Una settimana da D10S

Angelo Forgione Sette giorni senza Diego, e ancor non si placa l’onda emotiva che si è alzata dopo la sua scomparsa, capace di mettere in secondo piano addirittura la pandemia mondiale e ogni altra attività umana. Vi è, e non sappiamo per quanto tempo ancora vi sarà, una vera fenomenologia religiosa, altro che pagana, intorno al lutto. Lumini, altarini, fiori, immagini, oggetti vari si sono accumulati in un collettivo pellegrinaggio di dolore nelle due patrie del defunto Re, luoghi dei più alti onori uniti da un ponte pindarico carico di pathos. Camera ardente alla Casa Rosada di Buenos Aires ed effigie tra le statue dei Re sul portone del Palazzo Reale di Napoli.

Qualcuno, lontano dal ventre di questo vortice, ritiene tutto ciò un isterismo di massa, un fanatismo cieco e irrazionale, e non è che sbagli. Ma isterismo e fanatismo accompagnano sempre la fine dei grandissimi e imprimono la portata di una epocale scomparsa.

Il fatto essenziale è che ci siano scoperti piccoli di fronte alla grandezza di un personaggio omaggiato in tutto il globo, minuscoli di fronte al pallone, la vera religione del mondo moderno, che ha reso il suo pontefice più ecumenico di un papa, che planetario come Diego non è, dacché la cristianità non è di tutto il mondo.

È il momento di interrogarsi sull’impatto globale che ha avuto la notizia della morte di Dieguito. Milioni di cuori spezzati e commozione per un uomo che sembrava inadeguato, ormai non più all’altezza dell’immenso calciatore che era stato trent’anni prima, al tempo in cui aveva interpretato la figura del supereroe in carne ed ossa. Sì, proprio supereroe. Ogni bambino, indossando la 10 del Napoli, dell’Argentina o del Boca, si era sentito invincibile calciando su un campetto e per la strada, e quell’uomo tondo e sgraziato che Diego era diventato sembrava solo la caricatura di quel che era stato un tempo. Sembrava, perché la sua carcassa non era che mutata custodia di quell’eroe greco che attendeva l’appuntamento con la morte per trasformarsi in mito intramontabile. Un mito che, una volta scomparso l’involucro terreno in cui era stato incubato, abbiamo scoperto essere amato dappertutto, al di là della venerazione dei suoi tifosi di sempre. Pensavamo essere “solo” l’eroe dei due mondi, la luce del patriottismo argentino e napoletano, e invece abbiamo capito che era l’eroe del mondo, incarnazione della forza del Genio che convive con l’umana debolezza, amato perché autentico nelle contraddizioni che appartengono al genere umano.

Tra tutti quelli che l’hanno conosciuto non c’è nessuno che ne abbia parlato male, prima e dopo. Tra tutti quelli che l’hanno frequentato non c’è una sola persona che, oggi come ieri, non ne sottolinei l’umanità e l’altruismo.
Ma come è possibile? Un uomo perso nei vizi, distrutto dalla sua vita dissoluta, che riceve onori da gran capo di stato e suscita così tanta commozione in ogni angolo del pianeta? Ma vuoi vedere che questo regalagioie deviato e chiacchierato, alla fine, sapeva amare il prossimo suo e lo faceva in silenzio?

Chiedete chi era a chi l’ha frequentato, che sapeva quanto fosse solo e a disagio nella sua fama oppressiva, alla ricerca di amici veri che lo considerassero un uomo, non un dio. Non chiedetelo a chi non l’ha avuto vicino un solo minuto della sua vita e in questi sette giorni non si è tolto il cappello dal capo e la sciarpa bianconera dal collo, pontificando sull’uomo sfatto, mai sciogliendosi in un applauso e semmai, lui vero miserabile, definendo miserabili coloro che lo hanno definitivamente sdegnato per questo. No, non chiedetelo a certe anime nere che, senza l’umiltà di Maradona, credono di essere un Maradona, e vivono l’esistenza nelle loro vuote convinzioni e in attesa di passare sul cadavere dell’avversario. Hanno atteso quello di Diego, inconsapevoli che la sua grandezza li avrebbe resi nervosi, minuscoli, ridicoli.

Vedendo Diego invecchiare male non mi sono mai fatto ingannare da quella carcassa che si trascinava sulle gambe doloranti e si esprimeva con sempre meno lucidità. Sapevo che dentro quel corpo alla deriva c’era un mito pronto a travolgere il mondo dei vivi saltando gli avversari, proprio come con gran atletismo faceva da giovane, e ho immaginato così, esattamente così, il giorno in cui sarebbe morto.
Dovevamo immaginarcelo tutti il giorno in cui sarebbe finito, e dovevamo aspettarcelo che sarebbe stata la sua morte a dare il senso definitivo alla sua esistenza al tempo del football, la più grande religione del nostro tempo.

