La “Piedigrotta” silenziosa

Angelo Forgione – Era la festa di Napoli. Non ne resta che il ricordo e la sola celebrazione religiosa, osservata esclusivamente dai devoti della Madonna di Piedigrotta, venerata dai pescatori e dal popolo di Mergellina dal momento dell’apparizione a tre religiosi napoletani avvenuta nel 1353.
Una storia dalle origini antichissime e precristiane, che qualcuno riconduce ai riti orgiastici in onore di Priapo, ma che in realtà celebrava i riti mithraici che magnificavano i misteri del Sole. Erano lascito dei Greci nella Napoli dei Romani che conservava usi e costumi delle origini, e si tenevano nella Crypta Neapolitana, la galleria nella collina di Posillipo scavata nel I secolo a.C. per facilitare la comunicazione diretta fra Neapolis e Puteolis.

Dal medioevo, si narra fantasiosamente che il tunnel sia stata realizzato da Virgilio in una sola notte, facendo ricorso a quella magia che gli si attribuiva e che lo rese patrono di Napoli prima di San Gennaro. Proprio nei pressi dell’ingresso della Crypta si trova quella che ancora oggi è identificata dalla tradizione come la tomba di Virgilio, ma che in realtà è un simbolico cenotafio.

Che la cavità posillipina facesse funzione di mitreo è fortemente indicato dal ritrovamento, avvenuto nel XVI secolo, di un bassorilievo del culto di Mithra, datato tra la fine del III e l’inizio del IV sec. d.C., e oggi esposto al Museo Archeologico Nazionale, sul quale sono riportate le simbologie poi riprese dal Cristianesimo, responsabile probabilmente di avere raccontato dei riti orgiastici in onore di Priapo per sovrapporre alla festa la simbologia del Santuario di Piedigrotta, edificato nel 1353 davanti la Crypta, e dell’apparizione della Madonna ai tre religiosi, in onore della quale la festa religiosa fu fissata l’8 settembre, giorno della Natività della Beata Vergine Maria (concepita senza peccato originale l’8 dicembre). Forse per opporsi a quel luogo di baccanali orgiastici pagani, l’orientamento della chiesa fu invertito nel Cinquecento, in piena Controriforma, con la facciata rivolta in direzione opposta all’ingresso della Crypta.
In realtà, dopo le processioni in onore di Mithra, non era stato Priapo ad attirare i napoletani nella cavità posillipina ma Dioniso, al quale, nel mondo antico greco che aveva dato origini a Napoli, erano dedicate le feste di vendemmia d’autunno. Pare che le danze in onore della divinità del vino mostrassero gli stessi movimenti della tarantella, più tardi inventata e adottata nella Festa.

Le trasformazioni della Piedigrotta si sono ripetute nei secoli, tra sovrapposizioni religiose ma anche dinastiche operate dai vari regnanti che hanno cavalcato la Festa. Oltre ai canti, le processioni si arricchirono di carri e di elementi caratteristici che con il passare del tempo sono stati sottratti al popolo, il vero protagonista, divenuto man mano spettatore.
La fama internazionale fu raggiunta nel Settecento, dopo la vittoria di Carlo di Borbone a Velletri contro gli austriaci nell’agosto del 1744 con cui fu blindata l’indipendenza di Napoli. La data dell’8 Settembre fu resa Festa nazionale del Regno di Napoli e del suo esercito e la Madonna di Piedigrotta, il simbolo religioso della festa, fu innalzata alla venerazione borbonica della Capitale. La “Piedigrotta” divenne l’appuntamento di Napoli per stringersi attorno alla Nazione Napolitana con una celebrazione ricca di sfarzose parate militari e cannonate dai cinque castelli cittadini. Carlo di Borbone volle che diventasse un Carnevale celebrato con sfilata di carri più ricchi di quelli allestiti sobriamente coi prodotti della terra dagli abitanti delle zone limitrofe che confluivano a Napoli anticamente. Dovevano essere preceduti da bande musicali e ritraenti personaggi della storia e della tradizione napoletana quali san Gennaro, la Sirena Parthenope, Pulcinella, Masaniello ed altri, che dovevano procedere in direzione del Palazzo Reale, nei cui pressi era allestito il palco reale, meta di un rituale “inchino”. Gran protagonista, come detto, era il popolo, invitato a cantare, a fare baccano e a unirsi alla nobiltà e alla corte nei festeggiamenti per le strade, insieme ai viaggiatori che giungevano per toccare con mano ciò di cui si sentiva parlare in tutt’Europa. La “Piedigrotta” divenne la festa più famosa del Continente e Napoli, anche durante la Festa, fu meta dei ricchi turisti del Grand Tour a cavallo tra Sette e Ottocento che intendevano toccare con mano quell’atmosfera unica di cui si sentiva parlare in tutte le capitali.

