Il razzismo positivista-leghista dei tifosi bergamaschi a Napoli

lombroso

Angelo Forgione Guardavo la partita Napoli-Atalanta di Coppa Italia quando le telecamere della RAI indugiavano sui tifosi della squadra orobica, bergamaschi della cosiddetta “Città dei Mille”, in trasferta a Napoli. Immediatamente trasalivo individuando quell’uomo barbuto su sfondo nerazzurro esposto in bella vista. Cesare Lombroso sbattuto in faccia ai napoletani, proprio lui, il teorizzatore dell’inferiorità dei meridionali, della loro tendenza a delinquere, diffusa dalla scuola antropologica criminale del Positivismo, l’uomo che caricò di pregiudizi l’analisi della situazione di arretratezza socio-economica in cui venne a trovarsi il Sud dopo l’Unità.

Avevo trattato il personaggio nel mio libro Dov’è la Vittoria, per chiarire ai lettori come fosse esploso il razzismo interno italiano, poi manifestato anche negli stadi dagli anni del boom economico del dopoguerra. Ed eccolo lì lo scienziato della vergogna, puntualmente finito sullo stendardo di una delle tifoserie più razziste d’Italia, quella dei bergamaschi identitari, ai quali, per restare in abito calcistico, conviene dimenticare che il bergamasco di sangue Beppe Signori fu radiato dalla Giustizia sportiva (da ritirato) per riciclaggio di denaro sporco e rinviato a giudizio penale per associazione a delinquere, poiché capo di un gruppo di scommettitori incalliti che istigavano vari calciatori a combinare le partite e sostenevano economicamente un altro gruppo operativo composto da calciatori e faccendieri slavi. Entrambi i clan erano dei livelli piramidali di una vasta associazione criminale con vertice a Singapore, dedita all’alterazione dei risultati di partite in tutto il mondo. Per non parlare dello storico capitano dell’Atalanta Cristiano Doni, anch’egli implicato in associazione a delinquere dedita alla manipolazione dei risultati sportivi, mentre il napoletano Fabio Pisacane diveniva ambasciatore FIFA per aver denunciato un tentativo di combine e aperto così le indagini sul calcioscommesse.

Il razzismo di retaggio postivista è penetrato lentamente in certe curve del Nord sull’onda leghista dell’ultimo trentennio. L’antropologa francese Lynda Dematteo, studiosa del fenomeno leghista, autrice del libro ‘L’idiota in politica – Antropologia della Lega Nord’ (Feltrinelli, 2011), ha analizzato i punti in comune tra alcune tifoserie lombarde – quella atalantina in testa – e la Lega Nord, dalle simbologie adoperate all’anti-meridionalismo.
E allora eccolo di seguito un sunto di quel che ho evidenziato nel mio libro, per chi avesse voglia di capire come funziona l’Italia dalla sua origine.

— capitolo ‘La discriminazione territoriale’ —

[…] L’asservimento dei popoli delle ex Due Sicilie passò per l’affermazione della teoria dell’inferiorità del Mezzogiorno, diffusa dalla scuola antropologica criminale del Positivismo. La dottrina si avvalse delle teorie scientifiche sulla fisiognomica del criminologo socialista Cesare Lombroso, con le quali si intese inchiodare i meridionali a una presunta predisposizione alla delinquenza. Lombroso, veronese, osservò i crani dei cosiddetti briganti, braccati dalle milizie piemontesi, oggetto di autopsia nonostante le leggi che già dal 1883 imponevano la sepoltura dei cadaveri dei detenuti. L’antropologo giunse alla personalissima conclusione che i meridionali avessero una vocazione naturale all’omicidio che mancava nei settentrionali. Indicò questa tendenza nella presenza della “fossetta occipitale mediana”, riscontrabile su molti crani del Sud Italia. E bollò come delinquenti la gente del Sud come espressione di sottocultura e di una razza ritenuta inferiore, tendente a delinquere atavicamente. Così scrisse nella sua principale opera, ‘L’uomo delinquente’, nel 1876:

È agli elementi africani e orientali (meno i greci), che l’Italia deve, fondamentalmente, la maggior frequenza di omicidii in Calabria, Sicilia e Sardegna, mentre la minima è dove predominarono stirpi nordiche (Lombardia).

Dopo la sua morte, Lombroso fu sottoposto a un’autopsia che tenne conto delle sue stesse teorie: “Soggetto afflitto da cretinismo perpetuo”, fu l’esito dei risultati. Fu proprio il suo corpo a smentirne le sue teorie razziste e sarebbe stata poi la storia d’Italia a invalidarne abbondantemente gli studi, tra delitti di serial killer, mitomani, “mostri” e truffatori d’alta finanza del Settentrione.
Certe argomentazioni, però, furono riprese da altri sostenitori dell’inferiorità razziale dei meridionali e ispirarono l’opera dell’antropologia positivista del secondo Ottocento. A cominciare dal lombardo di sinistra Enrico Ferri, pure direttore de ‘l’Avanti!’, teorizzatore del “tipo napoletano”, secondo cui il popolo meridionale era propenso a delinquere per atavica inferiorità biologica e non doveva mescolarsi alle razze del Nord d’influenza celtica. Particolare incidenza l’esercitò il criminologo siciliano Alfredo Niceforo, che ricalcò la teoria della distinzione etnica in Italia e la configurò in due diverse razze: l’euroasiatica ariana al Nord e l’euroafricana negroide al Sud e nelle isole. Onesti, presentabili, laboriosi e cooperativi quelli appartenenti alla prima; truffatori, sudici, oziosi e individualisti gli altri. Nel saggio ‘L’Italia barbara’ contemporanea del 1898, Niceforo coniò per la seconda categoria l’espressione “razza maledetta”, condannando con asprezza i meridionali a un cronico sottosviluppo e a uno stadio primitivo di evoluzione psichica, tali da meritarsi di essere trattati “col ferro e col fuoco”. All’innata brutalità di siciliani e sardi accostò il congenito servilismo dei napoletani, descritti come individui senza alcuna personalità:

I segni dell’inferiorità e dello stato ancor primitivo che affettano la psiche del popolo napoletano si palesano con mille altre manifestazioni della sua vita sociale e in specie col servilismo. Nessuna plebe è così servile come quella delle provincie napoletane […]. L’uomo servile è un individuo senza personalità e le società servili sono società in cui il carattere non esiste […].

