Una targa per celebrare l’antica amicizia tra Napoli e la Russia

Scoperta a Napoli, al principio della via Toledo, incrocio via Nardones, la targa commemorativa delle relazioni tra la città e San Pietroburgo, inaugurate nel 1777, quando a Napoli si trasferì il primo ambasciatore ad aver mai rappresentato la Russia sul suolo italico. Si trattava di Andrey Kirillovich Razumovsky, e prese domicilio proprio nel Palazzo Pescolanciano di via Nardones 188.

napoli_russia

Le relazioni divennero profonde e legarono da fraterna vicinanza il re Ferdinando di Borbone e l’Imperatrice Caterina II. Napoli divenne la culla dei migliori talenti russi della musica, della pittura e della scrittura. Giovanni Paisiello, Tommaso Traetta e Domenico Cimarosa, nel secondo Settecento, furono maestri di cappella e direttori dei Teatri imperiali di San Pietroburgo, allora capitale russa. Nel 1794 il napoletano Josè de Ribas, nato dal matrimonio tra il console spagnolo e un’aristocratica irlandese, fondò la città di Odesso, col nome dell’antica colonia greca, sulla base di Khadjibev, un villaggio periferico sul Mar Nero. Fu l’Imperatrice a femminilizzare il nome di quella che divenne per sempre Odessa. Il legame tra i due Paesi, durante la riconquista del Regno da parte dei Borbone di Napoli dopo la repubblica giacobina del 1799, produsse l’aiuto militare russo a favore dell’Armata della Santa Fede del cardinale Ruffo.
Con il boom del gusto neoclassico, l’architetto di origine napoletana Carlo Domenico Rossi, naturalizzato e russificato Karl Ivanovič perché figlio di una ballerina russa di scena a Napoli, riempì di monumenti San Pietroburgo, compreso il teatro Alexandrinsky, con facciata molto somigliante a quella del San Carlo, dove andarono in scena i successi napoletani. Il gemellaggio culturale Napoli-San Pietroburgo divenne anche commerciale, cosicché a Kronstadt, una località isolana di fronte la capitale russa, fu realizzata una fabbrica siderurgica identica a quella di Pietrarsa, visitata e tanto ammirata dallo Zar Nicola I, affettuosamente ospitato a Napoli da Ferdinando II alla fine del 1845 per consentire alla malata zarina Aleksandra Fëdorovna di giovarsi del clima della Sicilia, e grato nel ricambiare con due pregevoli cavalli di bronzo con palafrenieri, identici alle statue di ornamento del ponte Aničkov di San Pietroburgo, che furono sistemati all’ingresso dei giardini del Palazzo Reale, di fianco al San Carlo. A Napoli iniziarono a giungere grandi forniture di eccellente grano duro russo di tipo Taganrog per le pregiate lavorazioni della pasta.
Durante la Guerra di Crimea, combattuta dal 1853 al 1856, la Russia si trovò a fronteggiare l’Impero ottomano, la Francia e il Regno Unito. La coalizione nemica chiese l’aiuto del Regno di Sardegna dei Savoia, che accettò volentieri per garantirsi potenti amicizie, e del Regno delle Due Sicilie, che rifiutò di combattere contro gli amici russi, dichiarandosi neutrale, salvo poi offrire alla flotta russa i propri porti nel Mediterraneo per i rifornimenti. Alla fine della guerra, persa dai russi, Inghilterra e Francia ritirarono i loro ambasciatori da Napoli, che divenne paese nemico da punire quanto prima. Dopo soli quattro anni fu organizzata la caduta dei Borbone attraverso il finanziamento dell’esercito irregolare di Garibaldi, cui fu affidato il compito di invadere il Regno delle Due Sicilie e consegnarlo ai Savoia.
Nel 1898, proprio davanti a un tramonto sul mare di Odessa, Eduardo Di Capua trovò l’ispirazione per musicare la celebre canzone-capolavoro ‘O Sole Mio, parolata da Giovanni Capurro.
Da qualche anno si è diffusa la conoscenza del significato dei “Cavalli Russi”, comunemente ma erroneamente detti “cavalli di bronzo”. Ora la nuova targa ribadisce quella che fu forse l’unica vera amicizia dell’antico Regno di Napoli, quella con l’impero Russo.
Alla cerimonia di inaugurazione hanno partecipato l’Ambasciatore Straordinario e Plenipotenziario della Federazione Russa in Italia, Sergey Sergeevich Razov, e il Sindaco di Napoli, Luigi De Magistris.

.
la notizia alla televisione russa

 

Un ribaltamento nazionale tra politica, Massoneria e Chiesa che ha per paradigma l’entrata di Garibaldi a Napoli