La gara canora di Piedigrotta fu ufficialmente inaugurata l’8 settembre del 1839, con il trionfo di Te voglio bene assaje. E però, qualche anno più tardi, dopo l’unità d’Italia, la festa pagò il doppio significato religioso e dinastico borbonico. Garibaldi entrò a Napoli il 7 settembre del 1860, e il giorno seguente, in piena Festa, si recò a far visita alla Madonna di Piedigrotta attraversando in parata la Riviera di Chiaia, accolto sinistramente da un tremendo temporale che inzuppò il corteo, nel quale marciavano anche il ministro voltagabbana Liborio Romano e tutti i “compagnoni” (camorristi ante litteram) a protezione del Generale.

La Festa fu sospesa nel 1862 dal nuovo potere massonico, a seguito del decreto nazionale di soppressione di tutti i conventi e la confisca dei beni mobili e immobili della Chiesa, compreso il santuario di Piedigrotta.
Ripartì diversi anni più tardi, ma andò incontro al suo declino con l’avvento del fiorente business delle industrie discografiche di fine Ottocento, convogliata in una preziosa rassegna di canzoni che però sostituirono i canti del popolo. Mentre guadagnava il suo grande patrimonio musicale, Napoli perdeva definitivamente la vera essenza della Piedigrotta. I canti popolari, anticamente eseguiti nei pressi della Crypta, divennero canzoni, eseguite in piazze e spazi più ampi. Il popolo neanche sfilava più, avendo perso il suolo ruolo di attore per assumere quello di spettatore.

Con la nascita del Festival della Canzone Napoletana, nel 1952, anche la rassegna canora di Piedigrotta declinò, insieme alla Festa che l’industria discografica aveva conquistato.
La sospensione del 1982 seguì ai disagi del terremoto d’Irpinia, anche se la sfilata dei carri fu comunque sovvenzionata da un’associazione privata per qualche anno ancora.
Dal 2007, sotto l’amministrazione Iervolino, gli ultimi discutibili tentativi di riaccendere l’appuntamento settembrino. Tentativi definitivamente abortiti nel 2012 dall’amministrazione De Magistris, con l’evento ormai sradicato dall’identità e dalla memoria dei napoletani.

È arrivato “Napolitiamo”

Angelo Forgione – Una vera fatica. È il mio saggio storico-didattico sul napoletano, lingua d’arte di reputazione internazionale, con cui è stata prodotta una vasta tradizione di scrittura colta e sono state espresse alcune forme artistiche di Napoli che nessun’altra città vanta tutte insieme, dalla musica al teatro, dalla poesia al cinema.

Lingua romanza come l’italiano, figlia del latino ma porosa come l’intera cultura partenopea, in cui ne convivono armoniosamente diverse altre. Idioma con una storia legata a specifici fattori politici e culturali che nei secoli hanno esercitato la loro azione in una città che nel periodo della “questione della lingua”, dal Cinquecento all’Ottocento, è stata la più affollata e dinamica d’Italia, con gran divario rispetto al cuore di un volgare, il tosco-fiorentino, che proprio in quei secoli ha fatto più carriera degli altri, divenendo la lingua di tutti gli italiani.
La grande Napoli ha lasciato fare la più piccola Firenze, e ha pure contribuito ad avviarne la spinta linguistica. E però si è presa la sua rivincita continuando a “parlare” al mondo con le sue tante espressioni, non solo artistiche, veicolate dal logos territoriale, che della città partenopea definisce la condizione identitaria più che altrove per continuità di tradizione e per livello di utilizzo.
Il problema della lingua di Napoli di oggi non sta nel preservarne l’uso orale ma nel proteggerne la scrittura dalla proliferazione di un’ortografia “fai-da-te” con la quale una lingua d’arte, regolata dalla radice latina e modellata dai tanti testi colti scritti nei secoli, viene spostata nel recinto dei semplici dialetti, privandola del suo prestigio letterario.
La prefazione di Maurizio de Giovanni rafforza la necessità di porre un argine al pericolo che il napoletano, lingua sotto attacco, sta correndo nel nostro presente.
Due guide in un libro, tra storia e didattica.
La parte storica racconta, ed è frutto di una rigorosa ricostruzione dell’evoluzione nei secoli dell’idioma partenopeo, anche in relazione all’affermazione della lingua italiana, e quindi del percorso linguistico di Napoli rispetto a Firenze.
La parte didattica insegna, ed è un completo prontuario grammatico per l’apprendimento di una ortografia napoletana corretta, a beneficio di coloro che vogliano minimamente padroneggiare la scrittura della bella lingua d’arte con cui Napoli, da secoli, parla al mondo.

