Angelo Forgione – Ha preso il via il “Maggio dei Monumenti” di Napoli, edizione 2017 dedicata a Totò, scomparso 50 anni fa. Tanti gli eventi in calendario per celebrare la maschera popolare, napoletana e universale, del principe Antonio de Curtis. Tra gli appuntamenti più significativi, quello in programma per il 13 maggio, nell’ambito del “Vomero fest”, che nasce per ricordare la memoria storica delle prime di produzione cinematografica d’Italia (tra cui la Titanus), sorte nel primo Novecento proprio al Vomero. In quella data sarà inaugurata una “walk of fame” napoletana, tra via Luca Giordano e via Scarlatti, con l’apposizione della prima “stella” in pietra lavica e bronzo, a sei punte e ispirata alla forma del Castel Sant’Elmo, dedicata proprio a Totò.
Enorme, debordante l’entusiasmo attorno la figura del “principe della risata”. Eppure si tratta di un personaggio particolarmente snobbato dall’intellighenzia napoletana e dalle passate amministrazioni della Città. Ne danno prova il mai inaugurato museo alla Sanità e la statua in bronzo a lui dedicata, oggi al Rione Alto, in una piazzetta tra via Sigmund Freud e via Onofrio Fragnito, che è diventata per tutti “piazzetta Totò” senza che fosse mai stato ufficializzato il toponimo dal Comune di Napoli. Il monumento, opera dello scultore porticese Vincenzo Borriello, fu realizzato nel 1979 grazie a una colletta e un’asta d’opere d’arte organizzate dal pioniere delle tivù private, l’ingegner Pietrangelo Gregorio, attraverso i teleschermi di Canale 21. Una volta fusa, la statua fu boicottata da certi ambienti intellettuali e finì per essere conservata nei depositi comunali per circa vent’anni. Solo nel 1999, in occasione del centenario della nascita di Totò, la circoscrizione Arenella propose di riesumarla per collocarla in una piazza centrale del quartiere. Dopo le immancabili nuove proteste, il Comune decise di installarla nell’area pedonale del Rione Alto, cioè di mandarla in una zona periferica dove non avrebbe dato fastidio a nessuno. Il 17 aprile di quell’anno si tenne l’inaugurazione alla presenza di Liliana de Curtis, figlia dell’artista, che da allora, in posa da guitto, fa sorridere i passanti della zona.
“Al mio funerale sarà bello assai perché ci saranno parole, paroloni, elogi, mi scopriranno un grande attore: perché questo è un bellissimo Paese, in cui però per venire riconosciuto di qualcosa, bisogna morire”. Così disse Totò, che forse immaginava di essere apprezzato più velocemente post mortem. E invece non dev’essere stata sufficientemente sostenuta la sua figura, quantunque la sua appartenenza alla Massoneria possa far pensare il contrario. Antonio de Curtis fu infatti iniziato nel 1945, aderendo prima a una loggia napoletana Fulgor di Monte di Dio e poi confluendo nella Fulgor Artis di Roma, fondata nell’Ottocento da Gustavo Modena, padre del teatro moderno italiano, insieme a molti importanti attori dell’epoca (Aldo Fabrizi, Gino Cervi, Aldo Silvani, Checco Durante, Carlo Dapporto). Il nobile della Sanità lavorava a Roma e ogni volta che scendeva a Napoli vedeva le distruzioni della guerra. Lo faceva nottetempo per donare bigliettoni da diecimila lire alle famiglie meno abbienti della Sanità.
Spinto dalla voglia di fare beneficenza, abbracciò la Fratellanza, convinto che mirasse a finalità evolutive. Lui stesso, in seguito, fondò la Loggia artistica Ars et Labor, e ne fu Maestro Venerabile fino alla morte, quando ricopriva il 30° grado del Rito Scozzese Antico e Accettato. L’adesione massonica dell’attore era riconducibile alla Gran Loggia d’Italia degli Antichi Liberi Accettati Muratori, una loggia nazionale conciliante col Vaticano, volta alla libera ricerca personale e religiosa, e meno incline all’eccessiva politicizzazione dell’attività massonica esercitata dall’anticlericale Grande Oriente d’Italia, dalla quale venne fuori per scissione tra il 1908 e il 1910. Pare però che la frequentazione latomica di Totò si spense quando questi comprese che la Massoneria non appagava i suoi ideali di benefattore. Solo nel 2012, attraverso la figlia Liliana, gli è stato consegnato il Brevetto di 33° Grado, l’ultimo e il più importante della scala iniziatica dello scozzesismo, al quale ambiva all’inizio del suo percorso iniziatico. In quell’occasione fu recitata ‘A Livella, la poesia scritta negli anni cinquanta che meglio di tutte incarna i valori massonici nei quali il Principe de Curtis credeva fortemente: “la morte – scrisse Totò – ci rende tutti uguali, poveri e ricchi, nobili e gente comune; il valore più importante resta la fratellanza”.
Massone deluso o meno, Totò fu in ogni caso impegnato in attività di beneficenza e pure di aiuto a persone dello spettacolo cadute in disgrazia. Prima snobbato e ora insignito di Laurea honoris causa. Personaggio simbolo della Napoli del Novecento, a furor di popolo, e non d’altri.
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L’Italia unita si può ancora fare?
Si è tenuto negli studi dell’emittente campana Italiamia un dibattito a più voci sul meridionalismo e sulle condizioni del Sud a 155 anni dall’Unità d’Italia. La parte finale del talk-show ha riguardato l’analisi sulle condizioni attuali della nazione unita. L’Italia esiste o è solo un pezzo di Europa così nominato?