Angelo Forgione È il 7 Settembre 1860: la “Piedigrotta” è in pieno svolgimento. Da più di un secolo è la festa delle feste, famosissima in tutt’Europa. Lo è almeno dal 1744, cioè da quando Carlo di Borbone, per celebrare la vittoria di Velletri contro gli austriaci, l’ha resa festa nazionale delle Due Sicilie e ha introdotto una parata militare oltre alla sfilata dei carri allegorici. I viaggiatori del Grand Tour l’hanno vista e narrata, ma questa volta i napoletani sono distratti da altro, perché l’evento coincide col culmine della risalita della Penisola da parte dei Mille garibaldini e Re Francesco II di Borbone, che ha appena lasciato Napoli per evitarle la guerra, sta andando a difendersi a Gaeta. Mentre il Re è in navigazione, a Napoli entra Garibaldi e si proclama dittatore delle Due Sicilie. Ad accoglierlo ci sono i capintesta della camorra del tempo e il prefetto di polizia borbonica e ministro degli Interni delle Due Sicilie, il trasformista Liborio Romano, che ha convertito i criminali in gendarmi di pubblica sicurezza, affidandogli il comando di una nuova Guardia cittadina. Il diplomatico inglese Henry George Elliot, del resto, ha già informato per tempo l’ufficio Esteri di Londra del fatto che diverse bande camorristiche sono pronte a contrastare con le armi la reazione dei fedeli alla dinastia borbonica, presidiando il porto in modo da facilitare l’ingresso dei volontari di Garibaldi. Il corteo al seguito del capo delle camicie rosse percorre via Marina, il Maschio Angioino, il largo di Palazzo (Plebiscito), poi su per via Toledo fino a Palazzo Doria D’Angri, dal quale il Generale si affaccia prendendone possesso come dimora.
Ad accompagnare Garibaldi c’è fra Giovanni Pantaleo da Castelvetrano, cappellano siciliano unitosi alla spedizione dei Mille e utilissimo per legittimare, attraverso la predicazione, l’impresa garibaldina presso le classi popolari e per favorire la coscrizione di volontari. Eppure il nizzardo è un gran massone, un rigidissimo anticlericale, e odia preti e uomini di Chiesa di ogni ordine e grado. E però vuole persino che si compia immediatamente il prodigio di San Gennaro in sua presenza, perché sa benissimo che solo così può guadagnarsi i favori incondizionati del popolo napoletano. Col Santo scontento non non può vedere completamente legittimato il suo potere. Del resto, è già accaduto sessant’anni prima, nel 1799, con i militari francesi di Championnet, ben informati dai giacobini napoletani, a “vigilare” sul compimento dello scioglimento del sangue.
Il giorno seguente, racconta Giacinto De Sivo, Garibaldi e i suoi trovano la Cappella del Tesoro sbarrata. Niente da fare. E allora, in serata, accompagnato dai camorristi, incrocia la processione della Madonna di Piedigrotta. Il massone, suo malgrado, si scappella di fronte all’Immacolata per non inimicarsi i napoletani, e viene giù un acquazzone fortissimo. Tocca aspettare il 19 settembre, giorno del Santo patrono, per timbrare di rosso garibaldino il prodigio. “Il sangue deve liquefarsi e si liquefarà – così dicono i predicatori garibaldini in largo di Palazzo – altrimenti a farlo liquefare ci penserà Garibaldi”. E così sia! Ancora un prodigio su ordinazione.
Liborio Romano viene confermato nel ruolo di Ministro dell’Interno e poi entra a far parte del Consiglio di Luogotenenza, per poi essere eletto deputato al nuovo parlamento di Torino. Ai camorristi della sciolta “guardia cittadina” viene assicurato un lauto vitalizio mensile in quanto “esempi inimitabili di coraggio civile nel propugnare la libertà”.
Quella dell’anno seguente sarà l’ultima Piedigrotta, organizzata dal luogotenente Generale Enrico Cialdini, uomo impegnato nel frattempo a massacrare i meridionali ribelli. La festa sarà sospesa nel 1862 dopo aver decretato nel febbraio di quell’anno la soppressione di tutti i conventi e la confisca dei beni mobili e immobili della Chiesa, compreso il santuario di Piedigrotta. Così tramonta la vera Piedigrotta, insieme a Napoli Capitale. Quella che riprenderà anni più tardi non sarà la grande festa nazionale di un tempo, e finirà per spegnersi, forse definitivamente. Il prodigio, invece, resta tradizione inossidabile, forse perché la Deputazione del Santo, dal 1811, è laica per volere del massone Gioacchino Murat.

L’illuminato di Baviera che fece scoppiare il 1799 di Napoli

Angelo Forgione Nel mio recente libro Napoli Capitale Morale (Magenes, 2017) grande attenzione ho prestato all’incidenza della Massoneria nei destini di Napoli, di Milano e dell’Italia unita. A prescindere dalla lettura del libro, mi preme evidenziare ai lettori del mio blog la figura di un uomo decisivo nelle sorti evolutive della Libera Muratoria italiana e negli eventi della cosiddetta “rivoluzione napoletana” del 1799, un personaggio di cui nessuno storico ha mai parlato, e così si è incancrenito un aspro dibattito tra due ideologie, quella filo-legittimista e quella filo-repubblicana.