Leggiamo. Scopriamo. Impariamo. Napolitiamo! Il presente indicativo della lingua di Napoli.

“Vedi Napoli e poi muori”, quale la vera origine del detto?

Angelo Forgione “Vedi Napoli e poi muori!” è un aforisma assai diffuso nell’ambito della letteratura internazionale per descrivere il fascino della città del Vesuvio, così unica da doverla visitare almeno una volta prima di morire. E però proprio nessuno conosce l’origine del celebre detto. Erroneamente, un certa convinzione diffusa vuole che a inventarlo sia stato Johann Wolfgang Goethe, nel secondo Settecento, ma il letterato tedesco, folgorato dalla bellezza di Napoli ben più di qualsiasi altra città italiana visitata, raccolse quanto già dicevano i napoletani e lo riportò nei suoi appunti di viaggio, nella cronaca del 2 marzo 1787:

[…] Della posizione della città e delle sue meraviglie tanto spesso descritte e decantate, non farò motto. “Vedi Napoli e poi muori!” dicono qui. […]

“Siehe Neapel und stirb!”, in lingua madre, e dalla pubblicazione del suo diario nel Viaggio in Italia, datata 1816, quel detto divenne sempre più famoso. Chi ne sia stato il padre nessuno lo saprà mai, ma nel corso delle ricerche e delle letture per la scrittura del manoscritto di Napoli svelata mi sono imbattuto in qualcosa che può giustificare un’ipotesi plausibile.
Ne Il vetusto calendario napoletano nuovamente scoverto, pubblicato nel 1744, si legge:

[…] in Napoli vi è una strada, la quale avea nome, la Regione degli Alessandrini: […] per quest’antica strada degli Alessandrini scendon coloro, che debbono andare ad essere giustiziati su d’un patibolo; dal volgo coll’idiotismo Napoletano è chiamata questa strada, lo vico de li mpisi: […]
Perché d’intorno la Città di Alessandria in Egitto scorre il celebre fiume Nilo, perciò in questa strada dagli antichi Napoletani fu eretta una statua rappresentante il medesimo fiume: […]

“Dunque, la strada degli Alessandrini, conosciuta dal popolo come vico de li mpisi, corrisponde all’attuale via Nilo, lo stretto cardo del Centro Storico Unesco che dal Decumano maggiore scende verso il largo Corpo di Napoli, là dove troneggia la statua del Nilo. Lo conferma il tredicesimo volume della rivista Napoli Nobilissima, anno 1904, con un articolo scritto illo tempore da Alfonso Miola per affrontare la questione della confusione sui nomi delle vie della città, oggetto di cambio di odonimi negli anni precedenti. Vi si legge che nel 1850, tra i vari mutamenti, c’era stato anche quello del vico Bisi, già trasformazione dal vernacolare mpisi, cioè impiccati, diventato Via Nilo.