Il Comune di Napoli ricorda (solo) i giacobini (e inciampa sull’Illuminismo)
Angelo Forgione –
Nei giorni scorsi, a cura del Comune di Napoli e dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, è stata scoperta una targa commemorativa presso l’entrata della Basilica del Carmine in ricordo del martirio dei giacobini napoletani. Giusto ricordare gli eventi drammatici che posero fine alla Repubblica Napoletana del 1799, con le circa 120 esecuzioni tra gli aderenti alla stessa, ma pure manca un ricordo per gli almeno 3000 napoletani del popolo che persero la vita nel tentativo di evitare l’ingresso in Città delle milizie francesi del generale francese Jean Étienne Championnet.
Furono mesi, quelli da gennaio a giugno, molto difficili, sporcati da sangue, morte e barbarie, che impressero una ferita mai rimarginata. La cultura locale è da allora spaccata tra giacobini e sanfedisti, tra repubblicani e monarchici, ma ogni contesa che genera accesi estremismi e distanti fazioni finisce con lo scompaginare gli eventi e renderli poco chiari. La Storia di Napoli è complessa e va invece analizzata serenamente, senza nostalgie, recriminazioni e strumentalizzazioni. Accade quindi che anche il Comune di Napoli incappi in un non lieve errore storico nel comunicato stampa della Giunta (leggi qui), parlando di martirio degli “illuministi napoletani”. Gli uomini della Repubblica Napoletana non erano illuministi ma più correttamente colti esponenti della borghesia filomassonica. Gli illuministi, i riformatori che fecero di Napoli il centro universale dei Lumi, erano stati Pietro Giannone, Giambattista Vico, Bartolomeo Intieri, Ferdinando Galiani, Antonio Genovesi e Gaetano Filangieri. Gli eccezionali scritti di quest’ultimo animarono gli intellettuali della Repubblica, ma il giurista napoletano aveva sostenuto e consigliato il primo ministro monarchico Bernardo Tanucci; e prima ancora, Antonio Genovesi aveva sostenuto la monarchia illuminata di Carlo di Borbone. Certamente un anello di congiunzione tra il giacobinismo e l’illuminismo furono alcuni figli della dottrina economica di Antonio Genovesi, tra cui spiccava Francesco Mario Pagano; ma questi, dopo l’assorbimento degli influssi rivoluzionari, deviarono il grande Pensiero napoletano rivolto alla soluzione dei problemi locali verso la corrente francese nata da una piattaforma sociale diversa. Quella parte di borghesia massonica era pure stata a Corte, ben vista e agevolata dalla massona Maria Carolina (Eleonora Pimentel Fonseca sua bibliotecaria, Domenico Cirillo suo medico, etc). Fu proprio grazie alla regina che accrebbero posizione e influenza. Tradirono la grande fiducia che la sovrana concesse loro per riformare il Regno quando il Gran Maestro napoletano Francesco d’Aquino fu rimpiazzato nel ruolo di favorito dall’inglese John Acton. Ripicche politiche da perdita di influenza, insomma, e ancora nel 2015 si confonde l’Illuminismo napoletano col giacobinismo, che fu invece il sottoprodotto dell’esterofilia della dotta borghesia filomassonica.
Bisogna anche chiarire il concetto di “rivoluzione”, e chi la fece. Una rivoluzione la fa il popolo, e il popolo, in quei mesi turbolenti, fece la resistenza. Il resto furono intrighi politici e interessi personali annegati purtroppo nel sangue. La “rivoluzione” partenopea non fu compiuta dal popolo napoletano e neanche dagli intellettuali della borghesia, bensì dalle milizie francesi, con lo scopo di assorbire soldi e opere d’arte in città. Dieci anni di tasse non pagate dai cittadini francesi dopo la Presa della Bastiglia necessitavano di rimedio, e l’Italia offriva liquidità da spremere nonché la nuova moda europea del momento, scoppiata col rinvenimento dei reperti vesuviani operato: il Neoclassicismo. Il temibile esercito francese, tra grandi resistenze, entrò a Napoli anche grazie ai giacobini napoletani, che aprirono il fuoco alle spalle del popolo da Castel Sant’Elmo, lasciando a terra migliaia di corpi esanimi. Erano napoletani, popolani, che cercavano di fermare l’ingresso del più forte esercito d’Europa con una strenua resistenza, ammirata dal generale Championnet, lo stesso condottiero che, come testimonia la pubblicazione Souvenirs du général Championnet (Flammarion – Parigi, 1904), annunciava con delle lettere inviate al ministero dell’Interno del Direttorio di Parigi la spedizione di gessi, statue, busti, marmi e porcellane di pregio trafugate a Napoli (lo straordinario pieno di opere d’arte in Italia e oltre consentì a Napoleone di riorganizzare nel 1800 l’esposizione del Louvre). Persino l’Ercole Farnese, principale obiettivo francese, fu imballato e approntato per andare a Parigi. Non partì perché i transalpini indugiarono. Eleonora Pimentel sapeva e qualcosa pure la raccontò sul suo Monitore Napoletano (la sottrazione di tutte le collane d’oro dispensate ai cavalieri del Toson d’Oro). Lei e tutti gli intellettuali giacobini sostenevano la tesi di Parigi per cui la Francia era l’unica nazione capace di garantire l’inviolabilità delle grandi opere e garantirle all’umanità nei secoli futuri.
