Angelo Forgione – Il falso parto della pizza Margherita, quello del 1889, diviene sempre più oggetto di attenzione internazionale.
La prestigiosa testata americana National Geographic, tradotta in decine di lingue, si è interessata alla vicenda portata alla ribalta negli ultimi anni, a gran forza, dal sottoscritto ma non solo, mettendo in forte dubbio il romantico e folcloristico racconto dell’omaggio tricolore del pizzaiuolo Raffaele Esposito alla regina Margherita di Savoia. Braden Phillips, autore di un articolato scritto per la famosa rivista,, definisce “recenti ricerche” quelle che, condotte dagli “storici dell’alimentazione”, hanno individuato “diversi buchi-chiave nel racconto“. Nell’articolo si legge:
“Probabilmente il fatto più schiacciante è che il piatto esistesse almeno tre decenni prima della visita dei Savoia a Napoli”.
Phillips si riferisce alla descrizione delle pizze di Napoli fatta da Emmanuele Rocco negli anni Cinquanta dell’Ottocento in Usi e costumi di Napoli e contorni descritti e dipinti, in cui si chiarisce che, ovviamente a Napoli, in una delle tante combinazioni di metà Ottocento almeno finivano “foglie di basilico”, “sottile fette di muzzarella” e “pomidoro”.
Una delle tante combinazioni di condimento, non la più gettonata. Rifacendomi alla ricerca scientifica Sull’alimentazione del popolo minuto in Napoli, pubblicata nel 1863 dai medici Achille Spatuzzi, Luigi Somma ed Errico De Renzi, ho chiarito in Il Re di Napoli come a quel tempo fosse una pizza preparata soprattutto d’estate, non essendoci l’industria delle conserve di pomodoro:
“I Napoletani mangiano a dovizia le pizze: (…) condite (…) con pomidoro specialmente in està (…)”.
Le “recenti ricerche” cui fa riferimento Phillips sono quelle dalle quali ho poi chiarito che la pizza di Napoli, nei primi decenni unitari del Regno d’Italia, era considerata un cibo da sudici straccioni napoletani, come si evince dalla descrizione che ne diede agli scolari italiani Carlo Collodi nel 1886, definendola un “sudiciume complicato che sta benissimo in armonia con quello del venditore”.
Esistevano già le prime pizzerie, con tanto di tavoli, sedie e stoviglie, ma le pizze erano ancora vendute nelle strade di Napoli dai venditori ambulanti, a lungo infamati come pure ciò che proponevano e anche l’ingrediente che li imparentava alla pasta, il pomodoro, per anni considerato un segno di una meridionalità rozza e popolana. Dunque, l”italianizzazione” della pizza, tipica di Napoli, nascondeva il duplice scopo di creare affezione verso la Casa Reale e di restituire dignità al cibo di strada napoletano, danneggiato nella reputazione dalle diverse epidemie coleriche, soprattutto quella del 1884, di cui era divenuto, per molti timorosi, veicolo di contagio. I Savoia, che non potevano permettersi di trascurare i problemi sanitari di Napoli, la città più popolosa d’Italia, con la Legge per il Risanamento, fecero realizzare un più sicuro sistema fognario e un nuovo acquedotto, quello del Serino, garanzia di salubrità dell’acqua e della sicurezza alimentare. Almeno di un po’ di simpatia dovevano ricevere in cambio, attraverso l’associazione della pizza alla regina Margherita.
Braden Phillips scrive esattamente di operazione simpatia nel suo articolo per il National Geographic, e avanza la teoria della falsificazione della lettera di ringraziamento di Sua Maestà la Regina indirizzata a Raffaele Esposito Brandi, seguendo quanto ho scritto ne Il Re di Napoli di seguito riportato:
“(…) un documento pieno di incongruenze, dal quale si dovrebbe dedurre che il pizzaiuolo, sposando Maria Giovanna Brandi, ne avrebbe preso il cognome. Più facile che quel documento sia stato scritto in maniera fittizia, con timbri fasulli, dopo gli anni Venti del Novecento, quando la pizzeria in cui aveva lavorato Raffaele Esposito cambiò nome in Brandi, così da blindare l’invenzione di una tradizione apocrifa.”
Insomma, un racconto anche grazie al quale la pizza tricolore è divenuta la pizza regina, passando da Napoli a New York con gli emigranti, e solo dopo la guerra nel resto d’Italia e del mondo. Un racconto cavalcato dai discendenti di Maria Giovanna Brandi per aumentare l’appeal della pizzeria e gli affari. Se ne sono convinti anche quelli di National Geographic, dimostrandoci che la ricostruzione della storia della pizza tricolore ha ormai varcato i confini nazionali e si espande… a macchia d’olio.






Pezzi che parlano dell’antichissimo rapporto di Napoli con il vino a chi è più attento. Già, perché sono davvero in pochissimi, napoletani compresi, a sapere che la città di Napoli, dopo Vienna, è quella con più terreni coltivati a vite in Europa. Un primato a cui non ci si crederebbe, eppure la Napoli di oggi, un milione di persone accalcate, conserva ancora parte dei suoi antichi vigneti e li protegge nei suoi quartieri. La collina del Vomero e il declivio di Posillipo che degradano dolcemente verso il mare e sui Campi Flegrei, il cratere spento degli Astroni ad Agnano, il Maioriello di Capodimonte, i Camaldoli, Chiaiano e altri fazzoletti di città nascondono piccoli vigneti metropolitani, preziosi appezzamenti verdi, macchie più o meno grandi di eroici filari tra le costruzioni che colorano il paesaggio e ne diventano parte integrante. Un patrimonio salvato dall’estinzione di cui si parla poco e niente, ma che esiste in silenzio e resiste al trascorrere dei secoli. Una particolarità che conserva a sua volta un unicum napoletano molto apprezzato da enologi ed amanti del vino. Napoli, ma anche la sua provincia, presidiate dal Vesuvio e dai vulcani dei Campi Flegrei, costituiscono infatti uno dei pochi territori al mondo a preservare il tipo di coltivazione “a piede franco”, patrimonio genetico originario della vite europea, ossia la coltura senza l’impiego della vite americana come portainnesto. I filari napoletani di oggi sono davvero eredi diretti delle prime piante portate dai Greci in Campania, una rarità dovuta alla conformazione vulcanica del terreno sabbioso, caratteristica che da una parte rende il lavoro più difficile ma dall’altra ha consentito ai vigneti partenopei di tenere lontana l’aggressione parassitaria, quindi di preservare la biodiversità vegetale, la purezza dei vitigni e una maggiore concentrazione di profumi nelle uve, con sentori di mineralità e sapidità che rendono i vini di Napoli tipici e differenti, impossibili da produrre in altre zone del mondo.