La strada degli Alessandrini, anticamente, era pertanto divenuta più nota come vico de li mpisi, ossia degli impiccati, perché da lì transitavano a gruppi i condannati al patibolo, e lo facevano obbligatoriamente, percorrendo un itinerario cittadino dettato dalle autorità del tribunale del Regno di Napoli. Non lontano era ubicato il Castel Capuano, che nel Cinquecento era stato convertito in sede della Gran Corte della Vicaria (palazzo di Giustizia) dal viceré don Pedro de Toledo. Lì operava il Sacro Regio Consiglio, che esaminava le principali cause civili e, in ultimo appello, le sentenze civili e criminali dell’intero Regno, mentre i sotterranei erano adibiti a prigioni. E infatti nella pubblicazione Il Decumano Maggiore da Castelcapuano a San Pietro a Maiella – cronache dei secoli passati si legge:

[…] Anche perduto infine, in tempi più felici, è l’altro passaggio (da non rimpiangere affatto) di condannati a morte che, da quando il Castello di Capuana era divenuto sede di tribunale penale e di carcere fino a quando le esecuzioni furono anche pubbliche, uscivano per essere portati, ad esempio terrificante, fino ai vari luoghi del supplizio: perciò l’attuale via Nilo, successivo tratto del percorso, si guadagnò il non invidiabile toponimo popolare di vico “degli Mpisi”, ossia degli impiccati, e così fu detto dal Sei all’Ottocento, salvo che, forse per mascherare il significato macabro del nome, fu anche chiamato dei Bisi. […]

E ancora…

[…] Circa i veri e propri crimini, la giustizia non riusciva a colpire tutti i delinquenti, ma quando ci riusciva, era severissima. Era continua la corrispondenza, così frequente da sembrare immediata, tra i reati commessi e la loro punizione, la quale, secondo la universale convinzione, doveva essere pubblica e in certi casi spettacolare. Con ripetizione quasi quotidiana e spesso con partecipazione molteplice, nella piazza davanti al Castello [Capuano] cominciava il macabro rito delle esecuzioni, col banditore o “trombetta della Vicaria”, che annunciava le sentenze. Poi il corteo avanzava per il decumano finché non svoltava per il già ricordato vico degli Mpisi. […]
[…] i criminali vengono giudicati in Castel Capuano e sono chiusi nelle sue carceri, essi passeranno per la strada di Capuana, fino alla svolta del vico degli Mpisi, per andare a pagare i loro misfatti in piazza Mercato, nel Largo del Castello o al Ponte Licciardo. E i tristi cortei, cominciati nella prima metà del Cinquecento, continuano, sebbene forse meno frequenti ancora nella seconda metà del Settecento, quando Napoli ha raggiunto in tutta l’Europa il colmo del suo prestigio culturale. […]

Pertanto, non vi è alcun dubbio che, tra il Cinquecento e il primo Ottocento, alcuni tra i delinquenti più feroci del Regno erano detenuti nei sotterranei di Castel Capuano, e che, una volta condannati in gruppo, erano obbligati a camminare in processione lungo un percorso prestabilito per raggiungere i luoghi delle esecuzioni. Dovevano perciò attraversare la città e la sua folla, alla pubblica gogna, percorrendo l’attuale Decumano maggiore, alias via dei Tribunali, per poi svoltare a sinistra immettendosi in via Nilo, il vico degli impiccati, e dirigersi in piazza Mercato, in largo Castello e al ponte della Maddalena. In sintesi, una volta usciti dalle buie segrete di Castel Capuano, vedevano per l’ultima volta la luce del sole, la folla, le strade e i palazzi della città, prima di essere giustiziati. Vedevano Napoli e poi morivano.
E quale Napoli vedevano? Quella che certamente al tempo di Goethe, il secondo Settecento, e ancora nel primo Ottocento, era considerata la più bella città d’Europa, come testimonia uno scritto dello storico austriaco Benedikt Pillwein in una sua opera del 1839:

Secondo i rapporti dei viaggiatori che hanno visto le città e le abitudini di molti popoli, Napoli è la prima tra le più belle città d’Europa, Costantinopoli la seconda, Salisburgo la terza.

La testimonianza non è solo nei documenti scritti ma anche nel dipinto seicentesco di Ascanio Luciani ritraente l’esterno del Tribunale della Vicaria. Nella scena compare anche un gruppo di sette condannati incatenati al collo, vigilati da alcune guardie.

