capii che l’attenzione con cui analizzava il caffè non corrispondeva a quella con cui aveva letto il mio libro, visto che “minuscolizzò” la parola Naples, pluralizzò il mio cognome e sbagliò anche il nome dell’editore. Pazienza.
Sulle sua sentenza non fu d’accordo il blog “Espresso News and Reviews” di San Francisco, che commentò il lavoro con perplessità e chiuse la propria analisi scrivendo: “Difendiamo la nostra valutazione sullo standard dell’Espresso a Napoli, che batte quelli di qualsiasi altra città del mondo in cui siamo stati (e sono tantissime). Ma, come l’articolo di Mr. Godina dimostra, le opinioni variano”.
Scoppiò fragorosa la polemica già al solo trailer della trasmissione, tra Napoli e Report, ma anche tra Report e Godina, che al TgR Campania accusò la redazione del programma di averlo gettato in pasto ai leoni, cioè di aver calcato la mano su Napoli mentre lui era critico con tutti i caffè d’Italia.
A puntata ormai vista, la polemica si ingigantì ancor di più, ed entrò in campo la Scae (Speciality Coffee Association of Europe), di cui Godina è membro degustatore. L’Associazione si dissociò dai pareri dell’esperto triestino, dichiarando che egli aveva condotto le sue degustazioni a titolo personale.
Anche l’Istituto Internazionale Assaggiatori di Caffè diffuse una propria nota, suggerendo un metodo di assaggio scientifico basato sull’analisi sensoriale di un gruppo di esperti, mentre quello che avevano visto fare da Godina rientrava invece nell’inattendibile critica enogastronomica del tutto individuale.
Acque agitate ma acque calmate in questi anni, e allora ecco il ritorno a Napoli, stavolta in compagnia di un altro degustatore, il napoletano Mauro Illiano. Ritorno meno turbolento nelle reazioni anche se non troppo diverso nei contenuti: il caffè napoletano fa un po’ meno schifo di allora, ma sa sempre di straccio bagnato.
Chiariamoci, Godina e Iovene non avevano torto nel 2014 e non ce l’hanno oggi, perché punti deboli nei bar napoletani ve ne sono. Diversi seguono le cattive logiche commerciali di torrefattori che offrono ristrutturazioni e benefit in cambio della loro miscela, che può essere di qualità o, in molti casi, non così buona. Peggio ancora accade quando a imporre il proprio pessimo standard sono i marchi delle organizzazioni criminali, e lì non c’è possibilità di avere chicchi di qualità.
I torrefattori fanno spesso abuso della qualità “Robusta”, che costa la metà della “Arabica” perché inferiore, con aromi legnosi, se proviene dal Vietnam, e di terra, se di origine Africana. I baristi, in troppi casi, non sanno cosa vi sia nelle miscele che servono, non puliscono i filtri dove lasciano sedimentare residui cotti più volte, non puliscono la campana del macinino, non macinano il caffè al momento (pregiudicando l’aroma) e non effettuano il “purge”, l’operazione per la pulizia dell’acqua, che però, attenzione, è automatica con le macchine a leva ancora diffusissime a Napoli rispetto a quelle a bottone.
È evidente che certi guasti finiscano col pregiudicare la qualità, col rischio di cambiare il gusto e imporlo al pubblico. Insomma, anche sul caffè bisogna imparare a scegliere, e anche a pretendere. Perché non v’è alcun dubbio che il caffè napoletano, per tutta la storia e la ritualità che vi girano intorno, è da proteggere, soprattutto ora che il fatturato delle aziende napoletane del caffè è in crescita.
È bene che lo standard della “tazzulella” si alzi, tra miscela e preparazione, e ciò è possibile anche senza un’associazione di categoria (una chimera!) che pensi magari ad un disciplinare di preparazione, così come fatto per la pizza napoletana, salvata dallo scippo che negli anni Ottanta qualcuno pensò di fare a Napoli, e ora innalzatasi a livelli di qualità ben più alti rispetto a qualche tempo fa.
Godina è certamente credibile per competenza, ma qualche tassello gli manca quando parla di miscela napoletana, ed è di tipo storico. Così come la scienza dei degustatori è stata imposta dal marketing così la consistenza del caffè a Napoli è stata imposta dalla storia e dai gusti locali, ed è lì che bisogna andare a cercare il motivo per cui nell’ espresso napoletano si usi una piccola percentuale di qualità “Robusta-Canephora”, certamente inferiore alla “Arabica”. Quando la cultura del caffè iniziò a diffondersi a Napoli, nel Settecento, per influenza della viennese regina Maria Carolina, i napoletani erano grandi consumatori di cioccolata. Nel 1771, il Bilancio del Commercio esterno del Regno, fatto d’ordine del Re, riportava una spesa davvero elevata per l’importazione di cacao, in quantità quasi tripla rispetto al caffè.