Con la pubblicazione ‘Per la razza maledetta’, sempre del 1898, Napoleone Colajanni si contrappose alle teorie dei positivisti e al conterraneo Niceforo, ricordandogli che egli stesso era siciliano e apparteneva, per origine, alla “razza maledetta”, quella “dannata alla morte come le razze inferiori dell’Africa, dell’Australia, ecc. che i feroci e scellerati civilizzatori dell’Europa sistematicamente distruggono per rubarne le terre”.
Le tesi degli antropologi Lombroso, Ferri e Niceforo, e poi quelle di Giuseppe Sergi, Pasquale Rossi e altri, ancora oggi sostenute dal britannico Richard Lynn, professore di psicologia all’University of Ulster (http://www.napoli.com/viewarticolo.php?articolo=32817), configuravano un rapporto tra Nord e Sud simile a quello che le potenze coloniali riservavano ai popoli conquistati, costruendo l’inferiorità razziale del meridionale per legittimare il dominio settentrionale. Il vero problema non era la distinzione ma la classificazione scientifica tra razza superiore e “razza maledetta” tracciata dai positivisti, che influenzarono il pensiero di psichiatri, medici, politici e magistrati, e plasmarono l’opinione pubblica del Nord, adeguando il linguaggio all’ideologia delle classi dirigenti e avviando una più diffusa e metodica negazione ideologica della dignità del popolo del Sud.
I più noti meridionalisti unitari dell’epoca non stettero a guardare e contestarono la teoria della “razza maledetta”, denunciando che era stata formulata per giustificare le disuguaglianze territoriali e nasconderne la creazione a tavolino. Oltre a Napoleone Colajanni, anche Ettore Ciccotti, Gaetano Salvemini e Giustino Fortunato puntarono i piedi e si opposero al fronte positivista, stimolando il dibattito sulle disparità economiche e sociali che si erano create con l’Unità. Il progresso civile dell’intero Paese passava attraverso l’integrazione dei popoli, ma la classe dirigente, in buona parte settentrionale, deresponsabilizzata dai positivisti, strumentalizzò la teoria della “razza maledetta” per distrarre la discussione sulla “Questione meridionale”, che era soprattutto una questione economica da confondere in altre complicazioni sociali.
Le disillusioni postrisorgimentali portarono, tra il 1870 e il 1920, a una massiccia emigrazione meridionale e veneta alla volta delle Americhe, beneficiarie delle braccia della undesirable people per i lavori più pesanti. All’arrivo dei bastimenti nel porto dell’isolotto newyorchese di Ellis Island, la distinzione tra italiani del Nord e italiani del Sud riprendeva significativamente quella teorizzata da Alfredo Niceforo: veneti da una parte, meridionali da un’altra.
Nella prosecuzione del peccato originale ebbero precise responsabilità la scuola, la borghesia, la stampa e la politica nazionale di trapasso tra Ottocento e Novecento. Sul periodico ‘L’Ordine Nuovo’ del 3 gennaio 1920, Antonio Gramsci scrisse che la “Questione meridionale” si sarebbe potuta risolvere solo con un’alleanza antiborghese tra gli operai rivoluzionari del Nord e i contadini del Mezzogiorno, evidenziando che i primi nutrivano pregiudizi per i secondi perché subivano l’influenza della società in cui vivevano. L’ideologo sardo, nel suo saggio sulla “Questione meridionale” del 1926, accusò il Partito Socialista dell’errore di aver alimentato un diffuso preconcetto sulla gente del Mezzogiorno tra la stessa classe operaia del Nord, cavalcando e supportando le teorie del Positivismo:

È noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle masse del Settentrione: il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari, temperando questa sorte matrigna con l’esplosione puramente individuale di grandi geni, che sono come le solitarie palme in un arido e sterile deserto. Il Partito Socialista fu in gran parte il veicolo di questa ideologia borghese nel proletariato settentrionale; il Partito Socialista diede tutto il suo crisma a tutta la struttura “meridionalista” della cricca di scrittori della cosiddetta scuola positiva, come i Ferri, i Sergi, i Niceforo, gli Orano, e i minori seguaci, che in articoli, in bozzetti, in novelle, in romanzi, in libri di impressioni e di ricordi, ripetevano in diverse forme lo stesso ritornello; ancora una volta la “scienza” era rivolta a schiacciare i miseri e gli sfruttati, ma questa volta si ammantava dei colori socialisti, pretendeva di essere la scienza del proletariato.

Le disparità create avevano generato una nuova miseria del Mezzogiorno, storicamente inspiegabile per le masse popolari d’Alta Italia, che non sapevano e non comprendevano che l’Unità era avvenuta per imporre l’egemonia colonialistica del Nord sul Sud e che il Settentrione cresceva in rapporto diretto con l’impoverimento meridionale. Il ragionamento popolare fu che se il Sud non riusciva a progredire sotto il profilo economico-industriale era per cause endemiche, scritte nel codice genetico meridionale. Il popolo settentrionale finì con l’abbracciare ciecamente il Positivismo sposato alla politica, acquisendo per mentalità la teoria della “razza maledetta”. […]

Il seguito lo troverete nel libro, se vorrete, o lo osserverete negli stadi italiani e non solo, se avrete occhio.

La Questione meridionale è ormai questione mediterranea

I recenti interventi sulle tivù nazionali di chi studia la Questione meridionale dimostrano che la tradizione del meridionalismo intellettuale, purtroppo, deve proseguire.

Italia, ammore e malavita

 

Angelo Forgione Discutibili riflessioni su Napoli, Sicilia e Calabria di Daniele Piervincenzi dopo il pestaggio subito a Roma, anch’egli spiazzato dal fatto che la protervia mafiosa non appartenga solo al Mezzogiorno. La vicenda ha fatto emergere un problema di ignoranza e pregiudizio che ha profonde radici storiche. Il filtro distorto del Positivismo di fine Ottocento ha fatto supporre che solo al Sud sarebbero potute nascere e pascere le mafie, e dove se no? Se però riavvolgiamo il nastro del tempo scopriamo che il fare delinquenziale in Italia esplode enormemente nella stagione spagnola del Cinquecento, capace di lasciare evidenti segni nei territori italici conquistati, a Sud come a Nord, a Napoli come a Milano, accomunate da un vincolo di sottomissione alla corona di Spagna, tra controllo delle masse da parte dei governi ispanici, imposizione di pagamenti di gabelle inique e crescita di movimenti popolari protestanti. Basta leggere ‘I Promessi Sposi’ di Alessandro Manzoni per capire che quella Milano era violenta, molto violenta. Quella Milano sostituì il diritto con i Don Rodrigo e gli Azzecca-garbugli, e ai soprusi dei suoi nobili si trovava soluzione solo facendo ricorso alla protezione di altri nobili più potenti, che sguinzagliavano i Bravi, il loro braccio armato e prepotente. Contestualmente, a Napoli prese piede l’Organizzazione Segreta dell’Ordine per la tutela degli interessi della plebe, manovrata dai Compagnoni, arroganti malavitosi che replicavano i modi dei soldati e dei nobili spagnoli, secondo le regole della Garduña española, una confraternita criminale di cavalieri fondata a Siviglia e completamente votata al crimine. Insomma, niente Stato a Sud e niente Stato a Nord, e tutti iniziarono ad arrangiarsi come potevano. Non che nei territori pontifici andasse tanto meglio. A Roma, Caravaggio, già rissoso giovane a Milano, uccise il ternano Ranuccio Tommasoni, prepotente capo di una banda malavitosa di Campo Marzio.
Le cose, evidentemente, procedevano di pari passo, ma poi, nella prima metà dell’Ottocento, nacquero le mafie meridionali, in due città ricche come Napoli e Palermo, in piena degenerazione carbonara, come società segrete paramassoniche dedite al crimine e rispondenti alle logge inglesi, interessate a destabilizzare il Regno delle Due Sicilie. Queste, dopo aver contribuito a cancellare il pericoloso e nemico regno borbonico, si imposero nel sud del Regno dell’Italia unita, là dove lo Stato era meno presente, e dove la povertà iniziava ad essere maggiore che al Nord. Fu lasciata ad esse la gestione dell’economia di quei territori depressi, per i quali iniziarono a rappresentare veri e propri ammortizzatori sociali, ancor più nel dopoguerra, quando rialzarono la testa dopo la repressione fascista. Ma un cancro è un cancro, e non conosce confini. Un cancro si allarga, crea metastasi, e si estende oltre. Negli anni Sessanta le mafie sono approdate al Nord, nel territorio più ricco, alla ricerca di affari più remunerativi. Ora che la situazione è completamente sfuggita di mano, con chi ce la vogliamo prendere?