Come si evince dalle testimonianze riportate, il rituale dei cortei dei condannati tra la folla era ancora in uso nella seconda metà del Settecento, il periodo in cui Goethe visitò Napoli e apprese dell’esistenza del detto “Vedi Napoli e poi muori”. È verosimile che il tedesco possa averlo riportato nei suoi appunti per descrivere la folgorazione avuta dalla città, facendo l’esperienza personale e comprendendo il padre, che vi era stato prima di lui e ne era rimasto altrettanto estasiato.
Il più grande letterato tedesco di tutti i tempi si convinse che bisognasse assolutamente vedere Napoli almeno una volta nella vita, e quel detto, ascoltato dalla bocca di qualche napoletano, gli sembrò perfetto per comunicare il suo pensiero. Forse vi era un retroscena un po’ macabro all’origine, ma questa è solo una mia ipotesi sia pur fondata su una consuetudine della città antica, quella di vedere la bellissima Napoli prima di morire… al patibolo.

Per approfondimenti: Napoli svelata (A. Forgione)

La chiamarono Calciopoli

Angelo Forgione Significativa, quantunque silenziosa e silenziata, è giunta la sentenza della Cassazione sulla causa intentata anni fa alla RAI dal compianto Oliviero Beha. La tivù di Stato dovrà dovrà riconoscere alla famiglia del giornalista 180.000 euro per il demansionato nel suo ruolo di vicedirettore di RaiSport tra il 2008 e il 2010, anni di fuoco del processo a Calciopoli. Una sentenza che ha rinvigorito l’autodifesa di Luciano Moggi, uomo simbolo di quella squallida vicenda, che è tornato a dichiararsi innocente.
Ne abbiamo parlato con lui a Punto Nuovo Sport Show (Radio Punto Nuovo), condotto da Marco Giordano e Umberto Chiariello. L’ex DG bianconero non è stato tenero con l’attuale gestione della Juventus, e si è detto vittima di una cospirazione dell’intero mondo del calcio italiano. Forse fu più vittima delle vicende interne alle Juventus. A tal proposito, sul suo rapporto con John Elkann ha preferito glissare e non rispondere.
Un po’ di chiarezza su quello che fu il solito scontro di poteri tra le grandi del Nord, e pure tra gli eredi di Gianni e Umberto Agnelli. Un pentolone solo parzialmente scoperchiato.

Tributo a Maradona

Un mio ritratto a matita in grafite di D10S. È il Maradona cittì dell’Argentina, con lo sguardo fiero del leader. Anno 2010, alla soglia dei 50 anni, disintossicato, non l’uomo accompagnato dal mostro, della droga prima e dell’alcol poi. Ho scelto di ritrarre un Diego in buona salute, come lo vorremmo oggi.

L’obelisco della rinascita del Mezzogiorno

Angelo Forgione Il 25 maggio 1734 veniva combattuta la battaglia di Bitonto, cittadina pugliese in cui svetta da quasi tre secoli un obelisco di Giovanni Antonio Medrano, architetto tra l’altro della Reggia di Capodimonte. Il monumento celebra la vittoria dell’esercito di Carlo di Borbone sulle truppe austriache con cui il Vicereame viennese di Napoli tornò ad essere Regno indipendente e poté incamminarsi in un clima di rinascita e rinnovamento di respiro internazionale.
Senza quella vittoria non ci sarebbe stato il grande Settecento napoletano. Non ci sarebbe stato il Real teatro di San Carlo, non gli scavi di Ercolano, Pompei e via discorrendo, non la Collezione Farnese, non la Reggia di Caserta e gli altri palazzi reali, non l’arte presepiale. E forse neanche il pomodoro lungo, il re delle nostre tavole, esisterebbe al Sud, visto che l’interessante storia del frutto rosso dalla forma oblunga parte proprio dalla battaglia di Bitonto, ed è ampiamente documentata nel mio Il Re di Napoli. Non ci sarebbero state tante eccellenze napoletane ma anche meridionali, e il Sud non avrebbe conosciuto la rinascita culturale che lo condusse nel mondo moderno. Il giovane e brillante economista abruzzese Ferdinando Galiani, a metà del secolo, immortalò con la scrittura l’energia del rinascente territorio meridionale:

“Sono dolente e afflitto che mentre i Regni di #Napoli e di #Sicilia stanno risorgendo nuovamente, il resto d’Italia va scomparendo giorno per giorno e declina visibilmente”

Una risorgenza di cui il Mezzogiorno necessiterebbe tanto, oggi.