E fu sempre il popolo a riprendersi la città e il Regno, dopo neanche sei mesi, approfittando dello sbandamento delle truppe napoleoniche, via dall’Italia dopo gli affanni di Bonaparte in Egitto e ovviamente disinteressato a dare protezione agli uomini della Repubblica Napoletana, che nel frattempo non avevano prodotto alcuna riforma politica. Non conoscevano le necessità del popolo, dimostrando di non aver recepito l’altissimo insegnamento di Genovesi. I dotti massoni di Corte tradirono, sapendo a cosa andavano incontro. Il tradimento, ai quei tempi, era punito dappertutto con la pena capitale. Sapevano anche di mancare di adesione popolare ma erano sicuri di essere protetti dai fortissimi francesi. Fecero male i loro calcoli.
Stime ufficiali indicano circa 3.000 morti a Napoli, ma ne furono di più nell’arco di quei sei mesi; il generale francese Paul-Charles Thiébault, tra i protagonisti di quelle vicende, trascrisse nelle sue memorie la stima di 60.000 vittime in tutto il Regno, limitata ai primi mesi del ‘99. Morti che sembrano non aver mai pesato sul bilancio tra le parti.
E allora, di quale rivoluzione si continua a parlare a distanza di più di due secoli? Qualche anno fa, in una puntata del programma televisivo Passepartout di Philippe Daverio, Nicola Spinosa, ex Sovrintendente Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico di Napoli (premiato nel 2008 col “FIAC Excellency Award 2008” come uomo che ha più contribuito alla diffusione della cultura italiana negli Stati Uniti), si espresse con toni molto duri nei confronti di chi continua a raccontare male e faziosamente la storia, definendo quella che ancora oggi tramandiamo come “rivoluzione napoletana” come qualcosa che non ha lasciato alcun segno nella cultura della Città, «un recupero storicistico operato da certi settori dell’intellighenzia napoletana» (guarda qui). Settori che hanno stimolato la realizzazione della nuova targa commemorativa in piazza Mercato e che però spingono per dimenticare le migliaia di morti tra il popolo napoletano perché poveri, incolti, straccioni.
Dunque, se è vero che per la repubblica il popolo è sovrano, ricordiamo anche il massacro dimenticato di migliaia di “lazzari” oltre alle notissime decapitazioni tra la borghesia partenopea… per rispetto della Storia e in nome dei diritti civili e della Libertà.

De Magistris condannato e solo, come Napoli
Angelo Forgione – Il sindaco di Napoli Luigi De Magistris condannato dal Tribunale di Roma a un anno e tre mesi per concorso in abuso d’ufficio nell’inchiesta “Why Not”, cioè per aver acquisito da piemme di Catanzaro i tabulati telefonici di alcuni parlamentari senza le necessarie autorizzazioni della Camera di appartenenza. De Magistris continua a pagare le conseguenze di un’inchiesta a lui sottratta che ha segnato la fine della sua carriera di magistrato, avversato da quei poteri forti che provò a contrastare mettendo azzardatamente le mani negli intrecci tra politica, giustizia, finanza, imprenditoria, massoneria, mondo cattolico deviato e servizi segreti in Calabria.
Anche questa sentenza lo colpisce per aspetti disciplinari, ovvero per aspetti che riguardano la “forma” con cui condusse le indagini, ma non entra nel merito della fondatezza delle indagini stesse. Ed è proprio questo che De Magistris contesta oggi su facebook, scrivendo “(…) Ma rifarei tutto, e non cederò alla tentazione di perdere completamente la fiducia nello Stato”.
Tutti sanno che De Magistris si è gettato nell’avventura politica quando si è ritrovato isolato in Magistratura, cioè quando la sua strada è stata sbarrata. Basta fare una ricerca online un po’ più approfondita per capire quali siano i soggetti coinvolti nelle indagini scottanti, e perché il sindaco di Napoli sia un uomo solo. E un uomo solo non può neanche condurre una città importante, già penalizzata politicamente. Ora, napoletani, guardatevi intorno, osservate in quali condizioni versa la vostra città e chiedetevi se ad un magistrato presumibilmente onesto, fatto fuori dai poteri forti, possano essere stesi i tappeti rossi solo perché ha cambiato ruolo.
https://www.youtube.com/watch?v=9b5O04ZImHc
La chiesa anglicana di Napoli e quella riconoscenza tra massoni
Angelo Forgione per napoli.com – La cappella anglicana di Napoli, in via San Pasquale a Chiaja, è il simbolo imperituro del contributo della triplice alleanza britannica (Stato, Chiesa e Massoneria) all’Unità d’Italia e alla cancellazione di Napoli capitale. Fu Garibaldi in persona, nel suo dittatoriale autunno partenopeo del 1860, a concedere suolo napoletano e autorizzazione per la costruzione di una cappella per il culto anglicano. Era lui che comandava a Napoli e gli amici inglesi andavano ringraziati per il fondamentale sostegno ricevuto nella spedizione delle camicie rosse. Sino a quel momento, i culti diversi nella cattolicissima capitale borbonica e in tutto il Regno erano stati vietati, e le funzioni erano state celebrate nelle legazioni extraterritoriali. Quelle anglicane si svolgevano nella legazione britannica di Palazzo Calabritto in piazza della Pace, l’attuale piazza dei Martiri, dove si ergeva una colonna dedicata alla Madonna della Pace voluta da Ferdinando II per la pace riconquistata dopo i moti del 1848. Pace impossibile da conservare a lungo. Già nel 1844 Garibaldi era entrato a far parte della Massoneria a Montevideo, in Uruguay, e nel 1846 aveva incontrato Lord Palmerston per ottenere appoggio per la sua battaglia per l’indipendenza del Paese sudamericano e per quelle future in Italia. Tra Massoneria inglese, nata in seno al Protestantesimo, e Anglicanesimo il legame era già forte, in nome dell’anti-Cattolicesimo e dell’avversione al Papa di Roma, e lo è ancora oggi (nel settembre 2013, nella Cattedrale di Canterbury in Inghilterra, si sono radunati un migliaio di massoni per la celebrazione del bicentenario della Gran Massoneria dell’Arco Reale). Fin dalla sua nascita, la Massoneria inglese era stretta in un’alleanza con lo Stato e la Chiesa anglicana. Proprio la Chiesa d’Inghilterra aveva dichiarato l’indipendenza dall’autorità papale nel 1534, e nel 1563 il Parlamento aveva approvato i 39 articoli della fede anglicana, i cui scopi contemplavano anche la centralità dell’Evangelo. Tre secoli dopo, il “gran nemico” era Pio IX, di fatto un alleato politico di Ferdinando II delle Due Sicilie, il quale, nonostante le insistenti richieste della diplomazia londinese, per nessun motivo concesse mai il suo suolo cattolico napolitano per una chiesa del culto anglo-massonico. La morte del sovrano rappresentò l’occasione giusta per invadere il Regno meridionale, poco sicuro nelle mani del giovane erede Francesco II.