Roma Capat Mundi, capitale mafiosa di un paese mafioso

Angelo Forgione Roma si scopre nuovamente capitale mafiosa. Tra il matrimonio dei Casamonica e la testata di Roberto Spada la finzione di Suburra e poca narrazione di un problema concreto della capitale d’Italia, una città di attività terziarie in cui gli affari più lucrosi si fanno attraverso l’acquisizione e il controllo dei servizi e l’infiltrazione sistematica nei settori economici e commerciali, nei servizi pubblici, e dunque negli appalti pubblici. Ostia, nello specifico, è inquinata dal traffico di stupefacenti, dalle attività di usura ed estorsione, e soprattutto dal controllo di numerose attività commerciali e dalla gestione degli stabilimenti balneari sul litorale, dove i muri abusivi impediscono l’accesso alle spiagge pubbliche. Le organizzazioni criminali della Capitale si avvalgono del legame con alcuni personaggi dell’estrema destra romana, capaci di sfoderare inaudita violenza. Le vittime si aspettano il peggio in Sicilia, in Calabria, in Campania, e invece finiscono per scoprirlo dove non se l’aspettano. Più della testa di Roberto Spada, a colpire è la protervia esibita dallo stesso davanti le telecamere, dopo aver dissimulato con apparente tranquillità. Ed è proprio questa l’immagine simbolo del potere che comanda il Paese. Quantunque il ministro Minniti, dopo l’arresto di Spada, si sia affrettato a dire che lo Stato c’è, da Cosa Nostra alla Ndrangheta, dalla Sacra Corona Unita alle mafie foggiane, dalla Camorra a Mafia Capitale, il fenomeno mafioso si estende da Sud a Nord, dalla Sicilia a Milano, Torino, Genova e Bologna, con infiltrazioni nel mondo della politica e degli affari. Al Nord il fenomeno sembra meno gravoso semplicemente perché è più silenzioso. Lì, diversamente che al Sud, gli strumenti utilizzati sono prevalentemente la corruzione, il condizionamento delle istituzioni e lo scambio elettorale.
E casomai sfugga, visto che sfugge che le mafie sono ben oltre il Garigliano, sono roba concreta i collegamenti tra le organizzazioni autoctone e i terroristi, che dalla camorra ricevono documenti falsi per entrare in Europa e che con Cosa Nostra organizzano il contrabbando di petrolio nel Continente per finanziarsi; e poi con la criminalità cinese, con quella rumena e coi gruppi criminali di matrice nigeriana.
Questa è la fotografia di un Paese nato sul patto scellerato tra i padri della patria e i malavitosi meridionali per conquistare il Sud e farne colonia interna, e repubblicanizzato sul patto con le mafie, sdoganando definitivamente la malavita organizzata. Forse qualcuno credeva che il cancro sarebbe rimasto circoscritto alla colonia, e ha fatto male i calcoli.

Un ribaltamento nazionale tra politica, Massoneria e Chiesa che ha per paradigma l’entrata di Garibaldi a Napoli

Angelo Forgione È il 7 Settembre 1860: la “Piedigrotta” è in pieno svolgimento. Da più di un secolo è la festa delle feste, famosissima in tutt’Europa. Lo è almeno dal 1744, cioè da quando Carlo di Borbone, per celebrare la vittoria di Velletri contro gli austriaci, l’ha resa festa nazionale delle Due Sicilie e ha introdotto una parata militare oltre alla sfilata dei carri allegorici. I viaggiatori del Grand Tour l’hanno vista e narrata, ma questa volta i napoletani sono distratti da altro, perché l’evento coincide col culmine della risalita della Penisola da parte dei Mille garibaldini e Re Francesco II di Borbone, che ha appena lasciato Napoli per evitarle la guerra, sta andando a difendersi a Gaeta. Mentre il Re è in navigazione, a Napoli entra Garibaldi e si proclama dittatore delle Due Sicilie. Ad accoglierlo ci sono i capintesta della camorra del tempo e il prefetto di polizia borbonica e ministro degli Interni delle Due Sicilie, il trasformista Liborio Romano, che ha convertito i criminali in gendarmi di pubblica sicurezza, affidandogli il comando di una nuova Guardia cittadina. Il diplomatico inglese Henry George Elliot, del resto, ha già informato per tempo l’ufficio Esteri di Londra del fatto che diverse bande camorristiche sono pronte a contrastare con le armi la reazione dei fedeli alla dinastia borbonica, presidiando il porto in modo da facilitare l’ingresso dei volontari di Garibaldi. Il corteo al seguito del capo delle camicie rosse percorre via Marina, il Maschio Angioino, il largo di Palazzo (Plebiscito), poi su per via Toledo fino a Palazzo Doria D’Angri, dal quale il Generale si affaccia prendendone possesso come dimora.
Ad accompagnare Garibaldi c’è fra Giovanni Pantaleo da Castelvetrano, cappellano siciliano unitosi alla spedizione dei Mille e utilissimo per legittimare, attraverso la predicazione, l’impresa garibaldina presso le classi popolari e per favorire la coscrizione di volontari. Eppure il nizzardo è un gran massone, un rigidissimo anticlericale, e odia preti e uomini di Chiesa di ogni ordine e grado. E però vuole persino che si compia immediatamente il prodigio di San Gennaro in sua presenza, perché sa benissimo che solo così può guadagnarsi i favori incondizionati del popolo napoletano. Col Santo scontento non non può vedere completamente legittimato il suo potere. Del resto, è già accaduto sessant’anni prima, nel 1799, con i militari francesi di Championnet, ben informati dai giacobini napoletani, a “vigilare” sul compimento dello scioglimento del sangue.
Il giorno seguente, racconta Giacinto De Sivo, Garibaldi e i suoi trovano la Cappella del Tesoro sbarrata. Niente da fare. E allora, in serata, accompagnato dai camorristi, incrocia la processione della Madonna di Piedigrotta. Il massone, suo malgrado, si scappella di fronte all’Immacolata per non inimicarsi i napoletani, e viene giù un acquazzone fortissimo. Tocca aspettare il 19 settembre, giorno del Santo patrono, per timbrare di rosso garibaldino il prodigio. “Il sangue deve liquefarsi e si liquefarà – così dicono i predicatori garibaldini in largo di Palazzo – altrimenti a farlo liquefare ci penserà Garibaldi”. E così sia! Ancora un prodigio su ordinazione.
Liborio Romano viene confermato nel ruolo di Ministro dell’Interno e poi entra a far parte del Consiglio di Luogotenenza, per poi essere eletto deputato al nuovo parlamento di Torino. Ai camorristi della sciolta “guardia cittadina” viene assicurato un lauto vitalizio mensile in quanto “esempi inimitabili di coraggio civile nel propugnare la libertà”.
Quella dell’anno seguente sarà l’ultima Piedigrotta, organizzata dal luogotenente Generale Enrico Cialdini, uomo impegnato nel frattempo a massacrare i meridionali ribelli. La festa sarà sospesa nel 1862 dopo aver decretato nel febbraio di quell’anno la soppressione di tutti i conventi e la confisca dei beni mobili e immobili della Chiesa, compreso il santuario di Piedigrotta. Così tramonta la vera Piedigrotta, insieme a Napoli Capitale. Quella che riprenderà anni più tardi non sarà la grande festa nazionale di un tempo, e finirà per spegnersi, forse definitivamente. Il prodigio, invece, resta tradizione inossidabile, forse perché la Deputazione del Santo, dal 1811, è laica per volere del massone Gioacchino Murat.