Il sorriso che Napoli resituì a Mia Martini

Angelo Forgione – Era destino che ad interpretare Mia Martini fosse una napoletana, la bravissima e radiosa Serena Rossi. La fiction Rai non l’ha raccontato, ma Napoli fu un luminoso e caldo raggio di sole per l’artista calabrese nei suoi ultimi anni, il luogo che le diede riparo dalle sofferenze, mentre l’Italia dei manager, dei discografici, dei cantanti e dello showbusiness metteva in giro le peggio voci su di lei. Eppure si dice che i napoletani siano scaramantici come nessuno. Beh, si vede che in quanto ad umanità pure non siano battibili se è vero che in quelle tristi circostanze solo loro se ne fregarono della sua fama di jettatrice. Un giovane Enzo Gragnaniello, dopo averla vista cantare in una festa di piazza nel periodo più buio, scrisse per lei e la convinse a formare un trio eterogeneo con un anziano Roberto Murolo che spaccò l’hit-parade nel 1991, quando l’Italia li sentì cantare Cu’ mme, un brano in napoletano, non in italiano, divenuto popolarissimo in tutta la Penisola. Tutta Napoli la adottò, pure i tifosi azzurri, e lei ricambiò visceralmente, indossando la sciarpa del Napoli e andandosene a tifare più volte in curva al San Paolo. Lei, donna di quel feudo juventino che era ed è la Calabria, diventò sostenitrice del Napoli, di Napoli, perché sentì di essere a casa sua in una città che se ne fregava delle dicerie. Solo cinque giorni prima della morte era stata in Curva B per un Napoli-Inter. Alla sua improvvisa scomparsa, una bandiera azzurra spuntò sulla bara ai funerali a Busto Arsizio. I tifosi azzurri pittarono striscioni e intonarono cori per lei nella successiva gara a Fuorigrotta.
Dell’amore ricambiato di Mia Martini per Napoli non è spuntato nulla nella fiction, e non è omissione leggera, perché Napoli le restituì qualcosa di prezioso: il sorriso perduto. Ma poi resta il fatto che il destino ha voluto che a interpretarla fosse una napoletana verace, tifosa del Napoli, di nome Serena, proprio come la discriminata Mimì ogni qual volta metteva piede a Napoli.

Pino, un anno senza te

Era il 4 gennaio del 2015 quando la notizia della morte di Pino Daniele sconvolse i suoi fan e i napoletani tutti. A distanza di un anno esatto, all’ora esatta del decesso, la comitiva de la Radiazza di Gianni Simioli si è ritrovata al Gran Caffè Gambrinus per ricordare il cantautore che non c’è più. È stata una festa della gente, la stessa che “chiamò” i funerali in piazza del Plebiscito, inizialmente previsti solo a Roma. Canti, ricordi e riflessioni. E poi torta e spumante per scandire rispettosamente il primo anno d’eternità dell’artista, che continua a vivere soprattutto nelle sue canzoni ma anche grazie all’affetto del suo popolo.