L’identità del “molo borbonico”

Angelo Forgione – Quello crollato sul lungomare di via Partenope a Napoli per le mareggiate dei giorni scorsi era un monumento o no? Era un molo, un semplice arco o uno scarico fognario? Ed era davvero borbonico? Il collasso dell’opera ha indignato un po’ tutti ma ha anche sollevato mille domande sul valore e sull’identità del manufatto. Facciamo chiarezza.
Diciamolo subito: non era un monumento. No che non lo era, e in questi termini non vi è perdita tale da gridare al depauperamento dell’immenso patrimonio artistico certamente mal tutelato di Napoli, che ha ben altre criticità ormai croniche da risolvere (vedi Galleria Umberto I). Era però una testimonianza del passato e, in quanto tale, rappresentava un simbolo. Non poca cosa, dacché le comunità diventano tali quando i simboli li riconoscono e vi ci si affezionano.
Di cosa si trattava, dunque? Del terminale di sbocco di un’antica cloaca cittadina ad alveo aperto, la principale in epoca vicereale, detta “il chiavicone“, che iniziava nei pressi di Montesanto e convogliava le acque reflue e i liquami della collina del Vomero e tutte quelle che incontrava nel suo percorso verso il Chiatamone, per poi sfociare in mare, sulla spiaggia di Chiaja. Il viceré “urbanista” don Pedro de Toledo, nel 1536, lo fece bonificare per aprire la strada oltre le antiche mura che da lui prese il nome, ovvero via Toledo, e le acque di scarico, dopo i lavori, continuarono a scorrere in un tunnel sotterraneo. Lo descrisse il canonico Carlo Celano ne Le Notizie del bello dell’antico e del curioso della città di Napoli del 1692: “E da sapersi che sotto di questa strada [di Toledo] vi è un condotto, o chiavicone, così ampio e largo che adagiatamente camminar vi potrebbe una carrozza per grande che fosse; e questo principia dalla Pignasecca presso la porta Medina […] e va a terminare alla chiesa della Vittoria sita fuori la porta di Chiaia dove dicesi il Chiatamone. In questo chiavicone entrano quasi tutte le acque piovane che scendono per diversi cammini dal monte di S. Martino”.
Restava scoperto il tratto oltre la nuova strada di Toledo, nella zona rupestre a ridosso del mare, dove nel Cinquecento ancora non c’era neanche il palazzo vicereale (poi reale). Quel tratto fu coperto definitivamente solo in epoca borbonica con le risistemazioni del tratto di fronte al Castel dell’Ovo. Nel 1839, nelle sue Appuntazioni per lo abbellimento di Napoli, un ampio piano urbanistico in parte attuato nel ventennio successivo e in parte adottato in età postunitaria, Ferdinando II stimolò anche un intervento sul lungomare, tra la salita del Gigante (l’odierna via Cesario Console), la strada di Santa Lucia e oltre, di cui si occupò l’ingegnere civile Bartolomeo Grasso nel 1844. Il progetto, documentato in un disegno custodito all’Archivio Storico del Comune di Napoli, mostrava la futura nuova strada del Chiatamone, ossia il nuovo lungomare.

progetto_chiatamone_grasso1844

Al punto 7 si indicava esattamente “Cloaca e Sbarcatoio”. Fu così realizzata un terminale coperto ad arco di protezione dalle mareggiate, con una piccola penisola a cuneo protesa verso il mare per l’attracco delle barchette dei pescatori di Santa Lucia, che potevano risalire al livello stradale attraverso una scalinata.

Non un molo in senso stretto del termine ma una sorta di stazionamento con funzione chiara che fu accentuata qualche anno più tardi, allorché la spiaggia fu cancellata per effetto delle risistemazioni del lungomare d’epoca tardo ottocentesca, in tempo di Regno d’Italia, con la colmata a mare per la realizzazione di via Partenope in luogo dell’arenile, rimosso il quale, a compensazione della perdita, fu rifatto lo “sbarcatoio”, allungando la penisola a cuneo in modo da creare un piccolo porticciolo, una banchina più adatta al comodo dei pescatori, che così potevano sostare anche per tirare le reti così come facevano prima dalla spiaggia. Stessa finalità per una banchina creata all’altezza dello slargo della Vittoria, ove inizialmente doveva essere collocata una statua dell’ammiraglio Caracciolo e poi fu innalzata una colonna di epoca romana.