Il massone Garibaldi sbarcò a Marsala, dove fu accolto dai piroscafi bellici dritannici “Argus” e “Intrepid” e da una vastissima comunità inglese coinvolta nei grandi affari dei vini di Ingham e Whoodhouse; attraversò la Sicilia e risalì la Penisola sempre scortato, finanziato e armato dagli inglesi. Fiumi di piastre turche gli giunsero per corrompere gli ufficiali borbonici, e la scottante contabilità del suo esercito, affidata a Ippolito Nievo, sparì nel misterioso naufragio del piroscafo Ercole a largo di Capri. Quel rendiconto, che non sarebbe stato opportuno rivelare perché avrebbe acclarato la pesante ingerenza del Governo di Londra nella caduta del Regno delle Due Sicilie. non arrivò mai a Napoli, da dove doveva proseguire per Torino. A Napoli, il 6 settembre, Garibaldi entrò col treno borbonico, “accompagnato” via mare dal legno britannico “Intrepid”, che si piazzò davanti al litorale di Santa Lucia fino al 18 ottobre, quando gli fu dato il cambio da altre imbarcazioni inglesi, proprio mentre il dittatore Garibaldi donava ai sudditi di Sua Maestà la Regina il suolo scelto in via San Pasquale a Chiaja per edificare la cappella protestante, lì dove era un maneggio per cavalli di proprietà dell’esercito borbonico. Era solo un piccolo atto di riconoscenza per il fondamentale appoggio ricevuto (un’altra cappella anglicana sarebbe stata costruita a Palermo nel 1872). Il nuovo governo italiano-piemontese cedette ufficialmente la proprietà del terreno il 10 agosto 1861. La comunità dei residenti inglesi, con sottoscrizioni private e pubbliche sia a Napoli che in Gran Bretagna, riuscì a raccogliere l’ingente somma necessaria per la realizzazione della costruzione. Dopo un concorso, fu dato incarico per l’opera all’inglese Thomas Smith, che aveva appena ultimato la chiesa della comunità inglese a Nizza, città natale di Garibaldi. La prima pietra fu posata il 15 dicembre 1862 e l’edificio ultimato fu consacrato dal primo vescovo anglicano di Gibilterra il 3 marzo 1865.
Dopo il Congresso di Vienna del 1815 la Massoneria era stata messa al bando dai governi di tutti gli Stati preunitari. Non è un caso che la rifondazione manifesta della Massoneria italiana sia datata 1859, anno di costituzione della prima loggia italiana chiamata “Ausonia”. Dove? A Torino, ovviamente. Quando la capitale sabauda “unì” (parzialmente) l’Italia, Stato vaticano ancora escluso, il massone Garibaldi fu nominato Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia proprio a Torino. Era il 17 marzo 1862, primo compleanno dell’incoronazione di Vittorio Emanuele II quale Re d’Italia. Compiuta l’invasione del Mezzogiorno e ben saldi i suoi propositi di violare la Roma papalina, il Generale si recò a Londra per far visita al governo inglese e alla frammassoneria con l’intento di rimediare altri fondi per le sue imprese rivoluzionarie. Fu accolto dal tripudio di una folla oceanica, riconoscente per il lavoro compiuto nelle Due Sicilie e per la sua battaglia contro il Papa, quindi per il rafforzamento dell’egemonia imperiale anglosassone. Riconoscenza attestata di persona, nel corso di quel viaggio nell’aprile del 1864: «Senza l’aiuto di Palmerston, Napoli sarebbe ancora borbonica, e senza l’ammiraglio Mundy non avrei giammai potuto passare lo stretto di Messina». Gli obiettivi, ovviamente, non erano solo religiosi ma anche e soprattutto politici, economici e commerciali, ma chiaro fu il contributo che la fede britannica diede al processo politico e sociale che attraversò l’Italia risorgimentale. Garibaldi, prima della caduta di Roma, preconizzò: «Non sarà il cannone a liberare Roma dal Papa, ma l’Evangelo». Il 20 settembre 1870, giorno della Breccia di Porta Pia, i Bersaglieri del Generale Cadorna entrarono a Roma preceduti dai venditori di libri al grido di «il libro.. il libro» (la Parola di Dio). Il Potere Temporale del Papa era alla fine e la libertà religiosa in Italia era conquistata.
