––– scrittore e giornalista, opinionista, storicista, meridionalista, culturalmente unitarista ––– "Baciata da Dio, stuprata dall'uomo. È Napoli, sulla cui vita indago per parlare del mondo."
Angelo Forgione – Domenica 6 dicembre saranno trascorsi esattamente 61 anni dall’inaugurazione dello stadio di Fuorigrotta, in occasione di uno storico Napoli-Juventus (2-1). Era stato chiamato “Stadio del Sole”, ma proprio nella primavera del ’61, in occasione del diciannovesimo centenario dell’approdo a Puteoli, attuale Pozzuoli, di san Paolo di Tarso nel suo viaggio da Oriente verso Roma, fu firmata la delibera dell’intitolazione all’apostolo che aveva percorso la via che dalla zona flegrea portava alla Città Eterna, compiendo i suoi passi nelle vicinanze del luogo dove era stato costruito lo stadio, ovvero l’attuale via Terracina, in cui ancora oggi sono visibili dei significativi scavi archeologici. A san Paolo sarebbero stati poi dedicati nelle vicinanze anche un parco residenziale e l’ospedale.
Il numero 61 ricorre continuamente in questa storia. Anno 61, anno 1961, i 61 anni dello stadio e pure il 61esimo anno di vita appena iniziato in cui è spirato Maradona, cui venerdì sarà ufficialmente intitolato lo stadio dalla Giunta Comunale e dal sindaco De Magistris. Un atto doveroso perché in quello stadio sono state scritte pagine importantissime della storia del calciatore più grande di sempre fattosi mito con la sua scomparsa.
Don Tonino Palmese, docente di Teologia e di Pedagogia, chiede al Prefetto di Napoli di conservare la vecchia denominazione dello stadio e sposarla alla nuova (“San Paolo – Maradona”), mentre la diocesi di Pozzuoli, competente per il quartiere di Fuorigrotta, ha invece già “abdicato”:
La memoria di un popolo, il nostro, aperto per sua natura alla cultura dell’incontro, si è mantenuta viva per molto tempo prima che lo stadio venisse costruito, e si manterrà viva ancora dopo. È nel cuore, nella coscienza, di ogni abitante di questa terra che essa vive. Ci sembra invece che intitolare lo stadio a Diego Armando Maradona possa oggi essere un segno di richiamo ai valori fondanti lo sport, facendo riferimento a uno dei suoi più grandi rappresentanti, e a una passione che dall’ambito puramente sportivo deve diffondersi in tutto il tessuto sociale, politico, economico della nostra terra flegrea, con particolare attenzione ai più bisognosi secondo quella generosità che fu anche del giocatore argentino.Ben venga, dunque, l’intitolazione a Diego Armando Maradona del principale impianto sportivo della nostra città, se questo aiuterà la crescita umana e sociale della nostra terra purché non si perda la memoria delle nostre radici e ci siano iniziative culturali significative che mettano in evidenza i fondamenti greco-romani e cristiani della storia del nostro territorio. Senza radici profonde dove andiamo?”
San Paolo portò l’evangelizzazione in Occidente e dalle sponde flegree iniziò la sua diffusione. Il problema, dunque, è studiarla la storia, e chissà quante persone, fino ad oggi, abbiano approfondito il perché lo stadio di Fuorigrotta fosse stato intitolato a san Paolo.
Ne abbiamo chiacchierato a La Radiazza di Gianni Simioli (Radio Marte) con monsignor Gennaro Matino, docente di Teologia pastorale e scrittore.
Angelo Forgione – Oggi ho partecipato per invito alla riunione della Commissione Toponomastica del Comune di Napoli in cui si è discusso dell’intitolazione dello stadio cittadino a Diego Armando Maradona. La Commissione, all’unanimità, ha approvato il documento che propone il toponimo secco “Stadio Diego Armando Maradona”. Ho proposto alla presidente, Laura Bismuto, e all’intera Commissione, nonché al Sindaco e all’Assessore allo Sport, di scrivere la parola stadio inserendo l’emblematica sigla D10, ovvero “StaD10 Diego Armando Maradona“, e di provvedere anche a un contest per una realizzazione grafica dell’idea. Gli esiti della riunione di stamattina passano ora alla Commissione Tecnica presieduta dal Sindaco, che si riunirà venerdì, per procedere poi con delibera di Giunta comunale e Prefetto.