munter

Sono trascorsi 217 anni da quei fatti che chiusero il triennio giacobino, ovvero il periodo che rese il territorio italiano quello di maggior radicamento delle ideologie patriottiche di Francia, e aprirono una lacerazione storica ancora aperta a distanza di più di due secoli, dividendo ideologicamente filo-giacobini e filo-borbonici del ventunesimo secolo. È però inaccettabile che in questo aspro dibattito, non solo napoletano, manchino ancora gli strumenti di lettura dei fatti, che non possono essere ridotti a un conflitto tra repubblicani e monarchici. Fu prima di tutto un conflitto animato dallo scontro tra Massoneria e Chiesa, se è vero che l’élite repubblicana napoletana fu ispirata in larghissima parte da certi ideali massonici, mentre il popolo, per ripristinare lo status quo monarchico, costituì l’Esercito della Santa Fede guidato dall’impavido cardinale calabrese Fabrizio Ruffo.
L’attivissima Massoneria napoletana del secondo Settecento, la più folta e attiva d’Italia, recitò un ruolo principale nella vicenda del Regno sotto Ferdinando di Borbone, ereditato dal padre nel 1759. Il giovane sovrano sposò Maria Carolina d’Asburgo-Lorena nel 1768, proprio mentre i Fratelli napoletani iniziavano a tradire lo scopo della locale Massoneria cristiana e legittimista, quella di Raimondo de’ Sangro, e cioè il miglioramento dell’individuo, e deviavano verso il miglioramento del governo, impicciandosi di politica e dando vita a un laboratorio di idee per modernizzare l’apparato statale rifacendosi ai sistemi massonici stranieri di Francia, Gran Bretagna e Olanda. Alcuni di loro, tra cui Gaetano Filangieri, Francesco Mario Pagano e Francescantonio Grimaldi, si legarono alle diverse logge nascenti, come pure la giovane Regina, che si circondò di uomini di Massoneria per sganciarli dalle dipendenze di altri paesi e promuovere la formazione di un partito di corte filo-austriaco, in modo da sottrarre il controllo politico al primo ministro Bernardo Tanucci, in frequente contatto con Carlo di Borbone a Madrid. Maria Carolina concesse il suo favore a Francesco d’Aquino, gran calibro tra gli iniziati napoletani, il quale convinse gran parte dei Fratelli partenopei che un’attività latomistica dipendente dai centri stranieri fosse dannosa per la libera nazione napolitana e, godendo dell’appoggio della regnante, costituì nel 1773 la Gran Loggia Nazionale di Napoli, autonoma e cattolica, filoasburgica e antispagnola in fatto di politica estera e legittimista in quella interna. Si trattava chiaramente di una lotta ingaggiata tra logge nazionali di Francia, Inghilterra, Olanda e Austria per l’egemonia nel Mediterraneo, e Napoli era proprio lì, nel cuore dell’interesse geopolitico.
La situazione interna divenne esplosiva con la nascita dell’erede al trono Carlo Tito, nel gennaio 1775, evento con cui, secondo i trattati matrimoniali, si consentiva a Maria Carolina di partecipare al Consiglio di Stato con potere decisionale. Il Primo Ministro, a quel punto, s’impegnò in una feroce persecuzione della Massoneria per indebolire la viennese, che rispose fecendolo pensionare, così guadagnando di fatto la leadership politica.
L’alleanza fra Maria Carolina e i riformisti massoni non durò troppo e si incrinò per i favoritismi della Regina, sottratti a Francesco d’Aquino per offrirli al britannico John Acton, chiamato a Napoli nell’estate del 1778 per riordinare la deficitaria Real Marina. La presenza a corte dello straniero, sempre più ingombrante e potente, entrò in contrasto con quella del napoletano, aprendo una crepa in cui si infilò con grande opportunismo un uomo deputato ad amplificare i dissidi. Si trattava del teologo luterano Friederich Münter, massone danese di origine tedesca, appartenente all’Ordine degli Illuminati, una società occulta nata nel 1776 in Baviera. Si trattava di un’organizzazione paramassonica filo-rivoluzionaria, proibita per le sue idee politico-sociali estremiste e promotrice di un vasto piano eversivo internazionale finalizzato a rovesciare i governi monarchici e le religioni, con l’obiettivo di instaurare un nuovo ordine internazionale. Münter fu incaricato di viaggiare tra il Regno di Napoli e la Sicilia, strategici territori perché governati dalla monarchia borbonica e dalla Chiesa cattolica, con la missione di turbare la Fratellanza napoletana e reclutare i massoni del sud della Penisola. Giunto a Napoli nel settembre del 1785 in veste di vero e proprio agente segreto, Münter incontrò diverse personalità di spicco vicine alla corte, tra cui Gaetano Filangieri e Francesco Mario Pagano, ma anche Domenico Cirillo ed Eleonora de Fonseca Pimentel, rispettivamente medico personale e bibliotecaria della Regina. Approfittando dei malumori sorti, il danese esortò tutti a coinvolgere altri Fratelli partenopei nell’istituzione di un ramo locale degli Illuminati di Baviera, e dovette essere convincente, visto che nel 1786 fu fondata La Philantropia, il primo nucleo di illuminatismo napoletano, una loggia eversiva filo-bavarese che iniziò a seminare le idee repubblicane a Napoli. In una lettera datata 28 giugno 1786, riportata dallo storico massone tedesco Georg Kloss nello scritto Freimaurerey in Italien di metà ottocento, quattro Fratelli napoletani, tra cui proprio il Maestro Venerabile Francesco Mario Pagano, chiesero di essere inseriti nel sistema degli Illuminati perché, spiegavano, dopo aver conosciuto Münter, gli altri sistemi non potevano più soddisfare i loro ideali.
Percorreva l’Italia anche Wolfgang Goethe, anch’egli vicino all’Illuminatismo bavarese. Nei suoi appunti di viaggio, il 20 dicembre 1786, l’intellettuale tedesco scrisse: Trovasi qui il dottore Münter di ritorno dal suo viaggio di Sicilia, ma io ignoro quale sia il suo scopo”. In realtà, un legame profondo univa Goethe e Münter, che erano stati iniziati nello stesso luogo, a Weimar, e nello stesso anno, nel 1783. Si può quindi ragionevolmente pensare che Goethe, interessato allo studio più che alla politica, conoscesse bene gli scopi di Münter, ma che si sia guardato bene da farne accenno per non svelare gli obiettivi della segreta missione. Il teologo rientrò a Copenaghen nel luglio del 1787 e da lì continuò ad auspicare una nuova riforma massonica partenopea, continuando a scambiare lettere con i napolitani, in una delle quali Gaetano Filangieri gli esternò la propria avversione al favoritismo di Maria Carolina per l’influente inglese John Acton.
Partito il Münter, nel 1788 approdò a Napoli un altro illuminato, il triestino Domenico Piatti, banchiere e industriale serico. Si impegnò anch’egli a influenzare i Fratelli napoletani, aprendo un salotto di conversazione per intellettuali, un importante circolo rivoluzionario a via Nardones, nel centro della Capitale. I frutti della semina di Münter erano pronti al raccolto. La sua azione a Napoli diede una più decisa impronta politico-eversiva alla massoneria napoletana, rendendola razionalista e in crescente contrasto con l’orientamento legittimista dei Fratelli più fedeli ai loro sovrani e alla cristianità. Sotto la sua azione, le logge napoletane divennero sette cospirative, e presero a modello la struttura interna, le aspirazioni e le pratiche rituali degli Illuminati di Baviera. Molti di coloro che aderirono alla loggia napoletana filo-bavarese erano proprio coloro che erano stati accolti a corte, a stretto contatto con Maria Carolina, o che avevano sostenuto la politica di Bernardo Tanucci, prima di abbandonare, con il passare del tempo, le posizioni monarchiche e sposare le idee repubblicane. Tra questi anche l’abate vibonese Antonio Jeròcades, massone e agitatore delle logge calabresi, e sostenitore della Regina prima di entrare in stretto contatto con Münter e di iniziare a diffondere gli ideali anti-borbonici.