In ricordo di Giancarlo Siani… 30 anni dopo

Angelo Forgione23 settembre 1985, 30 anni fa. Eravamo vicini di casa, ma non ci conoscevamo; tu più grande di me. Io pensavo a giocare in strada e tu sgomitavi per guadagnarti un lavoro. Quella sera rincasavi per una doccia, e poi via, allo stadio San Paolo per il concerto di Vasco. E invece ti portarono via con la tua sana incoscienza, la tua giovinezza, le tue speranze e persino i sogni di scudetto del Napoli di cui eri tifoso. Il rumore sordo degli spari silenziati non lo sentii dalla mia stanza, ma quello delle sirene di Polizia e ambulanza sì, quelle sì. Lo ricordo come fosse ieri. Un ragazzino che si trova davanti agli occhi quella scena finisce col rendersi conto delle difficoltà ambientali in cui è immerso, anche se vive in un quartiere bene assai lontano dalla provincia insanguinata e dai rioni bui dalla Napoli di piombo degli anni Ottanta, nella Campania in cui piovono i miliardi per la lenta, lentissima ricostruzione delle zone colpite dal terremoto. Anche il nostro idolo Diego Maradona era servito per stemperare le tensioni sociali, pensa un po’, ma credo che neanche tu, più maturo di me, potevi capirlo. Lì ho iniziato a crescere, a capire, senza mai dimenticare il tuo esempio di purezza e ingenuità, ed è anche per quel che ho visto quella sera che oggi amo raccontare la verità, scavare oltre le apparenze.
Eri un precario, mica un giornalista di punta! Ma lavoravi in modo impeccabile, e raccontavi con puntualità come la camorra, infiltrata nella vita politica, condizionava decisioni ed elezioni. Avevano deciso di amazzarti molti giorni prima, sicuramente dopo la pubblicazione di un tuo articolo su Il Mattino del 10 giugno in cui avevi rivelato che il boss di Torre Annunziata Valentino Gionta era stato arrestato per una soffiata ai Carabinieri fatta partire dal suo alleato Lorenzo Nuvoletta, al quale un terzo boss, Antonio Bardellino, aveva imposto invece l’omicidio del Gionta. Gli facesti fare una figuraccia a quel re ormai nudo che decise di mettere fine alla tua vita. Sì, non ti uccisero perché sapevi qualcosa di grosso e incutevi preoccupazione. Ti uccisero per una questione di onore, una volgarissima questione di onore. E perciò non immaginavi neanche lontanamente che potessero arrivare a tanto. C’era forse dell’altro, chissà?
A quel muro davanti al quale ti hanno zittito porto sempre il pensiero che mi stringe la mente. Disarmato e di spalle, in quell’angolo isolato e oscuro, ti colpirono due vigliacchi. Due contro uno. Due armati contro un disarmato. Alle spalle. Triplice codardia che non dimentico e non dimenticherò mai!

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Il Comune di Napoli ricorda (solo) i giacobini (e inciampa sull’Illuminismo)