Tre minuti a La Radiazza (Radio Marte) per descrivere il Maradona napoletano, immediatamente divenuto tale, non appena sbarcato nel paese in cui aveva cercato riparo da una Spagna ostile verso i sudamericani. Lui, giovane argentino catapultato in Europa dalla sua classe, non immaginava che in Italia avrebbe dovuto fare i conti con le stesse pulsioni avvertite in Catalogna. Capì che i napoletani erano il popolo da proteggere. Capì che Napoli era Buenos Aires.
Tutto quello che abbiamo fatto a Napoli lo sappiamo voi ed io. Sappiamo che abbiamo fatto tutto contro tutti e questo non si può cancellare. Io sarò sempre, sempre, Diego il napoletano.
Angelo Forgione – Napoli, l’Argentina, il Calcio e chi l’ha vissuto e amato per quel che era passano con dolore immenso al tempo senza Diego. Mi passano negli occhi e nelle orecchie tanti bei momenti degli anni ruggenti, ma ho sorriso al pensiero di quelli in cui lui faceva un semplice dribbling in mezzo al campo, a lasciare sul posto l’avversario attonito, e noi, sugli spalti, tutti uniti in quell’improvviso e collettivo sussulto di stupore. «ua’ e che ha cumbinato». Poi tutti sorridenti, a guardarci per condividere la gioia, invece di osservare l’esito dell’azione. Era un momento che si ripeteva spesso durante la tensione delle partite, che così si stemperava. E lo ricordo più del visibilio dopo i suoi incredibili goal, perché era l’emozione inaspettata, da teatro più che da stadio. Era la gioia pura del bambino in ognuno di noi, rapito dall’illusionismo senza trucco, diversa dall’estasi del tifo. Quanta gioia e spensieratezza ci ha regalato negli anni della Napoli che soffriva per le ruberie del post-terremoto, del declino del Banco di Napoli e delle acciaierie di Bagnoli. Se era sbarcato da noi, nella periferia del grande calcio, era stato proprio per volontà scientifica della politica. Troppa tensione sociale, troppa disoccupazione, troppa camorra. Panem et circenses, e noi ce lo siamo goduto tutto quel fenomeno circense che ci ha deliziato con i suoi numeri e ci ha condotto ai trionfi come mai era accaduto. Lui è calato a Napoli senza conoscerla e si è sentito napoletano dentro. Perché era esattamente come Napoli, discriminato e maltrattato, usato e tradito. Felice e spensierato alla domenica per una palla e poi sofferente tutti i giorni per i suoi problemi. Dentro quello stadio non entravano né i problemi e né i cattivi pensieri. Era il tempio della felicità e della spensieratezza attorno alla fedele amica palla, che assecondava sempre la sua volontà. Da oggi quel tempio porterà giustamente il suo nome. Dovrà fargli posto un illustre apostolo che, navigando verso Roma, era sbarcato sulle coste flegree, ma sarà contento anche lui di lasciare al legittimo proprietario quell’arena. In fondo si passa a furor di popolo da un santo a D10S. Ho visto Maradona. E che privilegio! Ma Maradona non muore. Il suo mito sopravviverà per sempre. Sempre! Grazie di tutto, campione mio. Viva il Re!
Angelo Forgione – Che nazional questione il match fantasma Juventus-Napoli! Che festival della partigianeria! E che superficialità di analisi! Da saggista, da giornalista, studiando il calcio e scrivendone un libro, ho imparato a distaccarmene e ad analizzarlo senza metterci il cuore, perché il calcio-business di cuore non ne ha, e senza metterci l’ancor più dannosa pancia, perché quella è predominante nell’orbita esterna del calcio-business e conduce facilmente nel vortice perverso del giornalismo sportivo condizionato dal tifo, anche quello nazionale, che in questi giorni si è nuovamente smascherato nel tentativo di capire se il Napoli fosse stato davvero obbligato dall’ASL o se avesse recepito la decisione con piacere per sottrarsi al confronto con la Juventus sul campo. Complice al sorgere del dubbio, De Laurentiis è certamente colpevole di aver palesato le simpatie reciproche con il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, e a questo punto il dibattito investe gli evidenti e noti errori di comunicazione del patron azzurro.