Antonio Jeròcades

Proprio nel momento in cui si innescavano le prime avvisaglie della Rivoluzione Francese, l’ostilità dei vicini massoni verso la monarchia borbonica crebbe in modo evidente. Furono proprio le logge calabresi, ispirate da Jeròcades, a fornire il primo nucleo di rivoluzionari. Poco bastò a Maria Carolina per accorgersi che i suoi collaboratori della prima ora costituivano ormai una seria minaccia. Una volta avvedutasi delle nuove e avverse tendenze politiche degli uomini a lei vicina, la viennese mutò il suo atteggiamento verso i circoli liberali e spinse Ferdinando ad opporvisi con un nuovo restrittivo editto anti-massonico, con cui furono chiuse di fatto le porte ai traditori di corte.
Con l’assimilazione degli intenti repubblicani, fu automatica la trasformazione delle logge napoletane in centri di aggregazione di uomini prontissimi ad abbracciare i principi politici del Giacobinismo rivoluzionario francese e a mettersi in corrispondenza con le società patriottiche di Francia. Jeròcades, insieme allo scienziato Carlo Lauberg, fondò nel 1793 la Società Patriottica Napoletana, il primo club giacobino della Penisola, di chiara ispirazione filo-francese e di netto orientamento repubblicano. Il movimento partenopeo aprì nel 1794 la fase italiana del giacobinismo insurrezionale, ma venne scoperto e represso duramente con tre condanne a morte. Crebbero in Maria Carolina timori e risentimenti, e la frattura tra monarchia ed élite intellettuale si indirizzò agli eventi del 1799. L’arrivo delle terribili milizie parigine costrinse Ferdinando e Maria Carolina a mettersi in salvo a Palermo, mentre a Napoli il primo ad entrare in contatto coi vertici militari transalpini fu proprio Domenico Piatti, subito impiegato nella Tesoreria della costituita Repubblica Napoletana, deputato a ricevere soldi e oggetti preziosi da girare alle autorità francesi insieme alle opere d’arte e ai reperti archeologici di cui la città degli scavi era piena.
Quando cessò la protezione francese ai giacobini napoletani, garantita fino alla fine dalle scorribande napoleoniche in Alta Italia, l’esperienza della Repubblica terminò, senza aver prodotto alcuna riforma durante i cinque mesi di governo slegato dal basso ceto e dall’identità locale. Con la riconquista della città da parte dei sanfedisti del cardinale Fabrizio Ruffo, la resa dei conti fu repentina, e pure violenta, perché il salvacondotto inizialmente concesso fu cancellato dall’ammiraglio inglese Horatio Nelson, celebre vincitore delle battaglia navale di Abukir contro Napoleoneche agì in un’ottica molto precisa, ovvero quella di innescare una vantaggiosa reazione d’odio tra Napoli e la Francia attraverso la condanna a morte di centodiciannove repubblicani giacobini tra i più estremisti, compreso Domenico Piatti, Francesco Mario Pagano, Domenico Cirillo e Eleonora de Fonseca Pimentel. E così, la coppia reale borbonica, che fin lì avevano modernizzato il Regno e proseguito il lavoro di Carlo di Borbone, passarono alla storia per la crudeltà dimostrata. Indubbiamente, parte della rappresentanza di una classe intellettuale partenopea apprezzata in Europa e oltre fu spazzata via, ma non si trattò di totale azzeramento. Tanti, infatti, furono gli uomini graziati che si recarono in altre città settentrionali ed estere, alcuni dei quali tennero in vita un sostrato massonico da rigenerare in seguito. Molti esuli napoletani rientrarono all’indomani della riconquista italiana di Napoleone, con il loro carico di odio più o meno latente verso i Borbone pronto ad esplodere e a far crollare il restaurato ma sempre pericolante Regno delle Due Sicilie.
Friederich Münter morì nel 1830, in pieno periodo di Carboneria italiana, dopo aver assistito alle evoluzioni della Massoneria napoleonica e alla Restaurazione. Qualche anno fa, lo studioso napoletano Ruggiero Ferrara di Castiglione, docente universitario legato al Grande Oriente, ha donato al Servizio Biblioteca del GOI l’intera corrispondenza di Münter con i massoni del Sud Italia, sostenuta dal 1786 al 1820. Lì sono conservati tutti i particolari di una mutazione genetica e ideologica della Massoneria napoletana, delle cui origini cristiane e legittimiste e dei cui scopi di miglioramento individuale resta solo quel fantastico testamento di pietra che è la Cappella di Sansevero nel cuore di Neapolis.