L’industrializzazione ottocentesca del cioccolato fece esplodere il consumo di cioccolatini e barrette, cioccolata in forma solida che relegò quella liquida in secondo piano rispetto al caffè, che divenne la bevanda da degustazione regina. Ma i napoletani erano abituati alla densità dell’infuso di cacao, e allora i produttori locali di caffè preferirono miscelare un po’ di “Robusta” alla “Arabica” per incontrare e soddisfare il palato dei napoletani. ‘A ciucculata ‘e café, a Napoli, era ed è sempre preferita al 100% Arabica, che è infuso più liquido. A patto però che si scelga una buona qualità di “Robusta”, che non si ecceda nella percentuale, e che il caffè si tosti e si prepari a regola d’arte. Su questo dobbiamo essere tutti d’accordo, senza presunzione.
In libreria l’edizione 2019 di ‘Dov’è la Vittoria’
È in distribuzione presso le librerie, su Amazon, Ibs, etc. l’edizione anno 2019 di Dov’è la Vittoria, la terza. Non solo aggiornamento di dati e statistiche ma anche integrazione dell’ultimo fattaccio del calcio italiano: “Calciomafia in Piemonte – porte aperte ai malavitosi in casa Juve”.
Consigliato dagli addetti ai lavori a chi vuol davvero capire il calcio italiano nonché la Questione meridionale.

Illuminare Cruciani

Angelo Forgione – Miserabile furto di faretti nei nuovi bagni della Curva A dello stadio San Paolo denunciato qualche giorno fa da Spazio Napoli, una secchiata gelida sulla città perbene. Trent’anni per dare decoro a uno stadio deturpato dall’affarismo politico-edilizio degli anni Ottanta e cinque minuti per allarmare tutti sull’esito del restyling, che rischia di essere vanificato dall’inciviltà e dall’incuranza sempre più diffuse. Ma è davvero accaduto durante la partita o dopo? Sono stati i tifosi o altri soggetti? Nessuno ha visto i responsabili arrampicarsi lassù a smontare e tagliare cavi?
Subito scattata la solita campagna denigratoria di Giuseppe Cruciani, nella sua trasmissione radiofonica La Zanzara su Radio24, pronto a chiedersi, con il suo solito canovaccio e con tanto di tarantella di sottofondo, in quale città spariscano faretti dell’illuminazione dai luoghi pubblici. Ormai famosa la telefonata dai toni a dir poco accesi con l’attore-pasticcere Germano Bellavia, che gli augurava le peggio cose prima di scusarsi col suo pubblico sui social per l’eccesso di bile.
A beneficio di Cruciani, che si rispondeva da solo affermando che «solo in una città sono stati trafugati dodici faretti», un lungo elenco di faretti rubati qua e là lungo lo Stivale, stilata da me, contrario al confronto verbale con il provocatore ma pur costretto controvoglia al poco divertente gioco del mal comune. Ricevuta la lista sulla sua posta elettronica, il buon Giuseppe la ricusava sostenendo che si trattava di stadio, e che altri luoghi diversi non facevano troppo testo, perché per lui il bagno di uno stadio in rifacimento è diverso da un altro luogo pubblico. Avrei dovuto quindi elencargli furti avvenuti in altri bagni di stadi in rifacimento. È questo il livello del Nostro.
L’elenco lo rendevo pubblico sulla mia pagina facebook, e così gli veniva ripetutamente proposto fino allo sfinimento e alla necessità di rispondere anche in diretta radiofonica. E ancor lo ricusava, come fatto in privato, con tono eloquente, non aggressivo, come suo solito; e non poteva esserlo di fronte ai fatti schiaccianti. Perché le zanzare sanno arrampicarsi sugli specchi ma prima o poi qualcuno le schiaccia.
Quando la pizza stava per sparire
Agli spagnoli de La Vanguardia, il quotidiano più diffuso in Catalogna, ho raccontato come la pizza napoletana ha rischiato di sparire nell’Ottocento, e che se fosse accaduto la pizza non sarebbe oggi il cibo più famoso del mondo.
Aggirando un certo pregiudizio catalano, ho narrato come da uno scenario di timore nei confronti dei pizzaiuoli napoletani si sia passato a un altro in cui gli stessi pizzaiuoli sono considerati vere e proprie star, custodi di un patrimonio immateriale dell’Unesco. Senza dimenticare accenno alla falsità della pizza tricolore inventata per la regina d’Italia.