Non arrivo in ritardo ad analizzare la vicenda, tra l’altro dopo essermi silenziato volontariamente durante lo tsunami mediatico sollevato dalla mancata partenza degli Azzurri alla volta dell’Allianz Stadium per evitare di esprimermi senza le necessarie conoscenze. In verità sono pure arrivato in anticipo, scrivendo proprio sabato mattina, ben prima del caos scatenato dall’intervento dell’ASL di Napoli, che la partita andava rinviata a prescindere per la complicata evoluzione dell’eventuale incubazione del Covid-19 in seno alla rosa degli Azzurri dopo il match contro il Genoa. Ne andava della sicurezza della Juventus.
Il caso Genoa era esattamente il monito che, dal punto di vista sanitario, metteva a rischio la Juventus e tutti gli individui che il Napoli avrebbe incontrato nella sua trasferta. Dunque, sulla scorta di quanto accaduto alla squadra ligure nei giorni precedenti, l’ASL di Napoli ha disposto l’annullamento della fallace quarantena “soft” per gli Azzurri in odor di allargamento del contagio. Il campanello d’allarme è stata la positività di Zielinski, seguita da quella di Elmas. E qui bisognerà appurare se il Napoli abbia osservato il Protocollo alla lettera, come ha insinuato Andrea Agnelli, o se lo abbia disatteso lasciandoli liberi di tornare ai loro domicili senza comunicarli all’ASL. È questa la vera partita che il Napoli giocherà in tribunale. La dottoressa Maria Rosaria Granata dell’Asl Napoli 2 Nord, intanto, all’emittente campana TeleclubItalia, ha detto che il Napoli non ha sbagliato nulla. I tamponi effettuati venerdì e sabato, in ogni caso, fissavano la situazione del momento, non certo chiudendo la “finestra”. Così si chiama il periodo di incubazione di un virus, durante il quale si può risultare negativi oggi e positivi domani. È esattamente quello che era accaduto al Genoa, sceso a Napoli senza due positivi e poi risultato già dal giorno seguente il match in piena espansione di un “cluster”, cioè di un gruppo allargato di positivi. Ed è proprio questo il passaggio che non riescono ad afferrare coloro che chiedono perché il Napoli sia stato fermato e il Genoa non lo era stato, o, peggio ancora, perché il Napoli verso Torino sì e la Salernitana, per esempio, in direzione di Verona no pur con due positivi appiedati. L’ASL di Napoli ha valutato che nella rosa del Napoli, verosimilmente contagiata dal cluster genoano (non conclamato la domenica precedente ma nei giorni successivi), potesse essere in corso l’espansione dei contagi e il potenziale cluster partenopeo avrebbe potuto contagiare la rosa juventina. Chiamasi prevenzione, che è poi la parola d’ordine del mondo d’oggi, all’altare della quale si sacrificano intere economie. Effetto domino scongiurato dall’ASL napoletana, e ogni persona di buonsenso penserebbe che la prudenza era più che giustificata. Non i dirigenti della Juventus, che si sono inopportunamente precipitati a informare che i loro calciatori avrebbero rispettato l’appuntamento di domenica sera, mostrando di fregarsene del pericolo che avrebbero incontrato quelli del Napoli, di fregarsene della pandemia che riprende quota. Se ne sarebbero fregati di certo dopo un possibile contagio, magari con un Ronaldo positivo, e allora ne avremmo viste delle belle. Ma l’ASL di Napoli ha evitato il problema, salvaguardando indirettamente anche il capitale juventino, e invece i vertici bianconeri hanno di fatto urlato al mondo che puntavano al 3-0 a tavolino, supportati dalla Lega con la conferma della data e dell’orario del match, così commettendo, secondo alcuni Giuristi, un illecito penale per il sollecito al Napoli di contravvenire alle disposizioni dell’ASL, che equivale all’istigazione a delinquere.