Dettagli e approfondimenti su Napoli Capitale Morale.

Zubin Metha: «Bisogna compatire quel Nord che ignora la cultura del Sud e di Napoli»

Angelo Forgione Un trionfale “Concerto per l’Europa” quello tenuto il 3 giugno nel Duomo di Milano, con il grande direttore indiano Zubin Metha a condurre l’Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo di Napoli nella Sinfonia n.9 di Ludwig van Beethoven, evento gratuito davanti a 5.000 spettatori che hanno tributato 15 minuti di applausi finali. Un ponte artistico tra Napoli e Milano che prova ad arrivare all’Europa attraverso la Musica, per condividere l’arte tra Nord e Sud.
Presente il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris ma non il suo omologo milanese Beppe Sala, che ha delegato l’assessore alla viabilità, e neanche il presidente della Regione Lombardia Riccardo Maroni. Forse infastidito da certe assenze, Zubin Metha, da tempo innamorato di Napoli, del suo teatro e della sua cultura musicale, ha esternato prima del concerto il suo disappunto per le lacune culturali del Paese, affidandolo al Corriere del Mezzogiorno:

«So dei tanti pregiudizi sui napoletani e per questo spero ci siano molti leghisti tra gli spettatori in Duomo, e che al suono delle meravigliose note di Beethoven imparino quale sia la grandezza del San Carlo e di Napoli. Molti leghisti sono ignoranti, ovvero ignorano la cultura del Sud e di Napoli: vanno compatiti».

Problema di non soli leghisti, ma problema che appartiene sempre meno al musicista di Bombay, il quale ha aggiunto:

«Napoli è una città che sto conoscendo sempre meglio. Per esempio, ho appreso tardivamente, e me ne rammarico, che il Regno delle Due Sicilie non era sotto la dominazione spagnola, ma aveva sovrani napoletani. Sto amando la storia di Napoli».

(ph: Laura Ferrari)

Philippe Daverio: «Sono borbonico. La reazione di Napoli è necessaria».

Philippe Daverio, apprezzato e stimato critico d’arte d’origine alsaziana e di formazione milanese, ha più volte denunciato il fallimento della tutela del patrimonio artistico in Italia e la superiorità, in questo senso, delle Due Sicilie rispetto alla moderna nazione italica. E in un noto bar del quartiere Chiaja di Napoli si dichara «simpatizzante borbonico», schierandosi nettamente a favore della reazione napoletana alle bugie del Risorgimento e alla denigrazione di origine settentrionale.

Il generale Cialdini sempre più sgradito al Comune di Napoli

Angelo Forgione Il Consiglio comunale di Napoli, nel corso della seduta del 20 marzo, ha approvato la modifica dello statuto con cui si riconosce a Napoli il ruolo di “Città di Pace e di Giustizia”. Inoltre, dando seguito al confronto sulla storia e l’identità di Napoli nel contesto del Meridione e del Mediterraneo tenutosi l’11 marzo in Commissione Cultura, si è discusso, tra i vari ordini del giorno, dell’istituzione di una giornata giornata della memoria del popolo meridionale e della revoca del della cittadinanza onoraria al generale Enrico Cialdini, responsabile dei massacri di civili a Pontelandolfo e Casalduni, nel Beneventano, del bombardamento di Gaeta e di altri atti dispotici nel periodo dell’invasione sabauda nel Mezzogiorno d’Italia. La cittadinanza al Generale dell’esercito del Regno di Sardegna fu conferita il 21 Febbraio del 1861 dal Decurionato di Napoli, presieduto dall’allora sindaco Giuseppe Colonna, a conclusione dell’assedio di Gaeta che aveva decretato la scomparsa del Regno delle Due Sicilie. Giuseppe Colonna aveva “ereditato” la carica dal dimissionario Andrea Colonna, nominato Sindaco con decreto di Giuseppe Garibaldi del giorno 8 settembre 1860, al principio del periodo dittatoriale della Città.
Nel corso della discussione dell’ordine del giorno, approvato all’unanimità, ha preso la parola Luigi De Magistris, sollecitato dal consigliere Andrea Santoro a cogliere l’invito unanime del Consiglio a proporre all’ente Camera di Commercio di Napoli di rimuovere il busto di Cialdini dal salone delle contrattazioni del palazzo dellal Borsa. Il sindaco ha riferito di essersi già attivato per procedere alla revoca della cittadinanza onoraria conferita a Cialdini. «Sin dal primo momento – ha detto il Primo Cittadino – questa amministrazione ha avuto grande attenzione per la toponomastica. Mettere la storia al suo posto significa anche revocare la cittadinanza a Cialdini. Presto inaugureremo l’area dedicata ai Martiri di Pietrarsa e continueremo, perché la gente che legge il nome di una strada o vede un monumento deve capire qual è la storia di Napoli. Auspico che il Consiglio si pronunci all’unanimità, perché comunque andremo in quella direzione per dire a tutti che la Città di Napoli ha revocato la cittadinanza a chi si è macchiato di crimini orrendi nei confronti del popolo meridionale».
Il successivo ordine del giorno ha riguardato l’istituzione di una giornata della memoria del popolo meridionale, con relative modifiche ai programmi e ai testi scolastici per il ripristino della verità storica sull’Unificazione d’Italia, alle intitolazioni di strade e piazze e conseguente rimozione di monumenti dedicati a discussi personaggi del Risorgimento. Quest’ordine del giorno, per la sua complessità, è stato rinviato ad un maggiore approfondimento in Commissione Cultura.