Di seguito la traduzione dell’articolo pubblicato in Spagna (a cura di Marc Casanovas) con record giornaliero di visualizzazioni.

Più di un secolo prima che l’Arte dei “pizzaiuoli” napoletani fosse dichiarata Patrimonio Immateriale dell’Umanità, decenni prima che l’Associazione Verace Pizza Napoletana formulasse un decalogo di conformità obbligatoria della Pizza napoletana STG, anni prima che migliaia di famiglie italiane si imbarcassero su una nave alla ricerca del sogno americano con la ricetta in valigia, e anche prima che il pomodoro si stabilizzasse come ingrediente fondamentale in Europa, vi fu un momento cruciale nella storia in cui la pizza rischiò di sparire.
Il fatto è che le origini della pizza appartengono esclusivamente al proletariato e sono profondamente radicate nella città di Napoli. “La pizza era il cibo preferito dei lazzaroni, i poveri dei quartieri popolari”, dice Angelo Forgione, storico e autore de Il re di Napoli, un racconto sul pomodoro napoletano. Vale a dire che l’impasto, il pomodoro e la mozzarella furono uniti per sempre a Napoli grazie alla buona arte dei “pizzaiuoli” (artigiani della pizza). Rapidamente, la pizza si consacrò come piatto unico che permise ai più poveri di arrivare sfamati a fine giornata.

Grazie a questa stretta relazione tra le persone e il loro cibo preferito nacque il concetto di pizza “a ogge a otto”, che si riferiva alla possibilità di mangiare una pizza e di pagarla a otto giorni. Tale pagamento posticipato permetteva di nutrire gli affamati e attendere che il debitore recuperasse i soldi necessari a pagare: “La pizza e i maccheroni nacquero come cibo di strada. Pietanze a prezzo popolare per la plebe che non aveva cucine attrezzate in casa ed era abituata a mangiava fuori, in piedi”. Lo conferma anche Antonio Mattozzi, autore di Una storia napoletana: “Il sottoproletariato napoletano riuscì a sopravvivere alla fame grazie a due dei principali pilastri della sua gastronomia: i maccheroni e la pizza, entrambi a basso costo e, allo stesso tempo, molto gustosi”. Non a caso, Alexandre Dumas rimarcò il valore simbolico nella prima cronaca gastronomica della pizza:
“A prima vista, la pizza sembra un piatto semplice; dopo averla ben verificata si comprende che è un piatto complicato. (…)È il termometro gastronomico del mercato: aumenta o diminuisce il prezzo secondo il corso degli ingredienti suddetti, secondo l’abbondanza o la carestia dell’annata. Quando la pizza ai pesciolini costa mezzo grano, vuol dire che la pesca è stata buona; quando la pizza all’olio costa un grano significa che il raccolto è stato cattivo (…)”.
Ma la sua umile origine suscitava sdegno e diffidenza tra le classi alte. Senza prove scientifiche, la pizza fu sospettata di trasmettere malattie e non mancò molto perché la sua storia finisse prima del tempo: “La reputazione della pizza fu rovinata dalle diverse epidemie coleriche”, dice Forgione. “Soprattutto quella del 1884, di cui divenne potenziale veicolo di contagio per i più timorosi. Basta leggere quello che scrisse il toscano Carlo Collodi, l’autore di Pinocchio, per comprendere come sui pizzaiuoli di Napoli incombesse disprezzo e come sulla pizza napoletana vi fosse una pesante reputazione di alimento malsano per straccioni a rischio colera:
Vuoi sapere cos’è la pizza? È una stiacciata di pasta di pane lievitata, e abbrustolita in forno, con sopra una salsa di ogni cosa un po’. Quel nero del pane abbrustolito, quel bianchiccio dell’aglio e dell’alice, quel giallo-verdacchio dell’olio e dell’erbucce soffritte e quei pezzetti rossi qua e là di pomidoro danno alla pizza un’aria di sudiciume complicato che sta benissimo in armonia con quello del venditore.
Un attacco classista che ha concentrato tutta l’ira su Napoli per l’immagine che stava proiettando all’estero. Per i politici romani era una vergogna nazionale. Fu allora che Agostino Depretis pronunciò le sfortunate parole che lo perseguiteranno eternamente: “Bisogna sventrare Napoli”. Il ministro lombardo faceva riferimento alla situazione insostenibile quando l’epidemia di colera colpì violentemente la città. Interi quartieri traboccavano di gente che faceva quello che poteva per sopravvivere.