Manca al dibattito l’unica certezza essenziale: la Sanità, in Italia, è di competenza regionale e le ASL, come opportunamente rileva lo stesso Ministero della Salute, hanno tutte le competenze in materia di isolamento fiduciario e di gestione dei casi e dei focolai. Il Protocollo di cui tanto si discute, adottato dalla Serie A per continuare a giocare ad oltranza e non avere grane con i dirigenti delle pay-tv (si pensi al danno televisivo per la mancata disputa di un match di cartello come Juventus-Napoli), si rifà al placet del Ministero della Sanità, il quale si limita a legiferare ma non a gestire l’emergenza sanitaria, cosa che tocca proprio alle ASL su base territoriale. Qualcuno dice che l’ha firmato anche il Napoli quel Protocollo, e infatti ha firmato un Protocollo che, in tema di gestione di positività, contempla un’alzata di mani di fronte a “provvedimenti delle Autorità statali o locali”. C’è poco da fare: se le varie ASL intervengono, le partite non si disputano. Punto! L’ASL di Napoli è intervenuta, e bisognerà capire perché. Esclusivamente per evitare che il Napoli contagiasse altri individui o anche perché il Napoli aveva infranto il Protocollo dopo la rilevata positività dei suoi calciatori?
Nel gran caos delle mille voci, il festival del giornalismo tifoso non si arresta, e solo stamane il quotidiano sportivo nazionale di Torino titola in prima pagina “Tutti contro De Laurentiis”. Tutti chi? Qualche presidente di club della Serie A in difesa dei propri interessi e del proprio club che è alla canna del gas e ha bisogno dei diritti televisivi come l’ossigeno? Magari sì, ma di certo non sono contro l’ASL di Napoli gli scienziati che di Coronavirus e prevenzione si occupano dalla prima fila. L’onnipresente infettivologo Massimo Galli, dal suo privilegiato osservatorio di Milano, ha ammonito che non è responsabile non accettare le decisioni delle autorità sanitarie, e che il Napoli, partendo per Torino, avrebbe rischiato una denuncia penale. L’oncologo Paolo Ascierto, persino juventino di fede e sannita di stanza a Napoli, ha bacchettato la Lega per l’atteggiamento irresponsabile assunto rispetto alla partita, che a suo dire avrebbe messo a rischio i giocatori della Juventus e rischiato di attivare un altro focolaio. Morale della favola: l’ASL di Napoli blocca il Napoli, i luminari della medicina plaudono alla misura ma certa stampa sportiva di parte (torinese) mette il presidente del Napoli alla gogna.
Un gradino sotto c’è l’opinione dei tifosi schierati sui siti e nelle emittenti televisive locali, come tale Marcello Chirico, tifoso juventino nelle vesti di giornalista de ilbianconero.com, che parla di “sceneggiata degna di loro”, i napoletani. Sembra di stare al bar. La sceneggiata c’è stata, sì, e l’ha fatta la Juventus, ma le è riuscita malissimo, annunciando senza alcuna necessità di farlo che si sarebbe trovata il giorno dopo allo stadio, puntuale all’ora della partita, poi pubblicando la formazione scelta dall’allenatore quando anche gli australiani, dall’altra parte del globo, sapevano che il Napoli non era partito per Torino, e infine lasciando che alcuni tifosi invitati presenziassero sugli spalti (destando la mal celata ilarità degli stessi calciatori bianconeri affacciatisi sul campo) affinché le telecamere dimostrassero che il mondo juventino è responsabile, che la Juventus è una società seria “che rispetta i regolamenti”, come ha sostenuto il presidente Andrea Agnelli suscitando le grasse risate di tutti i non juventini d’Italia davanti alla tivù, memori del doping prescritto, delle sentenze di Calciopoli, dei due scudetti in più ostentati nel salotto di casa, dei rapporti con la tifoseria mafiosa, degli esami d’italiano taroccati a Perugia, etc. Eppure la Juve avrebbe potuto zittire per una volta tutti i suoi tanti detrattori, dichiarando che non le sarebbe piaciuto vincere a tavolino e che il competitivo Napoli intendeva batterlo sul campo più prima che poi. Sarebbe stata una perfetta dimostrazione di vero stile, e invece ancora boriosa tracotanza. Forse il Napoli, alla fine di tutta questa storia, subirà penalizzazione in classifica, o forse no, ma una cosa è certa: se De Laurentiis, con i suoi errori di comunicazione, ha insinuato il sospetto di aver sollecitato e accolto favorevolmente il provvedimento dell’ASL, Agnelli ha sicuramente voluto spazzare via ogni dubbio sulla Juventus, che è sempre la Juventus. Esemplare per lui e per tutti gli juventini. Antipatica, sgradevole e urticante per il resto del mondo.