‘Napoli Capitale Morale’ protagonista sulle spiagge italiane

TG1 Economia di Ferragosto si è occupato dei libri cartacei che tornano in auge e della campagna sociale di liberiamo.it per comunicare la loro presenza nelle nostre vacanze estive, soprattutto sulle spiagge con un hastag per suggerire i libri di maggior interesse su Instagram, e per stimolarne la lettura. E Napoli Capitale Morale, dopo essere risultato la migliore novità di luglio della categoria “Storia sociale e culturale” e aver scalato immediatamente le classifiche di vendita, si è fatto trovare puntuale all’appuntamento con le telecamere Rai sulle spiagge italiane.
Non vi resta che scattare una foto del libro e caricarla su Instagram, associandola all’hastag #BooksontheBeach.

Il timore di lacerare quel che è lacerato

La proposta grillina della “Giornata della Memoria per le Vittime Meridionali del Risorgimento”, approvata recentemente in diverse regioni meridionali, ha suscitato la veemente reazione di una serie di docenti, politici, operatori dell’informazione e della cultura patriottica, tutti contro il cosiddetto “revisionismo sudista a 5Stelle”, colpevole di rimorchiare e poi supportare i racconti di noi scrittori d’altra corrente. Una levata di scudi senza precedenti, perché senza precedenti è l’iniziativa politica del M5S.
Riporto qui una mia risposta al professor Aurelio Musi, docente dell’Università di Salerno, che nell’edizione del 5 agosto de laRepubblica, pagine di Napoli, ha puntato il dito contro il riuscito evento dello scorso maggio a Portici, al quale fui invitato anch’io insieme a Pino Aprile e Gennaro De Crescenzo (Movimento Neoborbonico), pensato dal senatore Sergio Puglia e voluto per far incontrare il M5S campano e la cultura meridionalista. Il professor Musi ha definito quell’incontro “una strana alleanza che di certo non accredita i grillini come fautori di ideali unitari”, neanche in quel giorno fosse stata fondata una società segreta per la secessione. I grillini declassati perché a contatto con noi. Davvero inaccettabile!
Prima di  leggere il botta e risposta tra me e Musi, vi consiglio di leggere prima il suo sfogo su laRepubblica del 5 agosto, cliccando qui.

Il mio intervento dell’8 agosto:

Gentile professore Aurelio Musi,
ho letto e seguito la disputa innescata sulle pagine napoletane di Repubblica circa il presunto uso politico della storia risorgimentale da parte del M5S campano, e non solo campano, e quelle che Lei definisce “prospettive velleitarie” poggianti “sul rifugio nostalgico in quella mitica età dell’oro rappresentata dal periodo borbonico”. Anche se Lei non ha fatto riferimento preciso al sottoscritto, presente in qualità di relatore al da Lei citato evento del 17 maggio a Portici, in cui confluirono politici, intellettuali e una gran folla di ascoltatori per lanciare la mozione per la memoria delle vittime dell’Unità, mi ritengo in diritto e dovere di intervenire per chiarire e precisare alcuni concetti da Lei esposti.
Nessuno dei tre relatori in tema storico parlò in quella giornata di età dell’oro, e mai è accaduto prima di allora. Mai nei miei libri ho scritto in questi termini delle condizioni dell’antico Regno delle Due Sicilie, e piuttosto ho sempre descritto un Sud arretrato quanto il Nord rispetto alle grandi economie delle nazioni guida del progresso europeo ottocentesco, perché le cose, Lei lo saprà certamente, stavano così, e non vi era sensibile differenza tra i nostri Meridione e Settentrione. Il problema è la modalità con cui il vantaggio settentrionale si è poi concretizzato, in rapporto diretto con l’impoverimento meridionale, attraverso l’imposizione di un’egemonia colonialistica del Nord sul Sud.
Non mi risulta che mai Pino Aprile e Gennaro De Crescenzo abbiano detto e scritto qualcosa di diverso da ciò. Ed è proprio qui il punto, perché anche in ottica contemporanea, la nostra incessante e seria opera culturale, peraltro basata su ricerche di archivio e analisi di documenti (siamo ricercatori storici, lo storico è Lei) è finalizzata alla richiesta di una necessaria par condicio tra Nord e Sud che non esiste da un secolo e mezzo, non certo di una secessione separatista. Lei, professore, si preoccupa delle lacerazioni del quadro unitario nazionale, ma non si pone il vero problema: il quadro unitario nazionale è già lacerato, all’origine, e non siamo stai noi che raccontiamo oggi un’altra storia a strapparlo.
Anzi, qualcuno pure poteva ricucirlo, quando si passò dalla Monarchia alla Repubblica, ma anche quell’occasione fu clamorosamente persa, coi soldi del piano Marshall che il presidente di Confindustria, il ligure Angelo Costa, dirottò in gran parte al Nord per la ricostruzione delle fabbriche, negando categoricamente quanto chiese il pugliese Giuseppe Di Vittorio, e cioè che quei danari venissero utilizzati in parti uguali affinché si costruissero anche fabbriche nel Meridione. E invece no, Costa disse che non erano le fabbriche a dover scendere al Sud ma gli operai meridionali a dover salire al Nord. E poi, supportato dall’amico De Gasperi e dai finanziamenti americani, mise su la Costa Crociere. La storia non è mai cambiata, non è una questione di Borbone e Savoia, ma di classi politiche italiane di sempre. E Lei si preoccupa ancora delle possibili lacerazioni?
Mi perdoni, ma non riesco neanche a comprendere il suo ragionamento circa quella che Lei definisce “strana alleanza” tra noi intellettuali revisionisti e il M5S, confluenza che, a suo avviso, non accredita i grillini come fautori di ideali unitari. Se per Lei vale il presupposto per cui è antiunitario chi chiede equità di trattamento tra Nord e Sud, documentando come ciò sia sin qui mancato, allora devo pensare che il Suo sia un preconcetto basato su un clamorosa strumentalizzazione del nostro lavoro, e pure dell’ottica politica dei grillini.
Chiudo questo mio intervento invitandoLa a una riflessione. Qualche pagina successiva a quella su cui era stampato il suo scritto su Repubblica dell’5 agosto era riportata la classifica di vendite relativa al mese di luglio ufficializzata dalla libreria Iocisto di Napoli. Il mio ultimo libro Napoli Capitale Morale figurava al secondo posto tra i non romanzi, dopo essere risultato primissimo tra le novità nella categoria “Storia sociale e culturale” di Amazon. I dati di vendita dei miei precedenti lavori sono altrettanto lusinghieri, per non parlare dei risultati di Pino Aprile, che Lei stesso ha precisato come fenomeno editoriale da capire e da non sottovalutare, e della prolificità pubblicistica del neoborbonico professor De Crescenzo.
Ma non è per autoincensarmi o incensare gli altri due che La informo di certi segnali. Sì, segnali, appunto, e bisogna capirli, insieme ai fenomeni, per poi decidere se sia il pubblico a essere stupido o se si tratti invece di sete di conoscenza, una conoscenza fin qui negata, e che ancora si tenta di negare. Veramente vogliamo pensare che quei pochi che oggi leggono libri in Italia e, nello specifico ancor più triste, a Napoli siano stupidi? Mi sembrerebbe un’offesa davvero troppo grande.