Angelo ForgioneNei giorni scorsi, a cura del Comune di Napoli e dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, è stata scoperta una targa commemorativa presso l’entrata della Basilica del Carmine in ricordo del martirio dei giacobini napoletani. Giusto ricordare gli eventi drammatici che posero fine alla Repubblica Napoletana del 1799, con le circa 120 esecuzioni tra gli aderenti alla stessa, ma pure manca un ricordo per gli almeno 3000 napoletani del popolo che persero la vita nel tentativo di evitare l’ingresso in Città delle milizie francesi del generale francese Jean Étienne Championnet.
Furono mesi, quelli da gennaio a giugno, molto difficili, sporcati da sangue, morte e barbarie, che impressero una ferita mai rimarginata. La cultura locale è da allora spaccata tra giacobini e sanfedisti, tra repubblicani e monarchici, ma ogni contesa che genera accesi estremismi e distanti fazioni finisce con lo scompaginare gli eventi e renderli poco chiari. La Storia di Napoli è complessa e va invece analizzata serenamente, senza nostalgie, recriminazioni e strumentalizzazioni. Accade quindi che anche il Comune di Napoli incappi in un non lieve errore storico nel comunicato stampa della Giunta (leggi qui), parlando di martirio degli “illuministi napoletani”. Gli uomini della Repubblica Napoletana non erano illuministi ma più correttamente colti esponenti della borghesia filomassonica. Gli illuministi, i riformatori che fecero di Napoli il centro universale dei Lumi, erano stati Pietro Giannone, Giambattista Vico, Bartolomeo Intieri, Ferdinando Galiani, Antonio Genovesi e Gaetano Filangieri. Gli eccezionali scritti di quest’ultimo animarono gli intellettuali della Repubblica, ma il giurista napoletano aveva sostenuto e consigliato il primo ministro monarchico Bernardo Tanucci; e prima ancora, Antonio Genovesi aveva sostenuto la monarchia illuminata di Carlo di Borbone. Certamente un anello di congiunzione tra il giacobinismo e l’illuminismo furono alcuni figli della dottrina economica di Antonio Genovesi, tra cui spiccava Francesco Mario Pagano; ma questi, dopo l’assorbimento degli influssi rivoluzionari, deviarono il grande Pensiero napoletano rivolto alla soluzione dei problemi locali verso la corrente francese nata da una piattaforma sociale diversa. Quella parte di borghesia massonica era pure stata a Corte, ben vista e agevolata dalla massona Maria Carolina (Eleonora Pimentel Fonseca sua bibliotecaria, Domenico Cirillo suo medico, etc). Fu proprio grazie alla regina che accrebbero posizione e influenza. Tradirono la grande fiducia che la sovrana concesse loro per riformare il Regno quando il Gran Maestro napoletano Francesco d’Aquino fu rimpiazzato nel ruolo di favorito dall’inglese John Acton. Ripicche politiche da perdita di influenza, insomma, e ancora nel 2015 si confonde l’Illuminismo napoletano col giacobinismo, che fu invece il sottoprodotto dell’esterofilia della dotta borghesia filomassonica.
Bisogna anche chiarire il concetto di “rivoluzione”, e chi la fece. Una rivoluzione la fa il popolo, e il popolo, in quei mesi turbolenti, fece la resistenza. Il resto furono intrighi politici e interessi personali annegati purtroppo nel sangue. La “rivoluzione” partenopea non fu compiuta dal popolo napoletano e neanche dagli intellettuali della borghesia, bensì dalle milizie francesi, con lo scopo di assorbire soldi e opere d’arte in città. Dieci anni di tasse non pagate dai cittadini francesi dopo la Presa della Bastiglia necessitavano di rimedio, e l’Italia offriva liquidità da spremere nonché la nuova moda europea del momento, scoppiata col rinvenimento dei reperti vesuviani operato: il Neoclassicismo. Il temibile esercito francese, tra grandi resistenze, entrò a Napoli anche grazie ai giacobini napoletani, che aprirono il fuoco alle spalle del popolo da Castel Sant’Elmo, lasciando a terra migliaia di corpi esanimi. Erano napoletani, popolani, che cercavano di fermare l’ingresso del più forte esercito d’Europa con una strenua resistenza, ammirata dal generale Championnet, lo stesso condottiero che, come testimonia la pubblicazione Souvenirs du général Championnet (Flammarion – Parigi, 1904), annunciava con delle lettere inviate al ministero dell’Interno del Direttorio di Parigi la spedizione di gessi, statue, busti, marmi e porcellane di pregio trafugate a Napoli (lo straordinario pieno di opere d’arte in Italia e oltre consentì a Napoleone di riorganizzare nel 1800 l’esposizione del Louvre). Persino l’Ercole Farnese, principale obiettivo francese, fu imballato e approntato per andare a Parigi. Non partì perché i transalpini indugiarono. Eleonora Pimentel sapeva e qualcosa pure la raccontò sul suo Monitore Napoletano (la sottrazione di tutte le collane d’oro dispensate ai cavalieri del Toson d’Oro). Lei e tutti gli intellettuali giacobini sostenevano la tesi di Parigi per cui la Francia era l’unica nazione capace di garantire l’inviolabilità delle grandi opere e garantirle all’umanità nei secoli futuri.
E fu sempre il popolo a riprendersi la città e il Regno, dopo neanche sei mesi, approfittando dello sbandamento delle truppe napoleoniche, via dall’Italia dopo gli affanni di Bonaparte in Egitto e ovviamente disinteressato a dare protezione agli uomini della Repubblica Napoletana, che nel frattempo non avevano prodotto alcuna riforma politica. Non conoscevano le necessità del popolo, dimostrando di non  aver recepito l’altissimo insegnamento di Genovesi. I dotti massoni di Corte tradirono, sapendo a cosa andavano incontro. Il tradimento, ai quei tempi, era punito dappertutto con la pena capitale. Sapevano anche di mancare di adesione popolare ma erano sicuri di essere protetti dai fortissimi francesi. Fecero male i loro calcoli.
Stime ufficiali indicano circa 3.000 morti a Napoli, ma ne furono di più nell’arco di quei sei mesi; il generale francese Paul-Charles Thiébault, tra i protagonisti di quelle vicende, trascrisse nelle sue memorie la stima di 60.000 vittime in tutto il Regno, limitata ai primi mesi del ‘99. Morti che sembrano non aver mai pesato sul bilancio tra le parti.
E allora, di quale rivoluzione si continua a parlare a distanza di più di due secoli? Qualche anno fa, in una puntata del programma televisivo Passepartout di Philippe Daverio, Nicola Spinosa, ex Sovrintendente Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico di Napoli  (premiato nel 2008 col “FIAC Excellency Award 2008” come uomo che ha più contribuito alla diffusione della cultura italiana negli Stati Uniti), si espresse con toni molto duri nei confronti di chi continua a raccontare male e faziosamente la storia, definendo quella che ancora oggi tramandiamo come “rivoluzione napoletana” come qualcosa che non ha lasciato alcun segno nella cultura della Città, «un recupero storicistico operato da certi settori dell’intellighenzia napoletana» (guarda qui). Settori che hanno stimolato la realizzazione della nuova targa commemorativa in piazza Mercato e che però spingono per dimenticare le migliaia di morti tra il popolo napoletano perché poveri, incolti, straccioni.
Dunque, se è vero che per la repubblica il popolo è sovrano, ricordiamo anche il massacro dimenticato di migliaia di “lazzari” oltre alle notissime decapitazioni tra la borghesia partenopea… per rispetto della Storia e in nome dei diritti civili e della Libertà.