molo_pescatori

Quel che restava dello “sbarcatoio” era giunto a noi con un’identità poco chiara ma con un sapore di passato molto gradito da turisti e napoletani in cerca di uno scorcio suggestivo per fotografare il Castel dell’Ovo sullo sfondo. Usurato da più di un secolo di mareggiate e incuria, fino al crollo, inevitabile.

viapartenope

Cruciani: «Vesi è il manifesto de La Zanzara»

Un napoletano che boccia Napoli e promuove Milano con tutti gli stereotipi su Napoli è oro colato per Giuseppe Cruciani. E infatti l’uscita a farfalle di Giuseppe Vesi l’ha definita «il manifesto de La Zanzara», e non c’è bisogno di aggiungere altro.
Peccato per lui, però, che Vesi non abbia fatto il Leopoldo Mastelloni di turno. Lo ricordate l’attore che, sempre a La Zanzara, disse che Napoli è malfamata, pericolosa, invivibile, e che ormai si sente romano? No, Vesi si è sottratto, e lui si è vendicato come poteva. Non pago, ha fatto pure il furbetto con me e Gianni Simioli.

Gli omicidi in numeri per regioni

Angelo Forgione Interessanti spunti offrono le ultimissime statistiche Eurostat dei tassi nazionali e regionali di mortalità per omicidio (immediato o per conseguenze di aggressioni non immediatamente letali) in relazione al numero di abitanti, con ultimi dati relativi al 2017, anno in cui nell’Unione europea (UE) sono decedute un totale di 3124 persone a seguito di un’aggressione, la maggior parte uomini (65%).

Il tasso di mortalità per aggressione più alto appartiene ai Paesi Baltici, più violenti, pare, per l’elevatissimo consumo di alcool. Lettonia in testa con 3,8 morti ogni 100mila abitanti. Seguono Lituania ed Estonia, rispettivamente con 2,8 e 2,3 morti ogni 100mila abitanti. Malta e Romania al quarto e quinto posto, rispettivamente con 1,6 e 1,5 morti ogni 100mila abitanti. Il tasso più basso è del Lussemburgo (0,2), seguito da Germania e Irlanda (entrambi 0,4) e poi da Italia, Slovacchia e Francia (ciascuno con un tasso di 0,5), sotto la media dei 27 Paesi dell’Unione, anche se alcune colonie francesi sono in testa per tassi regionali.

Per quanto concerne le regioni italiane, il valore più alto si registra in Puglia, con 1,24 decessi ogni 100mila abitanti. Segue la Sardegna con 0,9 e poi la Calabria con 0,78. Sopra la media anche Sicilia e Abruzzo, entrambe con 0,51.

Una componente non trascurabile degli omicidi in Italia è quella legata alle associazioni di tipo mafioso, che coinvolge malavitosi, appartenenti alle forze di polizia o alla magistratura e vittime di errori. Nel 2017, dalle organizzazioni mafiose dello Stivale sono stati commessi 45 dei 357 omicidi volontari, il 12,6% del totale.
Interessante a tal proposito il dato della Campania, che è sensibilmente sotto la media nazionale e dietro a Lombardia, Emilia Romagna e Friuli ma anche all’Abruzzo, nonostante nel quinquennio 2013-2017 le vittime ascrivibili alle cosche campane abbiano rappresentato il 45,4% del computo totale, ovvero quasi un omicidio su due. Facile dedurre che una Campania senza Camorra, l’organizzazione criminale che incide di più sui dati regionali, sarebbe persino in fondo alla classifica. Un po’ meglio si piazzerebbero Sicilia e Calabria senza Cosa Nostra e Ndrangheta, che sui dati regionali pesano rispettivamente per il 25,5% e il 19,8%. Discorso diverso per la Puglia, dove mafie foggiane e Sacra Corona Unita impattano solo per il 4,8% sul preoccupantissimo dato regionale.

fonti:

https://ec.europa.eu/eurostat/web/products-eurostat-news/-/DDN-20200902-1

https://www.istat.it/it/files/2018/11/Report_Vittime-omicidi.pdf