La risposta di Aurelio Musi:

Non ho scritto che i lettori dei libri di Aprile e Forgione siano stupidi. Penso e ho scritto che quei libri non soddisfino un sincero desiderio di conoscenza. Essi, attraverso il processo al Risorgimento e alla Unità, fondamenti del nostro Stato nazione e della sua possibilità di divenire una media potenza europea, falsificano la storia e contribuiscono a lacerare ulteriormente la condizione difficile del nostro vivere in comunità.
Quanto alla nazione napoletana essa è stata una realtà plurisecolare che è stata e va attentamente ricostruita nei suoi caratteri storici e nei suoi fattori di crisi a metà Ottocento. Neo-borbonici e revisionisti di diversa specie ne hanno fatto un mito forse esaltante ma che non porta da nessuna parte se non nel porto delle nebbie e delle illusioni. Ancor più criticabile è infine l’uso strumentale del mito da parte di quelle forze politiche che non hanno nessun interesse per la seria conoscenza storica e pensano in tutti i modi solo a guadagnare più voti.

La mia controrisposta:

Eh, no, caro professor Musi, il confronto, se di questo si tratta, non può esserci se io propongo spunti di riflessione e Lei non entra nel merito dei drammatici problemi di oggi ma ritorna sul processo risorgimentale e sentenzia laconicamente che i miei libri, come quelli di Pino Aprile, non soddisfano un sincero desiderio di conoscenza perché falsificano la storia. Forse non ha letto i miei testi, dove peraltro parlo sempre di passato e presente, e sono costretto a incentrarvi la mia controrisposta per smentirLa.
Il mio primo libro, Made In Naples, uscì nel maggio del 2013, e fu ovviamente lavorato negli anni precedenti. In quel testo, per esempio, proponevo il capitolo “La Protezione Civile e il Governo del Territorio”, in cui, tra l’altro, dedicavo uno studio attento delle leggi antismiche del periodo borbonico e delle “Case Baraccate” in muratura con telaio in legno. Tutta teoria in base ai documenti che descrivevano quel sistema e testimoniavano che certe costruzioni erano ancora in piedi, e ancora lo sono. Qualche tempo dopo l’uscita del libro, con mia somma soddisfazione, l’Istituto per la Valorizzazione del Legno e delle Specie Arboree del CNR a San Michele all’Adige, in collaborazione con l’Università della Calabria, fece un esperimento di resistenza di quelle costruzioni da me descritte come esempio costruttivo, sentenziando che l’eccellente comportamento antisismico rilevato del sistema costruttivo borbonico indicava le “Case Baraccate” quale esempio di costruzione da recuperare nel presente. Capirà che tutto questo significa parlare di passato per proporre soluzione ai drammi del presente italiano, di tutti, non solo del Sud impoverito e arretrato.
Nello stesso libro, di mio pugno, scrissi il capitolo “Le Banconote e i Conti Correnti Bancari”, affermando che i Banchi napoletani erano da considerarsi quali fondatori della banca moderna, e che le “fedi di credito” degli istituti napoletani rappresentassero il primissimo prototipo di deposito bancario. Qui i tecnici sono arrivati anche più tardi, perché solo qualche mese fa, nel giugno del 2017, gli studiosi di finanza bancaria di tutto il mondo hanno certificato quanto io avevo già scritto almeno cinque anni prima.
Solo due esempi utili a impugnare la sua sentenza. I miei scritti, evidentemente, non falsificano la storia, come Lei dice, ma la indagano e semmai anticipano la scienza. Ecco perché sono molto apprezzati. E questo perché raccontano quello che gli altri non hanno la voglia di approfondire e di raccontare, perché temono che ribaltare le certezze precostituite di un Sud arretrato porterebbe a lacerazioni del quadro unitario nazionale.
Chiaramente ho difeso il mio lavoro. Pino Aprile o chicchessia sapranno difendersi da soli, se riterranno opportuno farlo.
Cordialmente.

Esclusiva DailyNews24 – Angelo Forgione: «Sui roghi c’è una spirale criminale perversa, il Sun si è qualificato per il giornale che è»

intervista di Raffaele Zanfardino per DailyNers24.it

Abbiamo avuto il piacere di intervistare in esclusiva Angelo Forgione, scrittore e giornalista napoletano che è molto attento alle vicende partenopee. Autore di diversi libri, ha contributo a fornire un nuovo punto di vista sull’Unità d’Italia e sul ruolo che ha avuto Napoli nella storia.

Partiamo dal tema più strettamente d’attualità: ci dica il Suo punto di vista sui roghi che stanno devastando la Campania.
Credo che si sia trattato di una spirale perversa, ovviamente criminale, in cui sono confluite varie concause. Da chi ha interesse al rimboschimento a chi vuole bruciare rifiuti tossici. Da chi teme la valorizzazione di un modello di sviluppo virtuoso del Parco Nazionale del Vesuvio fino ai semplici piromani, che hanno approfittato del caos. Tutti ne hanno approfittato, se vogliamo. Specialmente sul Vesuvio, l’economia legata al turismo e all’agricoltura sta togliendo spazio all’illegalità, e perciò si è trattato di vero e proprio attentato criminale, un attacco che andava contrastato con forze maggiori. In Italia siamo vulnerabilissimi a questi fenomeni, e laddove si attiva la criminalità è facile che si verifichino certi disastri. Abbiamo perso migliaia di ettari di bosco ma anche coltivazioni autoctone. Il danno è davvero enorme.