In ricordo di MASSIMO TROISI… il sessantunenne

(Ricordo di Massimo Troisi già proposto in passato. Per non dimenticare)

Sessantuno anni fa nasceva un vero Napoletano. All’alba del 1994, Massimo Troisi, affetto da problemi cardiaci, si recava negli Stati Uniti per dei controlli e apprendeva che doveva sottoporsi con urgenza a un nuovo intervento chirurgico, ma decideva di non rimandare le riprese del suo nuovo film “Il postino”, terminate con enorme fatica e con il cuore stremato, facendosi sostituire in alcune scene da una controfigura. Troisi moriva il 4 Giugno 1994 nel sonno, 12 ore dopo aver terminato le riprese, nella casa della sorella Annamaria e in compagnia del suo più grande amico d’infanzia, Alfredo Cozzolino, a Ostia. A 41 anni, lasciava un vuoto incolmabile nella cinematografia italiana e nel cuore dei Napoletani. Lasciava Napoli orfana di un vero paladino, un artista consapevole che non aveva mai umiliato la napoletanità, mai svendendola ai soliti luoghi comuni e imponendola invece a tutto il paese anche attraverso l’uso spregiudicato e orgoglioso della lingua madre.

Massimo Troisi meridionalista sul palco


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La napoletanità di Troisi

(di Claudia Velardi)

Troisi, nonostante fosse per un ribaltamento del classico cliché napoletano (tipologia dei personaggi, recitazione, idee…), auspicava ad un recupero ed a una valorizzazione della napoletanità.  Uno degli scopi principali di Massimo Troisi era quello di riuscire ad essere popolare in tutt’Italia, nonostante le grandi differenze regionali del nostro Paese, e questo perché era convinto che il patrimonio artistico e culturale non può esser limitato da latitudini o steccati.  Far ridere é sempre stato difficile, ma non bisogna mai analizzare troppo il substrato, i meccanismi e le motivazioni della comicità.
Nella comicità partenopea, Troisi è stato un innovatore ed è stato prima specchio di se stesso e poi della sua gente. La fisicità di questo attore si esprimeva indubbiamente al meglio con le esibizioni dal vivo, che gli permettevano un rapporto col pubblico più caldo e diretto.  Troisi si rinnovava in continuazione, utilizzando per la rappresentazione della nuova napoletanità, nuovi linguaggi e forme espressive originali. La napoletanità di Troisi è un processo che va avanti per antitesi e per opposti: da una parte la rinnega e dall’altra la ricerca continuamente e disperatamente.  Il rapporto che Troisi, quindi, intraprende con Napoli e con la “napoletanità” è essenzialmente d’amore, ma è un amore vissuto da lontano, come tutti quelli più grandi c’è una punta d’odio, che gli consente però di capire quanto ami la sua città e quanto sia importante preservare il patrimonio artistico e culturale, pur cambiandolo e rinnovandolo.
Napoli è inserita in ogni sketch, in ogni film di Troisi, ed è un po’ un filo conduttore che attraversa la sua produzione.  Massimo Troisi, come disse lui stesso in un’intervista, era una parte di Napoli e, a sua volta, Napoli era una parte di se stesso. Anche quando non compariva direttamente, c’era, non come realtà specifica o particolare, ma come frammento di una realtà di più ampio respiro che varca i confini regionali.  Napoli, la napoletanità, sono per Troisi non solo folklore: sono anche lo specchio dello smarrimento esistenziale, del crollo di certe ideologie e dell’inaccettabile rassegnazione che appartengono al vissuto di tutti e non solo dei napoletani. Del resto i personaggi interpretati da Troisi parlano, è vero, napoletano ma potrebbero parlare qualsiasi altro dialetto.  Napoli è stata sempre una città complessa e difficile da capire e interpretare, ma Troisi lo ha fatto, anche sfruttando i moltissimi stimoli creativi provenienti da essa.
Troisi nella sua napoletanità, ci ha immesso qualcosa di veramente innovativo, anche rispetto ai grandi del passato: il superamento dei confini linguistici, razziali, interpersonali, ma specialmente amorosi. Sembra, infatti, strano che una ragazza possa dirigere le fila di un rapporto di coppia con un ragazzo del sud; ma invece è cosi, e quindi, anche in questa relazione si estrinseca una nuova maniera di essere napoletani ed accettare certe “nuove” situazioni; c’è, però, a questo punto un fatto fondamentale da chiarire: nei primi film di Massimo Troisi, ci troviamo quasi sempre di fronte a storie che raccontano il modo di essere napoletani e non Napoli come città.
La napoletanità vera e propria incarnata dall’attore è molto più evidente (come elemento di confronto e scontro con altri tipi di culture) nei personaggi di altri film girati da Massimo con altri registi, come i tre con Ettore Scola e “Hotel Colonial” della Torrini.  L’attore nei suoi film, ci dice che le banalità che si dicono e si scrivono su Napoli e i suoi abitanti, sul suo mare e sul suo Vesuvio, sono decisamente troppe. La vita a Napoli è, invece, ben altra cosa: è un’arte sottile.
W.A. Goethe diceva che solo a Napoli ognuno vive in una inebriante dimenticanza di sè. Napoli e tutto il suo cinema, con il sorriso ed il sentimento, aiutano l’intelligenza nel mestiere di vivere.