Stampa estera: “Autostima napoletana allo stadio”

Ancora un altro approfondimento da oltreconfine sull’identità meridionale e sui significati del calcio per i napoletani di oggi. Tratto dal portale informativo Playground, con redazione a Barcellona, la traduzione di un articolo, con voci di Angelo Forgione, Marco Rossano e Gennaro De Crescenzo.

playground_meridionalismo

Autostima grazie al gol: così si prepara un esorcismo alla napoletana

Più che una città, una tribù. Più che una squadra, uno stato d’animo. Stufa degli insulti e dei luoghi comuni, Napoli mostra la sua forza politica.

“Vedi Napoli e poi muori scrisse Goethe nel XVIII secolo circa la bellezza attrattiva di Napoli.

Vedi Napoli e poi muori! … per il disgusto o per un colpo di pistola: così completerebbe oggi la frase un divertito antinapoletano. Entrambe si riferiscono alla città forse peggio narrata in Europa, che ora deve affrontare il Real Madrid con il suo migliore e simbolico esercito, la SSC Napoli.

L’immagine della città è ora camorra, rifiuti e degrado, mentre prima era la pizza, la musica e il sole. Quando vi è un forte potere della camorra, la delinquenza si mantiene più o meno bassa, è controllata. Quando vi sono arresti e detenzioni, mancano alternative. Per questo molte volte si “sostiene” la criminalità, perché garantisce una sicurezza simile a quella che qui in Spagna offre la Guardia Urbana”, ci dice Marco Rossano, sociologo residente a Barcellona da molti anni e uno dei 10.000 napoletani che saranno al Bernabeu.

Rossano fa parte della più grande comunità straniera a Barcellona: 25.000 italiani, di cui si stima che un terzo proviene da Napoli e dintorni. Quando gioca il Napoli è quasi impossibile trovare un posto al bar Blau. “Il calcio è molto importante per la nostra comunità. Noi ci riuniamo lì, parliamo in napoletano, mangiamo cibo napoletano, ascoltiamo musica napoletana e vediamo il Napoli”, riassume. Combattono così la “napolitudine”, una parola secca che definisce la nostalgia dei figli del Vesuvio che hanno lasciato la loro terra in direzione del nord o verso ovest.

È una ferita ingigantita dagli insulti. Tutti i napoletani vengono chiamati terroni e descritti con termini come cazzimma o scugnizzo, espressioni che alludono a comportamenti egoisti, quasi asociali.

Il cliché patisce il clima degli stadi italiani, soprattutto al Nord, dove a tutti i napoletani si augura la morte col coro xenofobo ‘Vesuvio, lavali col fuoco’. Anche per questo, la tifoseria partenopea è quella italiana che ha la fama di essere la più violenta.

Lo scrittore e ricercatore napoletanista Angelo Forgione smentisce questa reputazione con i dati. Gli ultimi dati dell’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive del Ministero dell’Interno sono chiari: le tifoserie più coinvolte in atti di violenza sono quelle della Lazio, con 5, Brescia con 4 e Ascoli e Roma con 3. Chi ha causato più feriti sono i tifosi dell’Ascoli, 17, seguiti da quelli della Roma (15), Lazio (14), Brescia (13), Inter (12) e Juventus (11). Nel totale annuale dei Daspo è in testa la tifoseria del Bari con 109 provvedimenti, poi i romanisti, i bresciani, gli juventini e infine i napoletani. E non dimentichiamo che Ciro Esposito, l’ultima vittima in ambito calcistico, era napoletano, e fu ucciso da un romanista di estrema destra, afferma l’autore di libri come Made in Naples e Dov’è la vittoria.

Napoli è intensa e ricca di simbolismi … che pure si è tentato di cancellare.

Uno delle peggiori umiliazioni è stata vedere i tifosi rivali del Nord, gli juventini, cantare ‘O surdato ‘nnammurato, l’inno della città, a mo’ di presa in giro. “Come se ci volessero levare anche questo, forse perché non hanno identità, me non c’è bisogno di ricordare a tutti che O Sole Mio non è una canzone italiana ma napoletana”, dice Rossano, che ammette che negli ultimi tempi, a causa degli attacchi, forse, i napoletani si sono chiusi. Questa chiusura, lontana dal diventare un localismo semplicistico e folcloristico, sta sviluppando correnti politiche e culturali che hanno fatto in modo che le bandiere borboniche del Regno delle Due Sicilie abbiano sostituito quelle italiane.

“I tifosi hanno adottato lo stemma delle Due Sicilie come simbolo identitario. Anche il club ha sposato la simbologia con felpe e magliette ufficiali che hanno fatto registrare un record di vendite”, dice Forgione. Di fatto, lo Stato sovrano borbonico, tra il 1734 e il 1861, ha fatto dell’Italia meridionale una delle nazioni più prospere di tutt’Europa.