Angelo Forgione – Sì, lo so, ci risiamo. Al primo giorno d’agosto io continuo ad avvertire che il Calcio Napoli è nato nell’agosto del 1922 e il mondo azzurro continua ovviamente a festeggiare la data convenzionale del 1 agosto 1926. Siamo alle 94 candeline, ufficialmente, ma in realtà gli anni sono 98.
Club nato come Internazionale Naples Foot-Ball Club 1922, abbreviato in Internaples, e poi semplicemente ridenominato Associazione Calcio Napoli nell’agosto del 1926 per compiacere il regime fascista con una gradita italianizzazione. Nel giugno del 1964 il cambio in Società Sportiva Calcio Napoli.
D’altronde, con la Carta di Viareggio emanata il 2 agosto 1926, fu l’Internaples ad essere ammesso dal Coni fascista alla Divisione Nazionale. Se l’A.C. Napoli fosse stata fondata “ex novo”, non avrebbe potuto partecipare al massimo campionato ma sarebbe partita dalla Terza Divisione Campana.
Il facoltoso Giorgio Ascarelli era già presidente dall’agosto del 1925, quando la precaria situazione finanziaria dell’Internaples aveva convinto Emilio Reale, primo presidente, a cedergli il club così da garantire più sicurezza economica al club.
Che poi, il cambio di denominazione non avvenne neanche in quel primo giorno d’agosto ma nel venticinquesimo, come testimonia un articolo de Il Mezzogiorno del 26-27 agosto 1926, dove si informava che l’assemblea dei soci del 25 agosto aveva formalizzato un cambio di nome: da Internaples Foot-Ball Club, appunto, ad Associazione Calcio Napoli.
Quella riunione non si tenne nemmeno al ristorante D’Angelo, come qualcuno narra, ma nella sede sociale di piazza Carità, presso il palazzo Mastelloni. L’insegna dell’Associazione Calcio Napoli è ben visibile in una foto d’epoca dello slargo, in cui si trovava il monumento a Carlo Poerio poi spostato nel 1939 in piazza San Pasquale a Chiaia.
Non si comprende da dove sia venuta fuori la data del 1 agosto, riferendosi peraltro a una fondazione che non fu. Facile che qualche storico/giornalista abbia commesso per primo l’errore, e tutti gli siano andati dietro acriticamente.
Il fatto è che una narrazione imprecisa, ripetuta continuamente, diventa ufficiale, come dimostra la falsa datazione della nascita della pizza margherita.
Ma voi non date troppo conto alle mie ricostruzioni e fate gli auguri alla SSC Napoli, che sempre in agosto fu. L’importante, alla fine, è che il club scalci come il Corsiero del Sole, il suo primo simbolo, che poi è quello della città sin dal XIII secolo: il nobilissimo cavallo imbizzarrito significante l’indomito e sfrenato popolo napoletano.
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per approfondimenti: Dov’è la Vittoria, A. Forgione (Magenes)
Angelo Forgione – Il Napoli vince la Coppa Italia della “rinascita” ma scoppiano le sterili polemiche per i festeggiamenti dei tifosi nelle strade del capoluogo campano. Strumentali quelle di Matteo Salvini, che tuona dopo aver portato migliaia di persone in piazza a Roma per la sua propaganda di centrodestra, per non parlare dei gilet arancioni di Pappalardo a Milano e senza dimenticare gli assembramenti per le celebrazioni repubblicane del 2 giugno, per l’inaugurazione del ponte di Genova, per l’arrivo a Ciampino di Silvia Romano e via discorrendo. E ora ce la vogliamo prendere con una folla di tifosi festanti? Le folle sono veementi, indisciplinate, e non si arginano (se non con l’Esercito e la Polizia antisommossa), semmai si prevengono, magari con appelli ripetuti. Non ne è stato fatto alcuno prima della finalissima di Roma. Nessuno, nei quattro giorni che hanno preceduto il match, ha sensibilizzato gli juventini d’Italia e i napoletani di Napoli a festeggiare in casa la vittoria, e non veniteci a dire che era implicito. Non lo era, perché il lockdown è finito da un pezzo.