Pietrarsa, 1863-2013. Napoli ricorda.

150 anni fa, a Pietrarsa, la prima strage del lavoro della storia d’Italia, ben prima di quella americana che inaugurò il 1 maggio nel mondo. Chi conosce questa storia, ha “apparecchiato” da anni questa data affinché una pagina dimenticata della storia nazionale venisse fuori e le istituzioni ricordassero.
Oggi, col patrocinio del Comune di Napoli e non solo, il Museo ferroviario di Pietrarsa diventa punto di ritrovo per ricordare in forma solenne e culturale. È ora che anche i sindacati si rechino presto a ricordare quei tragici fatti in quello straordinario e simbolico luogo che è Pietrarsa in un prossimo 1 maggio italiano, affinché tutti sappiano, finalmente.
Intanto, il delegato del Sindaco di Napoli Luigi de Magistris alla Commissione Toponomastica, Andrea Balìa, ha ottenuto di recente la titolazione di una strada o una piazza, in fase d’individuazione, ai “Martiri di Pietrarsa”.

Il Napoli è grande, alcuni bolognesi molto piccoli.

sorteggio Champions LeagueAngelo Forgione – Il Napoli torna in Champions, viva il Napoli! È la dimensione che meriterebbe la città, è la dimensione che merita appieno la società sportiva calcio. Non c’è squadra in Italia che abbia fatto i progressi del Napoli nell’ultima decade, neanche la Juventus dei due scudetti che veniva da due settimi posti e dalla serie B per nefandezze, non per fallimento.
Il progetto Napoli avanza, è in fieri, e non prevede cedimenti improvvisi. I tifosi azzurri siano orgogliosi e sereni, al di là dei mugugni per le strategie di De Laurentiis e i limiti di Mazzarri. Già, Mazzarri, il vero protagonista di questo progetto, da trattenere a tutti i costi, purché lui sia ancora stimolato dal tentativo di vincere lo scudetto col Napoli e di giocarsi la Champions Legue. Walter è probabilmente il miglior allenatore della storia del Napoli, e di grandi tecnici ce ne sono stati sulla panchina azzurra. Giova ricordare che la mentalità vincente, a prescindere dal fattore campo, è una sua impronta, che ogni giocatore cui lui dà fiducia riesce a offrire il centoventi percento, che il suo staff riesce a ridurre al minimo, quasi nullo) gli infortuni e lo stress fisico. Perdere un tecnico così sarebbe problematico e De Laurentiis lo sa benissimo.
Il Napoli ha ora il dovere di proseguire il rafforzamento per puntare al vero grande obiettivo del prossimo anno: il tricolore. E dovrà provarci con la consapevolezza che la Champions porterà via energie. Ecco perché la panchina dovrà essere lunga e forte, ecco perché questo mercato sarà fondamentale per le ambizioni del Napoli, che di soldi da spendere ne ha. Cavani si o Cavani no? Tutti dicono che ormai sia già altrove ma a me questa vicenda non ha mai appassionato, così come quella di Mazzarri. Il continuo chiacchiericcio è fonte di inchiostro per i quotidiani da vendere e ha stufato. Ogni anno la questione Mazzarri e quella del top-player di turno in partenza agitano le acque. Ma Cavani non è affatto già altrove. Le offerte ci sono ma soddisfano solo il calciatore, non la società. Chi vorrà il matador dovrà assicurare l’intera somma della clausola rescissoria e in caso contrario toccherà al Napoli accontentare il calciatore con un sostanzioso ritocco sull’ingaggio. La partita è tutta qui.
Doveroso uno sguardo al vergognoso comportamento dei tifosi bolognesi, qualche decennio fa gemellati con quelli napoletani. Già lo scorso anno si era capito che anche dalla città delle due torri non c’era più da aspettarsi i tappeti rossi. Erano stati anche più disgustosi di ieri, non perché esultarono ai goal dell’Udinese mentre il Napoli scivolava via dalla zona Champions ma perché, oltre a tutto lo scibile delle nefandezze ascoltate ieri, se la presero pure con San Gennaro. Ieri si sono limitati all’invocazione del Vesuvio, proprio loro cui la terra trema tutt’intorno da un anno. Il Napoli e il Bayern Monaco, la scorsa estate, devolsero centomila euro a testa più l’incasso dell’amichevole disputata ad Arco di Trento (e vinta dal Napoli) a favore delle popolazioni emiliane. Figuriamoci se questi schiavi del malcostume ad ogni costo lo sanno, loro che hanno pure dimenticato che, in una fredda serata d’inverno di quattro anni fa al “San Paolo”, Napoli fu l’unica a ricordare la bandiera Giacomo Bulgarelli. Due numeri 8 giganti rossoblù formati da una quarantina di ragazzi stesi a terra nelle due metà campo, applausi di tutto lo stadio e  striscioni sugli spalti. Da Bologna qualche corretto tifoso ringraziò e qualcuno scrisse anche “noi sportivi rossoblù non dimenticheremo mai la grande umanità del popolo partenopeo”. Lo scorso anno, i tifosi azzurri erano a Parma a ricordare il bolognese-napoletano Lucio Dalla da poco scomparso con due vistosi striscioni e tanta commozione. Te voglio bene assaje e Ciao Lucio, mentre Caruso risuonava in tutto lo stadio “Tardini”. Mi piace pensare che ieri tre urla si siano levate in cielo, quelle di Lucio Dalla: “GOOOOL”. Aveva detto che la cicogna era cieca e che voleva rinascere a Napoli per essere napoletano a tutti gli effetti. Ora può venire con noi in Europa, senza vergognarsi dei suoi concittadini, cantando ‘o surdato nnammurato.