Era quasi inevitabile che la pizza fosse collegata all’epidemia di colera, come se fosse esclusivo veicolo di tutti i mali del popolo. Forgione dice che “Le epidemia di colera colpirono continuamente e pesantemente i napoletani nell’Ottocento. La città era rifornita idricamente da due acquedotti sotterranei dalle cui cisterne si attingeva acqua raccolta in vasche scavate nel tufo, una roccia porosa e quindi non isolante dalle falde infette, dalla quale permeava l’acqua del mare, dove finivano gli scarichi delle fogne statiche. L’epidemia del 1884 flagellò la città con la metà dei decessi dell’intera Italia, e diede alla pizza una cattiva fama. Come dimostra Collodi, i pizzaiuoli di Napoli furono a lungo infamati come pure la pizza napoletana, che era fatta con acqua ritenuta infetta”.
Sorprendentemente, lo snobismo italiano perpetuò il cliché quasi fino ai nostri giorni: “Solo dopo la Seconda guerra mondiale la pizza iniziò a diffondersi in Italia con l’emigrazione dei napoletani nel triangolo industriale del Nord”. Per superstizione o paura, molti accettarono come inevitabile il piano per riurbanizzare l’intera città e partire da zero sembrava l’unica soluzione. Quello che non sapevano Depretis e gli altri politici è che i napoletani avevano una grande capacità di sopravvivere nonostante le condizioni avverse e sottovalutavano la forza unificante della pizza come fattore comunitario: “L’esplosione della pizza, nel secondo Settecento, fu talmente veloce che il tribunale borbonico piazzò delle epigrafi nelle strade centrali per avvertire la cittadinanza che l’esercizio della vendita ambulante dei generi alimentari era d’intralcio al passaggio dei pedoni e delle carrozze, e sarebbe stato punito con precise sanzioni pecuniarie. Una lapide è ancora ben visibile sulla strada di Port’Alba, dove si trovava la prima bottega specializzata in preparazione e smercio di pizze, insomma la prima pizzeria del mondo, che è ancora nello stesso posto”.
Ma cosa c’è di vero in questo legame quasi magico tra prodotto e persone che ha scongiurato la scomparsa della pizza? Per Forgione, “la pizza rimase un’esclusiva pietanza del popolo minuto fino alla fine dell’Ottocento, soprattutto perché la facevano pizzaiuoli insudiciati e si mangiava con le mani. I colti e facoltosi viaggiatori del Grand Tour che la vedevano mangiare in strada la considerarono una singolarità che non avrebbe mai potuto avere particolare successo. Mentre nel Settecento si diffondeva per le vie di Napoli, i ricchi, che avevano cucine e cuochi a disposizione, si indirizzarono verso la nuova cucina napoletana di influenza francese. E così nei palazzi nobili si diffusero i sartù di riso, i gattò e altri piatti dal nome francofono“. Forgione ribadisce che “non c’erano certamente garanzie igieniche sui cibi venduti nelle strade, e questo costituì un limite per la diffusione della pizza”.
In quel momento cruciale della storia di Napoli, si optò per un’operazione di riabilitazione e marketing patriottico con l’approvazione di una nuova legge: “I Savoia non potevano permettersi di trascurare i problemi sanitari della città più popolosa d’Italia, e così il Governo stanziò i soldi per vari interventi, tra cui un più sicuro sistema fognario e un nuovo acquedotto”. La più sicura situazione igienica garantì anche l’igiene alimentare e, di conseguenza, il futuro della pizza: “Da quel momento in poi, i napoletani ripresero a mangiare la pizza senza paura”. E fu allora che, secondo la leggenda, la famosa pizza tricolore fu dedica in onore della regina Margherita. La pizza con pomodoro, mozzarella e basilico, cioè i colori della bandiera italiana. “Il racconto è stato tramandato fino a noi, ma si sa che alla gente piacciono le leggende”.
Questo destino non permise che la diffusione della pizza su tutto il territorio italiano avvenisse molto prima del previsto. Inoltre, la pizza è uscita dalla categoria dei prodotti umili solo negli ultimi anni. “La pietanza fu abbracciata dalle altre classi sociali nel corso del Novecento, ma solo negli ultimi vent’anni ha conquistato la sua completa dignità, fino a prendersi la ribalta dell’UNESCO. Ancora negli anni Ottanta, anche a Napoli essere pizzaiuolo era qualifica modesta. Ora un bravo pizzaiuolo è considerato una vera e propria star della cucina, e anche le persone ricche corrono a mangiare la sua pizza“.