In tempo di strette misure del calcio anticovid, nel quale nessuno può accedere agli spalti degli stadi, il ministro dello sport Spadafora ha suggerito che, prima di riprendere il campionato, si ripartisse con la Coppa Italia in palio per le quattro squadre più tifate d’Italia, così da creare audience televisiva e interesse mediatico. La competizione della ripresa ha così assunto il valore di un torneo post Covid d’élite, pronto a far esplodere l’eccitazione sopita dei tifosi. Nessuno ha pensato alla conseguenza di far disputare subito la finale della Coppa Italia, che invece, per evitare il rischio di affollamenti in tempo di verifica della contagiosità del virus, sarebbe stato opportuno posticipare il più possibile. Anzi, per non correre rischi del genere, oggi o tra un mese e mezzo, non si sarebbe dovuto proprio riprendere. Si è ripreso per salvare capra e cavoli del calcio sul lastrico? Bene. Il destino ha voluto che vincesse il Napoli, i cui tifosi non sono certo freddi e nordici, e vivono nel Sud a basso contagio, in una città che l’emergenza la vive solo di riflesso e che paga pesantemente gli errori altrui. Ed ecco che è venuta fuori la prevedibile festa-sfogo, perché quella dei napoletani era esattamente probabile, e sono saltate pericolosamente tutte le norme di distanziamento sociale. Era meglio evitarlo in qualche modo, ma da lassù si è pensato solo a tamponare le perdite del calcio e agli ascolti televisivi, “colorando” gli spalti tristi dell’Olimpico di tifosi virtuali ma ignorando che esistono i tifosi in carne e ossa, senza i quali non esiste il calcio. Magari qualcuno pensava di risolvere il problema riempiendo anche le strade di Napoli di scintillanti e algidi pixel.
Angelo Forgione – Che sciagura il Coronavirus! E alla fine, obtorto collo, c’è pure da dare ragione al fanatico Vittorio Feltri, che il 21 febbraio, al principio del disastro lombardo, scrisse su twitter: “Da lombardo devo ammettere che invidio i napoletani che hanno avuto solo il colera, roba piccola confronto al Corona”. La situazione poco chiara, coniugata al suo proverbiale “pregiudizio” anti-meridionali, aveva fatto pensare alle solite offese, al solito luogo comune del colera a Napoli. E invece, a oltre tre mesi da quell’allarme, il colera del 1973 nel Sud Italia, con focolaio vesuviano, appare davvero un fiammifero al cospetto dell’immenso rogo virale del 2020 che ha colpito pesantemente il Nord e particolarmente la Lombardia. In concreto, il colera causò soli 24 morti e 277 infettati tra Napoli, Caserta, Bari, Taranto, Foggia, Lecce, Brindisi e Cagliari, con qualche caso anche a Roma, Pescara, Firenze, Bologna e Milano. Numeri irrilevanti al cospetto del Covid-19, che ad oggi, a macabri conteggi ancora in corso, ha causato in Italia 33.415 decessi e 233.019 casi ufficiali. La Lombardia è evidentemente la regione più colpita, con 16.112 morti, la metà dell’Italia intera, e 88.968 contagiati certi. E come fai a non dare ragione a Vittorio Feltri?
Poi, allo stesso Feltri in avanti, è nato una sorta di revanscismo lombardo opposto a una certacampagna discriminatoria contro la Lombardia e Milano che non c’è mai stata. Una narrazione che ha francamente stufato! Una mera questione sanitaria tradotta da qualcuno in nuova discriminazione al contrario. Ma quale discriminazione? Non pare affatto che esista un sentimento d’odio verso una popolazione che merita solidarietà piena per i lutti subiti e originati dagli errori di qualche incapace nella stanza dei bottoni. Una volta che la Lombardia se la passa male per colpe della macchina politico-industriale salta fuori la storia dell’accanimento contro gli invidiati primi della classe. È piuttosto un’invenzione, un certo piagnisteo figlio di un fastidio intollerabile di chi lo prova, un peso insostenibile di una croce che qualcuno animato da un complesso di superiorità mai si sarebbe aspettato di dover portare sulle spalle, e non vuole affatto portarlo, per aver costretto l’Italia intera al blocco totale e aver messo l’economia del Paese in ginocchio.