Lei ha parlato anche di possibili frane in autunno: può spiegarsi meglio?
È naturale. Il disboscamento è una delle principali cause dell’amplificazione dei danni da alluvioni. Le radici compattano il terreno rendendolo più forte e, una volta recise, cedono alla violenza degli eventi atmosferici, provocando frane e allagamenti. In Campania abbiamo già il monito del 1988, quando il monte Pizzo d’Alvano, vittima di disboscamento contino negli anni, vomitò fango su Sarno, Episcopio, Quindici e Bracigliano, provocando 160 morti e migliaia di feriti. Tutto questo scempio è frutto dei tempi moderni. Mi preme ricordare che il governo del territorio, nel Sud Italia, era una priorità prima dell’Unità d’Italia, cioè prima dell’estensione a tutto il territorio della legislazione piemontese che non prevedeva adeguate misure di contrasto alle calamità naturali. Sul Vesuvio, per esempio, a inizio Ottocento, fu creato un ingegnoso sistema basato su alvei e vasche, ma anche di reticoli in pietra lavica per il contenimento delle acque piovane, le cosiddette “briglie borboniche”, che ancora oggi sono modello cui si ispirano le “grate vesuviane” in legno, disseminate sulle pareti montuose del Parco Nazionale. Magari sono andate in fiamme anche queste, chissà. Ora si dovrà stare attenti alle forti piogge autunnali che verranno, perché le conseguenze di questi incendi potrebbero essere di particolare gravità.

Cosa ne pensa, invece, della Terra dei Fuochi?
Ogni parola, ormai, è superflua. Tra spietati imprenditori di ogni zona d’Italia, criminalità organizzata e massoneria deviata, il cocktail esplosivo ha prodotto aria malsana nelle campagne tra Napoli e Caserta. Il paradosso è che si respiri aria meno pericolosa a Napoli, cioè in città, piuttosto che nei paesi dell’hinterland. Il problema è l’aria, certamente, e con questo vorrei paradossalmente invitare a moderare gli allarmismi sull’agricoltura locale. Non sono un agronomo, ma mi sono informato presso gli esperti. Il fatto è che una pianta non assorbe tutto quello che si trova nel terreno e possiede un’azione autodepurativa. Cioè, i frutti della terra assorbono in modo selettivo e tendono a rifiutare sostanze inquinanti. Una prodotto della terra, se è inquinato, non cresce e non matura, e quindi se vediamo un prodotto della terra finito vuol dire che quel prodotto è sano. Possiamo mangiare senza fobie. Il problema può semmai esserci nelle acque, o nella filiera del latte, ma i controlli nel settore sono tanti. Ad ogni modo, quello che si sta facendo a questa terra è un delitto, e la terra domina sull’uomo, non il contrario. Siamo e saremo noi a pagarne le conseguenze, e questo per l’arricchimento di “pochi” criminali spietati.

Cosa pensa del quotidiano The Sun che ha tolto Napoli tra le città più pericolose?
Si è qualificato per la reputazione di cui gode, cioè giornale per nulla autorevole. Quell’articolo è stato scritto per “sensazione”, sull’eco dei racconti delle più tetre fiction recenti. Bastava leggere il fantasioso detto “va fa Napoli” che si direbbe in Italia per dire “va all’inferno” per capire che Guy Birchall aveva lavorato di immaginazione. Napoli è una città problematica, molto problematica, forse la più problematica d’Europa, ma la problematicità non corrisponde necessariamente alla pericolosità. A Napoli c’è la camorra che spara nei quartieri popolari, e il numero di morti per omicidio è costantemente alto, più alto che altrove, e però si tratta di guerra tra clan che bersagli selezionati, anche se qualche volta capita che ci vadano di mezzo persone innocenti. Poi, se controllassimo anche le statistiche delle morti per incidenti stradali e quelle per suicidio ci accorgeremmo che Napoli è ben al di sotto delle medie in queste voci, che contribuiscono a dare un quadro esatto della pericolosità di un luogo. In definitiva, Napoli non può dirsi città sicura ma neanche tra le 11 più pericolose del mondo. Descriverla come un far-west è decisamente troppo. Napoli è piena di vita, di giorno e di notte, e questo significa che i napoletani non percepiscono alcun tipo di problema particolare.

Da qualche anno, la narrazione di Napoli (e dell’unità d’Italia) sembra cambiata: a cosa è dovuto?
Non credo che sia cambiata. Napoli continua ad essere considerata per ciò che è, una città bellissima e malata. È cambiata semmai in una parte di opinione pubblica una certa visione delle cause della sua malattia. C’è ancora chi continua a considerarla causa dei suoi mali, e c’è chi invece ha capito che la radice dei suoi problemi sta nella malfatta unità d’Italia, di cui Napoli fu protagonista con Torino e Milano. C’è chi ha capito che non era solo il Sud ad essere arretrato rispetto alle più importanti economie europee ma anche il Nord, che il Settentrione è poi cresciuto in rapporto diretto con l’impoverimento meridionale, e che l’Unità fu imposta per affermare l’egemonia colonialistica del Nord sul Sud. Così è nato il “triangolo industriale” e così è decaduta Napoli, con tutta la sua reputazione, demolita prima dai liberali e dagli stessi esuli napoletani durante il Risorgimento e poi dall’antropologia positivista, che sostenne una genetica inferiorità meridionale. Napoli è crollata definitivamente dopo la Guerra, uscendone distrutta nel tessuto urbano, industriale e nello spirito. Oggi tutto quest’ottica sta diventando più nitida, e sempre più persone si appassionano alla lettura di libri come quelli che scrivo io e altri appassionati indagatori della questione meridionale per restituire consapevolezza e per drenare gli annacquati racconti patriottici. Attenzione però ad addossare solo agli altri e al passato le responsabilità dei problemi che Napoli vive. C’è oggi una gran quantità di napoletani privi di senso civico e ai quali fa piacere sguazzare nelle permissive condizioni in cui vivono.