Nel 1965 fu scoperta sulla facciata della chiesa anglicana di Napoli una lapide bilingue a ricordo del regalo di Garibaldi. Vi era scritto “a grata memoria di Giuseppe Garibaldi”, l’uomo che aveva consegnato non un semplice suolo agli inglesi ma, di fatto, l’intero Regno. Era passato un secolo esatto da quando il primo vescovo anglicano di Gibilterra aveva consacrato l’edificio a Gesù Cristo. Con buona pace dei tanti massacri, delle profanazioni, dei furti sacrileghi, degli incendi, delle torture, delle collusioni con la malavita e dei privilegi elargiti ad assassini e prostitute per compiere il piano internazionale per la cancellazione del fastidio vaticano-borbonico dal territorio europeo.
Garibaldi nel 1864 a Londra per ringraziare Palmerston

Angelo Forgione – Nei giorni scorsi Matteo Renzi, in visita a Londra, ha partecipato alla celebrazione del 150° anniversario della quarta visita di Garibaldi in Inghilterra, alla presenza del sindaco di Londra, Boris Johnson (guarda al minuto 36:00). Perché la quarta è la visita celebrata? Tra il 3 ed il 27 aprile del 1864, Garibaldi visitò Londra dopo aver occupato i territori del Sud-Italia e averli consegnati a Vittorio Emanuele II. Un milione di persone affollarono le strade percorse dalla sua carrozza (l’illustrazione mostra il corteo di Garibaldi a Trafalgar Square dell’11 aprile 1864), tra il più totale giubilo per l’uomo che aveva spinto all’esilio l’odiato Borbone e per la sua avversione al Papa, cioè per il rafforzamento dell’egemonia imperiale anglosassone.
Durante la sua permanenza, il Generale incontrò, tra gli altri, il primo ministro Lord Palmerston, suo sobillatore e protettore (così come dei Piemontesi) e gran maestro della massoneria di Rito Scozzese che aveva contato nell’organizzazione della sollevazione dell’Europa già dai moti rivoluzionari del 1848. Il nizzardo l’aveva infatti già incontrato nel 1846, ricevendo appoggio per l’impresa garibaldina a difesa dell’indipendenza dell’Uruguay e incoraggiamento per la conquista del Sud-Italia. E poi, nel 1854, l’anno della concessione ai francesi della realizzazione del troppo favorevole al Sud Italia Canale di Suez, aveva visto “politici e grossi imprenditori” britannici a Tynemouth (Newcastle), nel nord-est dell’Inghilterra, per ottenere armi e munizioni da ricevere segretamente dal protettorato inglese di Malta, prima di intraprendere la campagna per la spedizione al Sud (targa nella foto), durante la quale fu protetto dalle navi inglesi, sia nelle acque siciliane che in quelle napoletane. In realtà ricevette anche fiumi di danaro per corrompere gli ufficiali borbonici, e la scottante contabilità del suo esercito, affidata a Ippolito Nievo, sparì nel misterioso naufragio del piroscafo Ercole. Del resto, Torino e Londra erano le capitali massoniche di quell’Europa, e Garibaldi, iniziato alla massoneria dal 1844 a Montevideo, fu nominato Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia nel 1862 proprio a Torino, dopo l’invasione del Mezzogiorno.
Prima dell’invasione garibaldina del Sud, Palmerston, in una lettera alla regina Vittoria, scrisse: “considerando la generale bilancia dei poteri in Europa, uno Stato italiano unito, posto sotto l’influenza della Gran Bretagna ed esposto al ricatto della sua superiorità navale, risultava il miglior adattamento possibile(…)”. Nel corso del viaggio a Londra del 1864, Garibaldi dichiarò: «Senza l’aiuto di Palmerston, Napoli sarebbe ancora sotto i Borbone, e senza l’ammiraglio Mundy non avrei giammai potuto passare lo stretto di Messina.»
La Voce del Sangue
Presentato in anteprima il 21 novembre, al rinato cinema Astra di via Mezzocannone a Napoli, il cortometraggio La voce del sangue firmato dal regista porticese Francesco Afro de Falco è ora disponibile online sul canale youtube di Federico Salvatore. Ambientato nel 1753, il lavoro racconta la vicenda di Giuseppe Sanmartino, scultore del Cristo Velato, la famosa opera custodita nella Cappella Sansevero. Raimondo di Sangro, Principe di Sansevero, gli commissiona il compimento della scultura a causa della prematura morte del veneto Antonio Corradini, che ha fatto in tempo a terminare solo un bozzetto in terracotta del Cristo (oggi conservato al Museo di San Martino). Sanmartino, che fino a quel momento si è distinto per la creazione di bellissimi pastori da presepe, si scontra con la paura di un fallimento e viene colto da una improvvisa paralisi emotiva, ma poi, avvalendosi di un corpo femminile (nella realtà era la giovane e bella Iris, berbera tunisina al servizio a casa Sansevero dal 1747), affronta a modo suo la sfida di realizzare l’opera secondo l’indicazione dell’esigentissimo committente: deve superare in bellezza e perfezione la Pietà di Michelangelo.
Il “corto” è un concentrato di suggestioni, simboli e riferimenti esoterici, alla base della creazione dello storyboard, e trasferisce allo spettatore notevoli spunti a livello vibrazionale, riprendendo i fili con la Città illuminista abitutata a pensare e far pensare e con un discorso tutto napoletano abbandonato forzatamente e sommerso dalla prostituzione intellettuale del filone “liberale”, che ha condotto alla schiavitù del grande Pensiero napoletano e alla sepoltura della sua produzione intellettuale.