Il Movimento Neoborbonico esiste dal 1993. Il suo obiettivo è quello di ricostruire la storia del Sud e l’orgoglio di essere meridionali, secondo il suo presidente Gennaro De Crescenzo. “Dal momento in cui sono stati cacciati i Borbone ed è nata l’Italia unita, il Sud ha perso tutta la sua grandezza culturale, economica e finanziaria, e ha acquisito un ruolo negativo”, ci dice De Crescenzo, che parla anche di un futuro “Sud indipendente e unito, o almeno confederato con il resto d’Italia.

Significa rivendicare una Casa Reale diffamata attualmente anche in Spagna? Rossano, anche fondatore del movimento politico MO! Unione Mediterranea, chiarisce: “Nessuno vuole far ritornare i Borbone, pur avendo fatto meglio di molti politici italiani. Rivendichiamo il momento in cui la nostra storia si è fermata. Quella bandiera è un simbolo dell’ultimo momento in cui siamo andati indipendenti”. Per Forgione, l’approccio alla tematica è simile. “Non rivendico di certo la monarchia borbonica ma faccio luce su ciò che ruota attorno la storia di Napoli. Rivendico semmai il ruolo di Napoli nella storia d’Italia e d’Europa, e cerco di riportarla al centro della cultura europea di oggi, il posto che la città merita.

Quando si pensa alle monarchie, si pensa alla destra, ma a noi non interessa la questione politica. Uno dei nostri slogan è ‘né di destra, né di sinistra: del Sud!’ “, afferma De Crescenzo.

Nei libri e in televisione – ma anche in aree accademiche – il revisionismo è, nelle parole di De Crescenzo, un “trend”. Non è difficile vedere lui stesso, o Forgione, o Pino Aprile (autore di un bestseller del revisionismo del Sud), tenere accesi dibattiti su argomenti tabù dell’unificazione italiana, ad esempio le pregioni piemontesi. Aprile, nel suo ultimo libro Carnefici, parla di più di mezzo milione di “uomini rubati al Sud” nel processo della nascita d’Italia. Molti pagarono con la propria vita.

Da allora, dice De Crescenzo, non abbiamo gli stessi diritti del resto degli italiani: lavoro, servizi, infrastrutture, opportunità o speranze. Prima non eravamo un popolo di emigranti. Oggi Napoli si identifica con la sporcizia e la malavita, con la camorra e con Gomorra, dice in riferimento al successo della fiction Sky basato sul libro di Saviano. “Tantissimo attenzione per questa Napoli e poca per la sua bellezza, forse perché un popolo umiliato è più facile da colonizzare”.

Emerge quindi il ruolo del Calcio Napoli come esercito disarmato, simbolico, dell’autostima della terza città d’Italia per grandezza. “Quando il Napoli sfidò il Chelsea in Champions League, l’allenatore Villas-Boas disse: «Il Napoli non è solo una squadra, ma è lo stato d’animo di un’intera città»”, dice Forgione. “Il club azzurro è l’unico vero gigante del Sud, l’unica squadra meridionale capace di lottare per i primi posti della Serie A, mentre il resto del Sud a stento si affaccia alla Serie A. Se poi consideriamo che il Sud-Italia e la Grecia sono i territori più poveri dell’Eurozona, e che il Napoli è l’unico club di questi due territori che disputa la Champions League, allora possiamo capire cosa significhi il Napoli nel calcio moderno.

Il Napoli è una nazionale, e chi lo nega nega la realtà di un luogo che con molta facilità appare irreale. Solo lì può accadere che qualcuno, dopo aver vinto lo scudetto 87, scriva davanti al cimitero per comunicare con i morti e dirgli ‘che vi siete perso’. Irreale e senza tempo, come la definizione che dei napoletani ha lasciato un ammirato Pasolini, figlio del Nord: “sono una grande tribù che ha deciso di estinguersi, restando fino all’ultimo napoletani, cioè irripetibili, irriducibili ed incorruttibili”.

Gli eroi della tribù sono molti, da Diego ad Hamsik, da Vinicio a Gennaro Iezzo, il portiere che accompagnò la squadra a toccare il fondo della Serie C1 e con la squadra risalì in A. Come Iezzo, il tempio del San Paolo non negozia il suo impegno per la causa. Con creatività, anche perché i tifosi del Napoli hanno reso celebre un coro che è di gran moda in altri campi, anche in Spagna.

E accaduto un anno e mezzo fa, quando una delle curve ha adottato un classico degli anni ottanta del pop italiano, L’estate Sta Finendo dei Righeira. Come un gigantesco esorcismo, appena scatta l’85° minuto le gambe dei calciatori tremano e la tribù canta:

Un giorno all’improvviso, mi innamorai di te
il cuore mi batteva, non chiedermi perché
di tempo ne é passato e sono ancora qua
e oggi come allora difendo la città.

Questa è, evidentemente, una canzone d’amore e di resistenza.