Lei ha appunto pubblicato recentemente il suo ultimo libro, dal titolo “Napoli capitale morale. Dal Vesuvio a Milano. Storia di un ribaltamento nazionale tra politica, massoneria e Chiesa”: ci può illustrare nel dettaglio di cosa parla?
Parla proprio del percorso parallelo delle due città-faro del Sud e del Nord, delle due capitali morali d’Italia, quella pre-unitaria e quella post-unitaria. Napoli era indubbiamente la città più importante d’Italia al 1860, la vera capitale dello Stivale frammentato, l’unica di rango davvero europeo della Penisola, cioè quello che è oggi Milano. Dialogava con Vienna e San Pietroburgo, e con Parigi e Londra almeno fino al 1856, quando si concluse la Guerra di Crimea. Il gran fulgore della capitale borbonica rendeva persino più ampia che altrove la differenza tra l’elevata qualità di vita urbana e il basso tenore nell’entroterra delle campagne, impoverite al Sud esattamente come i contadi settentrionali. Milano aveva la metà degli abitanti di Napoli, e il suo sviluppo era partito lentamente nel secondo Settecento con Maria Teresa d’Asburgo, che portò la cultura viennese e quella napoletana nella città lombarda. Nel mio libro si legge dei rapporti culturali tra Napoli e Vienna di cui beneficiò anche Milano, dei rapporti tra Luigi Vanvitelli e il suo allievo Giuseppe Piermarini, ovvero l’architetto che tirò su il Teatro alla Scala e un po’ tutta la Milano neoclassica che guardava a Napoli. Si legge di storia e di storie, dal Rinascimento a oggi. Si legge di come, dall’Unità in poi, siano stati interrotti i rapporti tra le due città, di come Napoli sia decaduta in rapporto diretto alla crescita di Milano, fino a collassare completamente con la Seconda guerra mondiale. Si legge si cosa è accaduto con la seconda Italia, quella repubblicana, praticamente fallace come la prima monarchica, fino ad arrivare ai giorni nostri, analizzando il momento e provando a proiettarsi nel futuro. Si legge di influenza della Massoneria in questo ribaltamento italiano, senza mai dimenticare che le forze che l’hanno realizzato sono anche napoletane.

Ultima domanda, passiamo al calcio: è l’anno buono per lo Scudetto del Napoli?
Non lo si può prevedere. Certamente la squadra è motivata e concentrata sul preliminare di Champions League, per il quale anche i nazionali hanno rinunciato alle ferie, recandosi subito all’appuntamento di Dimaro. La Champions è vitale per il bilancio societario. Poi, certo, la squadra, col suo allenatore, vuole provare a fare due gironi di fila in campionato come quello di ritorno dello scorso anno, per poi vedere cosa avrà raccolto. Certamente questo Napoli ha grandi potenzialità ma, come ha avvisato Sarri, pochi margini di miglioramento. Ritengo che la squadra possa e debba migliorare in tre fasi. Il vero problema sarà riuscire a trovare la maniera di vincere le partite contro le squadre arroccate in difesa, quelle che mandano in tilt il gioco in velocità negli spazi degli azzurri. Poi bisognerà chiudere la porta, perché i campionati si vincono con la difesa più che con l’attacco, e bisognerà ridurre al minimo i delittuosi errori difensivi che lo scorso anno sono stati pagati in termini di classifica. Infine, bisogna migliorare in fase di palla inattiva, tanto difensivamente che offensivamente. Troppi goal sono stati presi in questo modo e pochissimi se ne sono realizzati. Se il Napoli progredirà in questi tre ambiti allora sì che potrà davvero ritrovarsi molto alto in classifica.

Napoli Capitale Morale, intervista per ‘VesuvioLive’: “L’Unità d’Italia ha spezzato il dialogo tra Napoli e Milano”

Intervista di Federica Barbi per vesuviolive.it

Milano-Napoli. Non eterna rivalità (per quella c’è Torino…) ma eterno paragone. Il “civilissimo” Nord contro il sottosviluppato Sud. Il fascino europeo e la patina sporca meridionale. L’Italia è ancora economicamente, socialmente e politicamente spaccata in due, e i pregiudizi non aiutano a ricomporre i tasselli. E se i media nazionali fomentano più o meno consapevolmente l’acredine, c’è chi studia e lavora invece per restituire agli italiani la giusta versione della nostra storia, purtroppo spesso storpiata dai libri di scuola. Tra questi c’è Angelo Forgione, scrittore e giornalista partenopeo, da sempre attivo per cancellare i fastidiosi filtri attraverso cui Napoli viene vista dal 1861.

Il suo ultimo lavoro, “Napoli Capitale Morale”, si concentra proprio sulle due città che hanno fatto la storia dell’Opera, spiegando come l’attuale ruolo predominante di Milano abbia radici anche nella Napoli del passato. Due destini che si intrecciano a cavallo tra tante epoche diverse. Ne abbiamo parlato con lui nel giorno dell’uscita del suo libro.

–  Angelo, ci parli del suo nuovo libro, “Napoli Capitale Morale”. Cosa vuole che arrivi ai suoi lettori?

“Arriverà certamente, a chi leggerà questo libro, quello che è realmente accaduto dal Rinascimento ai giorni nostri nel territorio italiano. Napoli è la protagonista del libro, Milano la co-protagonista, ma compaiono anche Torino e Roma. Attraverso i due principali riferimenti parlo di Nord e Sud, ancora oggi due Italie mai unite. Pur vivendo sotto la stessa bandiera, nello stesso Stato, e appartenendo allo stesso sistema giurisdizionale, Napoli e Milano sono decisamente più lontane di quando erano effettivamente separate. Nell’Italia delle culture e delle arti dialogarono culturalmente, e spesso s’intrecciarono. Poi l’Italia, una volta unita, è andata man mano allontanandosi dalle sue nobili radici, e a noi non è stato raccontato che cosa si sono dette le due metropoli prima che le élite risorgimentali interrompessero le comunicazioni e spegnessero la profusione culturale italiana”.

– Milano, quindi, se oggi viene considerata la metropoli italiana per eccellenza (e quindi centro propulsore della finanza e dell’economia) è soprattutto perché è stata modellata ad immagine e somiglianza della Napoli pre-unitaria. E’ corretto? Può spiegare meglio questo concetto?

“Non è proprio così. Milano ha beneficiato del riformismo austriaco di Maria Teresa d’Asburgo, che era la madre di Maria Carolina, regina di Napoli. La corte di Vienna, nel secondo Settecento, cioè nel periodo dei Lumi, dialogava con quella di Napoli, la città da cui si diffondevano importanti istanze illuministiche e molte novità che sconvolgevano l’Europa. Milano otteneva da Vienna e assorbiva di riflesso da Napoli. Per fare un esempio per tutti, il teatro alla Scala nacque quando gli Asburgo chiesero ai Borbone di poter avere Luigi Vanvitelli a Milano per lavori a corte, e l’architetto si portò dietro il figlio Carlo e l’allievo Giuseppe Piermarini, che avevano appreso al suo studio e nei cantieri della Reggia Caserta, e avevano studiato le antichità classiche che venivano fuori in quel periodo un po’ dappertutto attorno al Vesuvio. Ma la corte di Vienna spendeva più per Vienna che per Milano, e Vanvitelli, insoddisfatto, se ne tornò a Napoli col figlio, raccomandando agli austriaci l’ancora inespresso Piermarini, il quale divenne architetto regio e cambiò Milano applicando quanto aveva appreso a Napoli. Il Neoclassicismo nasce a Napoli, con gli scavi, e Milano è una città piena di neoclassico, non solo asburgico ma anche napoleonico. Ma anche gli economisti napoletani precedono quelli milanesi. L’economia e il sistema bancario moderno nascono a Napoli, con Antonio Genovesi e il Banco di Napoli, eppure finanza è sinonimo di Milano. Se la città lombarda è considerata la metropoli italiana per eccellenza non è perché lì c’è della Napoli sottotraccia ma perché con l’Unità è stato creato in modo scientifico il “triangolo industriale” Milano-Torino-Genova, strozzando il tessuto produttivo di Napoli e del Sud e trasferendo risorse e commesse in quel territorio in cui Milano ha poi vinto la sfida con la rivale Torino. È da quel dualismo, ingaggiato nel secondo Ottocento, che nacque la definizione “capitale morale”, che non è affatto riferita a Roma come pensiamo, ma alla città piemontese, prima capitale d’Italia e antagonista nella rincorsa al ruolo di città-guida del progresso italiano, o meglio, del Nord-Ovest. E quella definizione, pensate, la inventò un napoletano”.