“Un poeta per amico”, delusione generale

“Un poeta per amico”, delusione generale

Il ricordo RAI di Massimo Troisi svilisce il personaggio

Delusione per l’omaggio della RAI a Massimo Troisi, a diciotto anni dalla sua scomparsa. L’attesa era tanta ma l’occasione si è rivelata in tutto il suo spreco. Trasmissione ricca di spessore artistico ma comunque slegata dal tema su cui è sorta che è risultato solo un pretesto per mettere in piedi uno show in prima serata ricco di contaminazioni pregevoli ma poco attinenti. Si è così finito per mutuare il tradizionale concerto dell’Epifania, non a caso prodotto dal centro di produzione RAI di Napoli.
Un ricordo del grande Massimo che tutta Napoli, e non solo, attendeva da quasi un ventennio andava organizzato diversamente, magari impegnando per tempo gli amici Lello Arena, Pino Daniele, Gianni Minà, Roberto Benigni, Renzo Arbore, Pippo Baudo e altri volti legati alla storia di Trosi che avrebbero dovuto riunirsi in un “salotto” televisivo per parlare di curiosità e retroscena inediti. E invece Enzo Decaro si è districato tra le belle ma decontestualizzate performance di Antonella Ruggiero, Amii Stewart, Enrico Ruggeri, gli Stadio, Tullio Solenghi, Massimo Lopez, Maddalena Crippa, Nicky Niccolai e Stefano Di Battista, Anna Pavignano e gli altri artisti napoletani. Fino alla preziosa chicca finale del canto dei nativi americani (stupendo!), un popolo colonizzato proprio mentre in Italia i meridionali subivano stessa sorte, che ha voluto rappresentare, senza spiegarla, la spiritualità di Troisi.
Trasmissione vista da 3.416.000 telespettatori (14,44% di share) che se non altro ha sdoganato ancora una volta l’idioma napoletano in prima serata, dando finalmente visibilità ad artisti di grande spessore poco reclamizzati come Antonio Onorato. Piaciuta ben poco e lo esterniamo alla RAI insieme a “La Radiazza” di Radio Marte, non per sterile polemica ma nella speranza che per il ventennale possa riparare all’errore con un vero ricordo. Massimo lo merita! Pagare il canone consente la lecita critica e qualsiasi giudizio sull’offerta. Chi volesse associarsi può mandare una mail ai seguenti indirizzi:

raiuno@rai.it –  ufficiostampa@rai.it – rai-tv@rai.it

Vergogna Bologna, vince in campo e perde fuori

Vergogna Bologna, vince in campo e perde fuori

Napoli saluta Bulgarelli e Dalla, Bologna invoca il Vesuvio

Angelo Forgione – Partiamo da un punto fermo: gli stadi non possono essere considerati una zona franca della società e lo dimostrerò più avanti. Detto questo, mi viene in mente il ricordo che Napoli dedicò a Giacomo Bulgarelli in una fredda serata di Febbraio del 2009. Due numeri 8 giganti rossoblù formati da una quarantina di ragazzi stesi a terra nelle due metà campo, applausi di tutto il “San Paolo” con il minuto di raccoglimento che fu onorato in quello stadio e non negli altri il giorno seguente. E poi striscioni sugli spalti. Da Bologna qualche corretto tifoso ringraziò Napoli, e qualcuno scrisse anche “noi sportivi rossoblù non dimenticheremo mai la grande umanità del popolo partenopeo”. Dopo tre anni, i tifosi azzurri erano a Parma a ricordare il bolognese-napoletano Lucio Dalla da poco scomparso con due vistosi striscioni e tanta commozione. “Te voglio bene assaje” e “Ciao Lucio” mentre “Caruso” risuonava in tutto lo stadio “Tardini”. E risuonò anche in piazza del Plebiscito la sera dell’inaugurazione delle World Series dell’America’s Cup quando Napoli volle salutare l’artista bolognese. Così come in tutti i palcoscenici napoletani dove gli artisti partenopei gli dedicarono un sentitissimo omaggio canoro.
Oggi, allo stadio “Dall’Ara” di quella Bologna dei due simboli Bulgarelli e Dalla, i tifosi bolognesi hanno pensato bene di indirizzare i soliti cori razzisti e blasfemi (povero San Gennaro!) contro i napoletani presenti e, peggio ancora, di esultare ai goal dell’Udinese segnalati sul maxischermo, di cantare a mo’ di beffa “‘O surdato nnammurato” così come avevano fatto già juventini e laziali.
10 e lode al Bologna per i valori di correttezza sportiva dimostrata in campo, 4 al Napoli per la prestazione, zero spaccato ai bolognesi sugli spalti che hanno offerto una brutta immagine della loro città mettendoci un livore immotivato e oltre le righe. Se oggi in tribuna ci fosse stato Dalla avrebbe certamente bacchettato i suoi concittadini che pure hanno festeggiato a fine partita sulle note di una sua canzone. Che non era la più celebre “Caruso”. Forse i bolognesi, oggi, cantando in lingua napoletana, volevano proprio omaggiare il cantautore di casa che divenne internazionale solo quando prese a comporre e a cantare Napoli, ad amare Napoli. Lui che voleva rinascere napoletano, da lassù si sarà sentito offeso. Qualcuno da Bologna ci spieghi il perchè di tanto accanimento, se c’è un motivo scatenante, e noi cercheremo di comprendere.
Ora non veniteci a raccontare come sempre che certe cose le fanno anche i napoletani. Si, lo sappiamo che a Napoli non ci sono i preti e le monache sugli spalti, ma il razzismo e l’ingratitudine disgustano, e se pure i napoletani ne siano mai stati responsabili, o lo saranno, sarebbero perdenti e stigmatizzabili come i tifosi del Bologna oggi. È il malcostume del calcio italiano che lascia l’amaro in bocca. E pensare che i bolognesi negli anni Ottanta erano al fianco dei napoletani e festeggiavano dai balconi lo scudetto virtualmente vinto nel ’90 dal Napoli proprio nella loro città. Segno che le cose, negli stadi così come fuori, sono sempre in notevolmente peggioramento.
Pensate che si parla solo di calcio? In questo caso riflettete su come siete assuefatti alla sottocultura italiana apprendendo che all’aeroporto “Marco Polo” di Venezia quattro passeggeri campani, correttamente in fila, si sono visti rifiutare l’imbarco con conseguenti offese e insulti. «Imparate a parlare italiano, se Napoli non ci fosse tutto andrebbe meglio», queste le parole al desk. Denuncia alla Polaria supportata dalle testimonianze di alcuni francesi, stupiti.
I viaggiatori hanno denunciato. Paolo Cannavaro, invece, ha perso un’altra opportunità per segnalare all’arbitro i cori “vesuviani”. Non fa più notizia, come i cori stessi. Ma solo quelli contro i napoletani, perchè la Fiorentina si è presa 15.000 euro di ammenda per i cori di discriminazione etnica indirizzati al serbo Ljajic.