Chi parla di discriminazione verso i lombardi e loro vicini non sa cos’è la discriminazione. Io che sono napoletano lo so, ma evidentemente non tutti sono al corrente di cosa è accaduto ai napoletani e ai meridionali durante e dopo l’epidemia di colera scoppiata a fine agosto 1973 a Napoli, con altri focolai a Bari, Taranto e Cagliari. Forse servirà un po’ a tutti riavvolgere il nastro con pazienza per mettere in parallelo i due momenti.
I provvedimenti restrittivi all’arrivo del colera furono applicati solo nelle regioni “colerose”: rinvio dell’anno scolastico a novembre inoltrato, chiusura dei cinema, dei teatri e delle università. Per accedere alle Facoltà del Centro e del Nord, gli studenti provenienti dalle Regioni del Sud, anche quelle in cui l’epidemia non c’era, furono obbligati a presentare il certificato della vaccinazione anticolerica, e nessuno protestò per questo.
Inviati di importanti quotidiani del Nord, in un tempo in cui internet era solo fantascienza e non c’erano i programmi di Barbara D’Urso, si sbizzarrirono a descrivere Napoli e Bari con esagerazioni, fake-news e spesso con accenti razzisti.
Spinto dalla Regione Liguria, il Genoa chiese al Calcio Napoli di non recarsi a Genova per una partita di Coppa Italia. La Lega invertì i campi ma il Genoa si rifiutò di scendere a Napoli, così come il Verona evitò di recarsi a Bari, a costo di perdere a tavolino e prendersi delle penalizzazioni. Il capitano degli Azzurri, Antonio Juliano, napoletano purosangue, gridò tutto il suo sdegno alla stampa: “Ma cosa credono quelli del Nord? Hanno paura d’infettarsi giocando al calcio con noi? Sappiano che d’ora innanzi saremo noi a non voler andare più al Nord. Questa discriminazione ci umilia come uomini e specialmente come sportivi”. Chi viaggiava da Sud a Nord per lavoro veniva tenuto a distanza, e neanche le mani gli si stringeva. Qualcuno si vide le porte degli alberghi chiuse in faccia per volontà di lombardi e piemontesi, o anche quelle di casa propria dai parenti nel caso di impavidi settentrionali reduci da viaggio di lavoro nelle regioni del contagio. Psicosi ben più eccessiva rispetto a quella da Covid-19, visto che la trasmissione della colera non avveniva per contatto sociale, e non c’era bisogno di mascherine e altri accorgimenti. Ci si poteva infettare ingerendo acqua o alimenti contaminati dalle feci di individui infetti e la paura del prossimo era totalmente immotivata e dettata da ignoranza e pregiudizio.
Il contagio da Covid-19 è invece diretto, per via orale, e contraddistingue un virus con altissima carica virale, quindi con alta trasmissibilità. Tutto il contrario del colera, e i numeri snocciolati lo dimostrano. Ed è per questo che chiedere sicurezza non è discriminare, non è voler ghettizzare una regione che un problema sanitario più ampio di altri ce l’ha, e non è ancora risolto, a quattro mesi dai primi casi. Un mese e mezzo, invece, ci vollero nel 1973 per risolvere l’epidemia di colera nella città più colpita, Napoli (a Barcellona in due anni).
Le cause del bubbone sanitario lombardo sono evidentemente dovute a ritardi ed errori governativi, mentre quelle dell’infezione del 1973 al Sud furono individuate in un’abbondante partita di cozze giunta sui mercati del Mezzogiorno dalla Tunisia, ascrivibili alla posizione geografica e non alle condizioni igienico-sanitarie e socioeconomiche, sulle quali invece si fece leva per discriminare. Nessuna colpa fu da assegnare alle città e ai cittadini meridionali ma nessuno se la prese con il Nordafrica. No, la colpa fu comunque lasciata ai napoletani, che mangiavano anche le cozze del loro mare, nelle quali non fu trovato alcuna traccia di vibrione. Eppure gli esperti, informati dall’OMS, sapevano che l’epidemia da vibrione “El Tor”, nell’ambito della settima pandemia, era partita dodici anni prima dall’Indonesia e stava transitando nel Mediterraneo. Sarebbe giunta fino in America nel 1991 e ancora oggi è in circolo. Altro che colpe napoletane!