La riproduzione a grandezza naturale del Cristo velato realizzata dall’artista Luca Nocerino e Federico Salvatore nei panni del Principe rendono l’opera molto accattivante. Un Giuseppe Sanmartino più anziano della realtà (quando scolpì il Cristo velato aveva 33 anni) è interpretato da Lello Serao, anche produttore. Il cast è completato da Lucia Rocco.
video / Ippolito Nievo, le ruberie dei Mille e la prima strage di Stato
Tratto da La storia siamo noi (Rai), l’enigma del vapore Ercole, la nave scomparsa nel nulla che trasportava la scottante contabilità della spedizione dei Mille. Partì da Palermo la sera del 4 marzo 1861. A bordo c’era Ippolito Nievo con altre settantanove persone tra equipaggio e passeggeri, e il Rendiconto nel quale si dimostrava, con meticolosa precisione, l’operato di tutta l’Intendenza delle finanze garibaldine. Nel fascicolo erano contenute notizie riservate, che non sarebbe stato opportuno rivelare perché avrebbero acclarato la pesante ingerenza del Governo di Londra nella caduta del Regno delle Due Sicilie. Nievo aveva dovuto gestire un ingente finanziamento in piastre turche proveniente dalle massonerie britanniche, che aveva favorito l’arrendevolezza di gran parte degli ufficiali borbonici e delle alte cariche civili duosiciliane: un’immobilità che aveva paralizzato l’Esercito e soprattutto la Marina borbonica, senza la quale il più grande Stato della penisola italiana, con la terza flotta europea di quel tempo, sarebbe difficilmente caduto. Il Vice Intendente era rimasto nauseato da ciò che aveva visto, da come veniva trattato il popolo siciliano e di come le cose erano andate contro le sue aspirazioni.
Il rendiconto non arrivò mai a Napoli, da dove doveva proseguire per Torino. Il console amburghese Hennequin, che a Palermo curava gli interessi inglesi, aveva cercato di dissuadere Nievo dall’imbarcarsi su quella nave, ma il Vice Intendente ignorò, forse consapevole del suo destino, il criptico avviso dell’annunciata prima strage di Stato dell’Italia unita.
Eddy Napoli risponde ad Alessandro Cecchi Paone
Angelo Forgione – Ricevo e pubblico il duro comunicato stampa di Eddy Napoli in risposta ad Alessandro Cecchi Paone e agli atteggiamenti assunti durante la prima puntata del format “A Reti Unificate” (clicca per vedere il commento del conduttore all’intervista del cantautore già smontato su questo blog).
Considerato che Lei ha rifiutato un civile e democratico confronto con il sottoscritto, Le scrivo quanto segue: Tengo a precisare che io non sono un “nostalgico”, in quanto non si può essere nostalgici di un “non vissuto”, bensì sono un meridionalista, militante e attivista. Con migliaia di persone “combattiamo” affinché si risolvano i problemi della nostra gente e della nostra terra. Ha mai sentito parlare della “Questione Meridionale”? Mi auguro di sì! Inoltre io non sono “un cantante” (Lei quando parla di me in tv tende a sminuirmi) ma sono un Signor cantante, cioè, colui che con la propria voce ha determinato i grandi successi dellʼorchestra italiana di Renzo Arbore in tutto il mondo e che da molti anni continua il suo percorso artistico in proprio riscuotendo enormi consensi nonché successi, ambasciatore della canzone napoletana nel mondo e quarantʼanni di rispettabile ed onorata professione.
Ciò non solo come cantante ma anche come autore, compositore e arrangiatore. Si informi sul mio conto, anche se ho seri dubbi che Lei possa o sappia apprezzare, impari ad ascoltare e ad apprezzare la mia ottima musica e la mia preziosa voce prima di annunciarmi in televisione!..E non pensi solo ai dinosauri, si rassegni… Sono estinti!.. Noi meridionali, invece no! Pertanto io sono qui e sono conosciuto in tutto il mondo! E Lei?
Detto questo, giungo alla mia protesta: Lei si è permesso di giudicarmi definendomi “nostalgico”. Lei ha offeso me e una stragrande maggioranza del glorioso popolo napoletano e meridionale (sono in milioni, tutti dalla mia parte).
Lei ha offeso una cultura, una razza, una storia millenaria, Lei ha offeso ciò che non conosce, Lei è un razzista!
Inoltre, nel mio caso, lo ha fatto senza che io avessi possibilità di replica, senza che io potessi contraddirla e questo è da vigliacchi, eticamente scorretto e non professionale.
Addirittura i commenti musicali avevano decibel più alti del parlato relativo alla mia intervista. Intervista tagliata di un buon 90 per cento.
In studio era presente Gennaro De Crescenzo, Presidente del Movimento Neo Borbonico, ufficialmente invitato dallo staff della redazione del programma e forse anche da Lei, ma gli è stato vietato di partecipare e di poter parlare, sempre da Lei.
La sua condotta è stata pessima, incivile, antidemocratica, violenta! Univocamente in difesa verso quelle bugie scritte nei libri di storia da quei vincitori che altro non sono che sporchi criminali di guerra! Sì, criminali di guerra che assassinarono circa un milione di meridionali, criminali di guerra che provocarono unʼepocale fenomeno di emigrazione unico nella storia mondiale! Criminali di guerra oppressori e colonizzatori del nostro meridione! Criminali di guerra che diedero il via ad una questione meridionale tuttʼoggi irrisolta.
Una sola nota positiva: Simone Schettino!!! Grazie di vero cuore Simone, “Fratello” mio!!!