– Nell’introduzione al libro lei parla di come non solo la politica ma anche la Chiesa e la Massoneria abbiano influenzato il percorso delle due città nella storia. Può spiegarci, in breve, in che modo?

“In realtà Chiesa e Massoneria sono due fattori essenziali della vita dell’intera Italia, e per secoli sono state in forte conflitto. È un tema troppo complesso per riassumerlo in poche parole ma è fondamentale evidenziare che l’Unità d’Italia fu un processo che mirò a depapalizzare Roma e a rendere l’Italia uno stato totalmente laico. Intento riuscito solo in parte, ma la Massoneria, non solo quella italiana, ebbe grande influenza nel processo risorgimentale. E allora basterà dire che Ferdinando II di Borbone strinse vincolo morale con papa Pio IX mentre la classe politica milanese preferì tollerare per convenienza l’alleanza con l’invisa Torino sabauda, quindi con la corte che assecondò le avversioni allo Stato Pontificio. Morale della favola, il legittimismo borbonico e quello del Papa, col potere temporale, crollarono uno dopo l’altro e da lì in poi la Massoneria fu decisiva per la crescita del “triangolo industriale” affermando, soprattutto a Milano, la supremazia della finanza sulla politica. Basterà leggere nel libro della fondazione della Banca Commerciale Italiana, che poi fece concorrenza al Banco di Napoli nel Meridione. I poteri forti si fecero largo nell’economia nazionale e guadagnarono la posizione di dominio nel settore del credito industriale. La Borsa di Milano fu designata per convogliare i capitali nelle imprese e le banche milanesi a fare da intermediarie di garanzia verso il pubblico. Così Milano, a fine Ottocento, divenne il centro della finanza italiana, mentre Napoli cresceva di abitanti ma si contraeva in quanto a occupazione e consumi, piombando in una crisi profonda”.

– Oggi si etichetta troppo facilmente Napoli come la città dell’inefficienza e dell’illegalità e, di contro, Milano gode della nomea di città “europea”. Al di là dei pregiudizi, in cosa e quanto Milano è davvero avanti rispetto alla città partenopea?

“Milano è l’unica città socialmente inclusiva d’Italia. È il punto di confluenza di forze, intelligenze e talenti. È luogo di opportunità per tutti. È l’unica grande città in cui la popolazione cresce; anche Torino ha smesso di farlo. Nel mondo moderno, in cui tutto va fatto subito e prima che lo facciano gli altri, Milano è l’unica città italiana che riesce a reggere il passo. Una città così ha la politica centrale a sospingerla. Pochi sanno che fu prima Torino a candidarsi per l’Expo 2015, sulla scia delle Olimpiadi invernali. Milano si accodò, e il Governo la preferì. E quindi altri soldi, altre infrastrutture, ma anche altri appalti e pure altre nefandezze a rinfrescare la memoria della Tangentopoli degli anni Novanta. Napoli non si è mai veramente rialzata dai grassi traumi della Seconda Guerra mondiale e incede affannosamente. Il tessuto produttivo è sostanzialmente impoverito e non c’è neanche più il Banco di Napoli ad ossigenare l’economia territoriale e a formare la classe dirigente. Napoli si svuota lentamente e trattiene i ceti più poveri, afflitti da problemi di disoccupazione e scarsa scolarizzazione. In queste condizioni, è facile cercare nell’illegalità e nella delinquenza una soluzione alle esigenze esistenziali. La colpa di tutto questo è della politica nazionale, che non fa nulla per risollevare davvero il Sud e arginare seriamente le mafie, il vero freno dell’economia territoriale, che invece rappresentano comodi e perversi ammortizzatori sociali”.

– Se Napoli era la Capitale morale pre-unitaria e Milano è quella post-unitaria: Roma, oggi, che tipo di Capitale è? Rappresenta davvero l’Italia?

“Roma è una capitale inerte, è uno scenario meraviglioso senza contenuti. È semplicemente la roccaforte della burocrazia di consumo e della Chiesa cattolica e non esercita alcuna spinta al superamento del dualismo Nord-Sud. Ma Roma non è neutra da oggi. Fu designata come capitale per i suoi antichissimi fasti imperiali, ma la città più importante, quando fu fatta l’Unità, era Napoli, che era anche la più popolata. Poi la città laziale è cresciuta a dismisura attorno al suo centro storico, ma non si è mai proposta come centro propulsivo e direttivo italiano, come Milano. E neanche come centro culturale, ruolo che svolge ancora, nonostante tutto, Napoli. La capitale d’Italia non può neanche rappresentare l’Italia, non come Parigi rappresenta la Francia e Londra l’Inghilterra, perché nella nazione dei dialetti e dei campanili non può risultare centrale nel policentrismo ed essere così invadente come le altre capitali da accentrare l’italianità, che è un concetto assai complesso”.

– Nonostante l’opinione pubblica non renda onore a Napoli, è innegabile che al Sud non ci sia lavoro: dall’inizio della crisi economica sono emigrati 161mila campani. Anche questo è il frutto di anni di politiche antimeridionali, è vero, ma purtroppo saperlo non consola né crea posti di lavoro. Cosa si sente di dire a chi va via costretto a cercare sogni lontano dalla propria terra?

“Di portare sempre con sé la propria identità, di essere napoletano in qualunque posto vada. E che non sia solo un atteggiamento spavaldo o simpatico ma una vera e propria consapevolezza. La napoletanità, cioè l’immensa cultura napoletana, va conosciuta a fondo. Io scrivo libri di cultura napoletana e di questione meridionale proprio perché la gente sappia quello che io non sapevo e che ho appreso spinto dalla mia indentità inespressa. La conoscenza genera indipendenza”.

‘Napoli Capitale Morale’ a ‘La Radiazza’

Due chiacchiere sul nuovo libro Napoli Capitale Morale, nel giorno dell’uscita in libreria, al fortunato show radiofonico La Radiazza di Gianni Simioli, sulle frequenze di Radio Marte.