La scorretta informazione contribuì a far crollare il turismo e le conseguenze socio-economiche a Napoli furono pesantissime, con un meno novanta percento di presenze, recuperate solo a partire dal G7 del 1994, cioè ben ventun’anni più tardi.
Le squadre di calcio, compreso che l’epidemia non era tale bensì davvero poca cosa, tornarono presto a giocare contro il Napoli ma il colera sopravvisse nei cori e negli striscioni contro i napoletani, che non sono ancora finiti a circa cinquant’anni di distanza. Anzi, prima della sospensione del corrente campionato, proprio i tifosi bresciani, ignari di ciò che stava per accadere alla loro comunità, gridavano ” napoletano coronavirus,” mentre i napoletani, per tutta risposta, rispondevano con un eloquente “Nelle tragedie non c’è rivalità, uniti contro il Covid-19“. All’esterno dello stadio Meazza di Milano, qualche giorno prima, era apparso nottetempo lo striscione “Napoletani figli del colera, vi mettiamo in quarantena“. E come dimenticare le mascherine indossate dai tifosi milanisti a Napoli all’epoca dell’emergenza rifiuti, che poi era figlia di un patto scellerato tra camorra e imprenditoria settentrionale?
L’apertura della Lombardia, all’evidenza dei numeri, è un rischio per tutti che appare dettato da una sorta di sudditanza nei confronti di un territorio con un Pil importante che sa di poter puntare i piedi. Le pacate minacce del sindaco Sala ai sardi sono un segnale chiaro in tal senso. E però, a rivedere quel che successe al tempo del colera, con cicatrici ancora visibili sulla pelle dei napoletani, chissà come verrebbero trattati oggi i campani se al posto scomodo della Lombardia vi fosse la loro regione.
E qualcuno, in Pianura padana, pur soffre di discriminazione. Piuttosto, che questa storia cancelli mezzo secolo di offese ingiustificate ai napoletani e migliori tutti. Che dite, possiamo avere speranze?
Maurizio Pistocchi (Sport Mediaset) legge e rileggeDov’è la Vittoria, e dal suo profilo twitter pone ai followers la questione meridionale nel calcio.
Dal 1898 ad oggi sono stati assegnati 115 scudetti. Solo 8 sono finiti al Centro-Sud, 5 a Roma,2 a Napoli, 1 a Cagliari. 78 scudetti sono divisi tra Torino (42) e Milano (36), 87 titoli tra Piemonte (51) e Lombardia (36). Esiste una questione meridionale anche nel calcio? pic.twitter.com/iPm3kxnOmX
Angelo Forgione – Un po’ di correttezza linguistica: i neologismi “sarrismo” e “sarrista” di Treccani non hanno più attinenza con l’identità napoletana. Ho suggerito all’Istituto enciclopedico di rivedere le due voci per opportunità ormai conclamata dopo l’ammissione di Maurizio Sarri di sentirsi ormai “Gobbo”, ovvero parte integrante dell’identità juventina perché i napoletani lo hanno fischiato e i fiorentini hanno insultato sua madre («e quando sei così odiato dall’esterno poi ti attacchi all’interno, e questo ti porta a innamorarti della tua realtà, a diventare Gobbo»).
– Lo stesso Istituto, lo scorso giugno, ovvero al passaggio di Sarri dal Chelsea alla Juventus, mi aveva notificato che l’identità napoletana incarnata nell’allenatore era “un elemento tuttora ben presente nella memoria collettiva, perlomeno in quella degli appassionati di calcio” ma che “il giorno in cui i lessicografi percepiranno che in tale memoria si è allentato il legame tra il segno linguistico e la parte di significato pertinente alla realtà locale napoletana, allora – secondo noi – sarà lecito riflettere sull’opportunità di modificare la definizione” (quella stessa sera ne nacque una polemica televisiva tra me e Mughini, ndr). Con un Sarri che si è detto legato alla juventinità di parte era ormai opportuno asciugarne il credo calcistico sradicandolo dall’identità di un popolo che è agli antipodi da chi si definisce “Gobbo”. La Sacra Rota ha definitivamente annullato il matrimonio. Amen!