Tremonti: «Vogliono che l’Italia faccia la fine che i piemontesi hanno fatto fare alle Due Sicilie»

Angelo Forgione Giulio Tremonti, ex ministro dell’Economia dei governi Berlusconi, e Ferruccio De Bortoli, ex direttore del Corriere della Sera, ospiti a In 1/2 ora di Lucia Annunziata, hanno affrontato Il tema del futuro dell’economia italiana alla luce della proposta avanzata dalla cancelliera tedesca Angela Merkel di un’Europa a due velocità, con un gruppo di testa.
Secondo Tremonti, i tedeschi non vorrebbero gli italiani nel gruppo guida perché «ci vogliono far fare la fine che i piemontesi hanno fatto fare al Regno delle Due Sicilie». E ha aggiunto: «Credo che nello spirito dei tempi e nell’andamento della storia si apra una fase sovranista, che non vuol dire chiudersi ma difendere quello che hai e valorizzarlo sull’esterno. Lo stanno facendo Usa e Germania, lo deve fare l’Italia. Non possiamo continuare a farci portar via la nostra roba. Il destino dell’Italia non è quello del non povero Regno delle Due Sicilie».
Nelle parole dell’economista lombardo, che dimentica di dire che la Lombardia si era unita al Piemonte, insorgerebbe per l’Italia un’esigenza protezionistica-sovranista, proprio quella per cui la storiografia risorgimentale ha condannato Ferdinando II di Borbone, statista non disposto ad indebolire l’economia del Mezzogiorno d’Italia per beneficio di interessi stranieri. Inghilterra e Francia fecero in modo che un indebitato Piemonte colonizzasse e devitalizzasse le Due Sicilie. Nacque un paese unito caricato del debito pubblico piemontese, debole economicamente e politicamente. Nulla è cambiato. A proposito, per Ferruccio De Bortoli, per non sprofondare «ci vogliono statisti veri e seri».

Ulisse legge Made in Naples

Angelo ForgioneUlisse, il piacere della scoperta, la fortunata trasmissione Rai di Alberto Angela, per la redazione della puntata dedicata a Napoli, ha utilizzato, tra le varie fonti, anche Made in Naples, come testimonia la storia del caffè tratta più o meno fedelmente dal relativo capitolo sul libro. Peccato però che non sia stata fatta citazione nei credits di chiusura. Poco male. L’importante è rimettere a posto la storia e anche smentire i luoghi comuni sulla specificità dell’espresso napoletano.

ulisse

Le relazioni tra USA e Sud-Italia compiono 220 anni

Angelo Forgione Il 16 dicembre del 1796 nascevano le relazioni diplomatiche tra il Sud-Italia e gli Stati Uniti. A Napoli veniva inaugurata la settima sede consolare degli States nel mondo, quella che è oggi la più antica rappresentanza degli USA in Italia. Primo agente consolare fu John S. M. Matthiew. Gli statunitensi erano diventati indipendenti pochi anni prima, e avevano stilato la loro Costituzione anche grazie all’intenso rapporto epistolare tra Benjamin Franklin e Gaetano Filangieri, la cui opera Scienza della Legislazione, contenente il “diritto alla felicità” inserito Carta costituzione a stelle e strisce, era divenuta manifesto di libertà delle colonie europee d’oltreoceano. Nel frattempo i francesi entravano nel Nord-Italia, inaugurando il triennio giacobino, e si avviavano a sconvolgere lo Stivale per un un ventennio. Lo stato meridionale dovette in seguito pagare 1.500.000 ducati napoletani agli americani per indennità dalle perdite inflitte da Murat (depredazioni, sequestri, confische e distruzione di navi statunitensi con i carichi) dal 1809 al 1812.
Avrete capito che gli States allacciarono rapporti col Regno di Napoli e Sicilia, e solo con l’Unità iniziarono a dialogare con altri territori italiani. Trent’anni dopo l’avvio delle relazioni, tramontato ormai l’Impero napoleonico, Napoli ritenne di accreditare Ferdinando Lucchesi, un proprio rappresentante diplomatico, negli States, e già nel 1844 le Due Sicilie vantavano un consolato a New York e dei vice-consolati a Filadelfia, Boston, New Orleans, Baltimora, Charleston, Richmond, Savannah, New Heaven e Providence (gli ultimi due successivamente chiusi e sostituiti da San Francisco, Key West e Norfolk). A questi corrispondevano gli agenti consolari americani a Palermo, Catania, Messina, Trapani, Taranto, Brindisi, Barletta, Monopoli, Pozzuoli e Mazzara.
Gli ultimi anni di vita dello Stato borbonico furono caratterizzati da un notevole sviluppo dell’interscambio commerciale tra Due Sicilie e Stati Uniti, improntati alla cordialità, anche se numerosi incidenti diplomatici si verificarono per la simpatia liberale di parte dell’opinione pubblica statunitense. La fine dello Stato napoletano vide l’adesione al governo unitario del console generale duosiciliano Giuseppe Anfora di Licignano al governo unitario sabaudo, che agì come incaricato d’affari ad interim dal 24 settembre 1860 al 15 dicembre 1861.
grand_hotelL’attuale sede del Consolato USA per i distretti di Campania, Molise, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia, in quel posto paradisiaco che è il lungomare di via Caracciolo a Napoli, fu edificata dopo la Guerra in luogo del Grand Hotel (molto simile all’esistente Excelsior, come può notarsi nella foto; ndr), bombardato e raso al suolo dagli Alleati anglo-americani. Purtroppo anche gli yankees, dal 1943 in poi, avrebbero causato non lievi danni al tessuto sociale del Sud d’Italia, tra potenziamento del potere mafioso e accordi politici con l’alta imprenditoria settentrionale.
I 220 anni di relazioni tra USA e Sud-Italia vengono celebrati da un video-messaggio della Console Generale Mary Ellen Countryman, nel rispetto della storia, che è ancora oggi ben vivo tra i diplomatici americani. Già nel 2011 David Thorne, l’Ambasciatore in Italia sotto l’amministrazione Obama, sottolineò che l’amicizia tra gli Stati Uniti d’America e il Regno delle Due Sicilie aveva compiuto 215 anni, più antica di quella con l’Italia che aveva 150 anni.