Non riesco a capacitarmi come gli editori di queste televisioni private, napoletani per giunta, abbiano permesso tanto e abbiano potuto consegnarLe le “chiavi in mano” di un presunto programma meridionalista che altro non è che un talk show… Dove Lei si è permesso di sparlare di una gran parte dei meridionali stessi!!! Si sciacqui la bocca prima di parlare di Noi e anche prima di parlare dei Borbone!!! Noi non eravamo brutti, sporchi e cattivi!!! Noi eravamo sani, belli, puliti, buoni, alti, robusti, in salute, ricchi nellʼeconomia, nellʼindustria, nellʼagricoltura, nellʼesportazione di tutti i generi e avevamo la minor percentuale di mortalità dovuta alle malattie e alla fame! Avevamo le prime cattedre di medicina in Europa. Eravamo una Capitale di uno Stato pacifico che vantava il pregio di collocarsi tra le prime cinque potenze mondiali!!! Popolo di Cultura, di Primati, di Pensiero, dʼAmore! Magna Grecia Docet! Il Grande Stato del Regno delle Due Sicilie, Fantastico!
Aaahh …. Se Lei ci somigliasse un poco!.. Invece no, Lei non ci somiglia per niente, Lei è un nemico dei meridionali e del meridione come altri “italiani”! Lei ha addirittura detto dʼinvitare in trasmissione i suoi “fratelli massoni” del grandʼoriente dʼItalia. Ma mi dica!?…Non si vergogna?? Io inorridisco!!!
E dire che non ci voleva poi tanto affinché Lei diventasse il “Paladino della tv del sud”, ma il suo “essere prevenuto”, saccente, presuntuoso e ignorante lʼhanno squalificato in automatico! Che peccato, non sa cosa si è perso!
I meridionali, il mio Popolo è quello di Masaniello, quello del 1799, quello delle quattro giornate di Napoli!!!.. Onesto, Guerriero, Generoso, Leale, Riconoscente, Laborioso, Intelligente, Grandioso! Ma quando sʼincazza veramente… Son dolori!!!
Mi raccomando, non ci offenda, sʼimpegni, cerchi di esser giusto.
Concludendo, per mio conto nonché per conto della numerosissima comunità meridionalista di cui sono tra i portavoce, protesto veemente affinché Lei studi e sʼinformi veramente nonché assuma un comportamento lineare, consono, onesto, corretto e applichi le normative della par condicio. Lo faccia!! Altrimenti, mediante, e grazie alle proteste di una foltissima comunità finirebbe con lʼabbandonare spontaneamente e per sua scelta la conduzione del programma!!! Cosa farebbe?!? Tornerebbe sullʼisola?!?…
Nel contempo Noi boicotteremo il programma televisivo “a reti unificate” e i suoi sponsor.
Saluti, Eddy Napoli.
“A reti unificate”, un format che parla del Sud senza Sud
Angelo Forgione – “A reti unificate”, questo è il titolo dalla nuova trasmissione messa su dal dal Consorzio CMG formato dalle quattro emittenti regionali Canale 8, Canale 9, Canale 21 e Televomero (anche streaming su canale21.it) che fanno squadra per produrre un contenitore di attualità, politica, cultura e cronaca incentrato sui temi del Sud. Finalmente, si direbbe. Interessante e innovativo, ma subito si scopre che c’è qualcosa, troppo, che non va. A cominciare dal conduttore, Alessandro Cecchi Paone che smette le vesti di divulgatore scientifico e s’infila i vestiti del divulgatore meridionalista. Sembra tutto armonioso nell’interpretazione del ruolo, il suo calarsi nella parte di cittadino del Sud che propriamente non è, i suoi interrogativi identitari agli ospiti («ma cosa vogliono da noi i settentrionali?»). È chiaramente una forzatura che viene a galla ben presto.
Indica la direzione del vicolo cieco il vacuo parterre in studio della prima puntata, salvato dal solo vero “fondamentalista napoletano” Simone Schettino, unica presenza calzante in un talk-show meridionalista. Oltre questa bandiera nel deserto, a parlare di meridione si presentano puntuali e in ordine sparso: Paolo Cirino Pomicino, esponente della “prima repubblica” e di una classe politica napoletana che non ha mai tutelato gli interessi della città, condannato a un anno e otto mesi di reclusione patteggiati per finanziamento illecito (tangenti Enimont), oggi presidente di “Tangenziale di Napoli”, strada a pedaggio di proprietà dell’holding finanziaria “Atlantia” di cui è principale azionista la famiglia trevigiana Benetton, nonchè autore di corsivi sui giornali settentrionali “Libero” e “Il Giornale” sotto lo pseudonimo “Geronimo”. Direste mai che sia la persona più idonea per discutere degli interessi del Sud?
Ancora, l’imprenditrice torrese Marilù Mennella, impegnata in importanti affari edilizi a Napoli-est e poco aderente alle tematiche che riguardano la “questione meridionale”. Infine, fatta salva la fiera showgirl napoletana Maria Mazza senza infamia e con lode alla sua bellezza mediterranea, l’esercito dell’inconsistente: un giovane modello, spaesato e privo di argomenti, figlio di un proprietario di un produttore di mozzarelle, invitato perchè «ha avuto il coraggio di dichiarare che è gay» e perchè dicesse «non so cosa sia la Cassa del Mezzogiorno… non voto» nei suoi unici interventi secchi previo domanda; una bionda signora di mezza età presentata come “ultima sciantosa” (mah!), già vincitrice di un quiz televisivo presentato dallo stesso Cecchi Paone.
In collegamento da altri studi dislocati, il giornalista meridionale Giovanni Valentini, autore del libro “Brutti, sporchi e cattivi: i meridionali sono italiani?” in cui passa il messaggio perverso per cui i vizi del Sud sono diventati vizi italiani, e il sindaco di Palermo Leoluca Orlando nei panni di buon filosofo.
In realtà parte male già la conduzione, assegnata ad un personaggio avulso dalle criticità del meridione, capace di “infervorarsi” solo alle pertinenti disquisizioni risorgimentali di Simone Schettino circa la storia scritta dai vincitori che etichettarono gli sconfitti con l’appellativo denigratorio di “briganti”, e al più marcato revisionismo contenuto nell’intervista a Eddy Napoli cui il presentatore mette scorrettamente e senza diritto di replica un cappello denigratorio e inopportuno. «A proposito di perversione dell’identità e dell’appartenenza! A me dispiace molto che i nostalgici non ricordino che le condizioni di vita delle classi misere erano spaventose sotto le Due Sicilie. La gente moriva di fame e di raffreddore, viveva pochissimo, erano tutti sporchi, erano tutti cattivi e senza destino. Ce lo dicono studi meridionalisti che non sono inventati e che descrivono l’orrore in cui viveva la classe popolare duosiciliana, altro che balle!» Commento fuorviante e doloso da parte di un uomo dichiarato appartenente alla massoneria, conoscitore del ruolo che questa ebbe nel saccheggio del Sud, quindi insofferente per estrazione alla rivendicazione di un più equilibrato giudizio sulla storia borbonica, notoriamente anti-massonica. Fastidio esorcizzato anche nel commento di un servizio sulla sartoria identitaria di Salvatore Argenio: «Mi costringeranno ad invitare la massoneria per diritto di replica». Insomma, tutto fuorché un conduttore aperto all’ascolto delle espressioni del territorio che è chiamato a descrivere senza peraltro esservi calato.
Il riferimento agli aleatori studi meridionalisti (citati senza autori e fonti, ndr) non trovano corrispondenza nella cronache di un Sud che nel 1860 faceva registrare il minor tasso di mortalità infantile d’Italia come ci racconta il pluridecorato medico Giovanni Berlinguer, docente di Medicina Sociale all’Università di Sassari, che nel marzo del 1970, sul mensile “Vitalità”, scrisse: “Cento anni fa i livelli più bassi di mortalità infantile si avevano in Campania mentre i livelli più elevati si registravano in Lombardia, Piemonte ed Emilia e Romagna. Ora (1970) la situazione è invertita: la regione a mortalità infantile più elevata è la Campania dove l’indice è del 50 per mille. Sono certo che le ragioni di questo cambiamento vanno ricercate nella storia economica-sociale infatti, dopo l’unificazione, solo il Nord s’industrializzò con i soldi del Sud e nacquero ospedali e strutture sanitarie”.
Altro che orrore e vita breve tra la sporcizia! In quel Sud, certamente fatto di criticità ma non infernale, la mortalità infantile era arginata dalla più alta percentuale di medici per abitanti in Italia, in tutto 9390 (6871 nel continente e 2519 in Sicilia) su circa 9 milioni di abitanti mentre il Piemonte e la Liguria ne contavano 2610, la Lombardia 2204, la Toscana 1320, l’Emilia e la Romagna 953, per un totale di 7087 professionisti per oltre 13 milioni di abitanti. Già nel 1821, in quel Sud, una legge dispensava da ogni impiego i genitori che non avessero vaccinato i figli per il vaiolo, vaccino che nel Regno di Sardegna fu reso obbligatorio solo nel 1859.
Alle opinioni di Cecchi Paone si aggiunge la gaffe di Cirino Pomicino che si accoda alla disinformazione storica per nozionismo spicciolo: «un viaggiatore inglese (?) alla fine del Settecento diceva che Napoli era l’unica città mediorientale che non aveva un quartiere occidentale». Pomicino deve aver confuso le belle parole scritte dai viaggiatori del “grand tour” settecentesco con quelle pronunciate dal napoletanissimo Eduardo Scarfoglio una quarantina d’anni dopo l’unità d’Italia, a questione meridionale ormai deflagrata. Scarfoglio, che parlò di città orientale (non mediorientale, ndr) senza quartiere europeo, volle così descrivere Napoli in quanto vera porta d’Oriente verso Occidente pur non essendo orientale, ben fotografandone nel bene e nel male l’antica identità mai perduta e la decadenza del periodo post-unitario. Una frase che non solo Cirino Pomicino attribuisce a Lord Rosebery, il britannico che, a partire dal 1897 (non fine Settecento, ndr), abitò l’omonima villa posillipina oggi residenza del Presidente della Repubblica.
Cirino Pomicino anche retorico nel chiedere il rispetto per il Parlamento a prescindere dai parlamentari, e giustamente richiamato alla realtà da Simone Schettino che più volte ha “suggerito” coerenza al politico napoletano con la sua consueta verve: «Padre, figlio e Spirito Santo, i politici italiani sono sempre gli stessi…», «parliamo male della seconda repubblica come se la prima fosse stata rose e fiori…» e così via.
La trasmissione appare persino poco spontanea nel dietro le quinte, indirizzata in un cliché noto anche nelle opinioni in diretta raccolte tra i frequentatori della movida napoletana ai “baretti” di San Pasquale. Le prime voci rivendicano un’identità meridionale poco italiana ma, per magia, l’ultimo microfono è appannaggio dell’opinione di una napoletana che si dice cascata nella discussione per caso e carente in preparazione storica ma contro i revisionisti a prescindere, con tanto di applauso non scattato in precedenza.
Insomma, una trasmissione che parla del Sud senza Sud. E che per questo può solo descrivere un altro Nord. Avete presente il cavallo di Troia?
