
Angelo Forgione – 7 Settembre 1860, 7 settembre 2020. 160 anni esatti sono trascorsi dall’ingresso di Giuseppe Garibaldi a Napoli. 160 anni, cioè, da quando la Capitale, sostanzialmente, non è più tale.
In quel venerdì settembrino, a Napoli, è in pieno svolgimento la festa di Piedigrotta, la grande festa nota in tutt’Europa da quando Carlo di Borbone, nel 1744, l’ha resa festa nazionale delle Due Sicilie per celebrare la vittoria di Velletri contro gli Austriaci e ha introdotto una parata militare oltre alla sfilata dei carri allegorici. I viaggiatori del Grand Tour l’hanno vissuta e raccontata con entusiasmo. Stavolta, però, c’è distrazione e tensione. Garibaldi è salito sul treno borbonico a Salerno e viaggia verso Napoli mentre Re Francesco II di Borbone la sta lasciando per evitare sofferenze al suo popolo e sta navigando verso Gaeta, laddove organizzerà l’ultima difesa del Regno.
Garibaldi arriva in città e si autoproclama “Dittatore delle Due Sicilie”. Ad accompagnarlo c’è anche fra Giovanni Pantaleo da Castelvetrano, cappellano siciliano unitosi alla spedizione dei Mille e utilissimo per legittimare, attraverso la predicazione, l’impresa garibaldina presso le classi popolari e per favorire la coscrizione di volontari. Eppure il nizzardo è un massone, un rigidissimo anticlericale, e odia preti e uomini di Chiesa di ogni ordine e grado. Di spontaneo c’è poco di fronte ai grandi interessi enormi che lo travolgono nella sua incursione nel cattolico regno borbonico, e ben lo sanno i malviventi napoletani e siciliani di cui l’Eroe si serve per portarla a compimento. Sono proprio gli uomini della Bella Società Riformata, i modesti delinquentucoli in carriera della Napoli conquistata, a garantirne la sicurezza. Le rampanti canaglie, investite di poteri polizieschi dall’opportunista prefetto Liborio Romano, in cambio di un totale colpo di spugna dei casellari giudiziali e di lauti vitalizi, impongono la legge del più violento per sottomettere tutti i nemici dello spirito liberale e, al gran completo, accolgono Garibaldi alla strada dei Fossi, dove sorge la stazione ferroviaria. Loro a terra e i britannici nel Golfo sul legno Intrepid, di scorta al Generale sin dalla Sicilia e piazzatosi per mesi davanti al litorale di Santa Lucia, mentre il dittatore elargisce compensi e prebende ai malavitosi e promette cariche parlamentari a Don Liborio. In testa al corteo che segue la carrozza del “dittatore” figura proprio il questore capintesta “Tore ‘e Criscienzo”. Via Marina, Maschio Angioino, Largo di Palazzo (Plebiscito) con breve discorso. Poi su per la strada di Toledo fino a Palazzo Doria D’Angri allo Spirito Santo, dal quale si affaccia e ne prende possesso come dimora.
Il giorno seguente, il Generale che detesta il Papa e che ha chiamato Pionòno (Pio IX) il suo asino vuole che si verifichi il prodigio settembrino di san Gennaro in sua presenza, perché ben sa che i favori del Patrono possono assicurargli quelli del popolo partenopeo. È già accaduto sessant’anni prima, con i militari francesi a “vigilare” sul compimento dello scioglimento del sangue.
Garibaldi e i suoi trovano la Cappella del Tesoro sbarrata. Niente da fare. E allora, in serata, accompagnato dal “doppia faccia” Liborio Romano e da tutti i camorristi di guardia, incrocia la processione della Madonna di Piedigrotta e, pur di ingraziarsi i cattolicissimi napoletani, si reca al Santuario di Piedigrotta attraversando in parata la Riviera di Chiaia. Per volontà divina vengono sorpresi da un tremendo temporale che inzuppa il corteo. Quando arriva, il nizzardo si scappella davanti a tutti di fronte all’immagine della Vergine.
Tocca aspettare il 19 settembre, giorno del Santo patrono, per timbrare di rosso garibaldino il prodigio. «Il sangue deve liquefarsi e si liquefarà – urlano i predicatori garibaldini in largo di Palazzo – altrimenti a farlo liquefare ci penserà Garibaldi». E così è!
Quella dell’anno seguente è l’ultima Piedigrotta, organizzata dal luogotenente Generale Enrico Cialdini. I Savoia la cancellano nel 1862 dopo aver decretato nel Febbraio di quell’anno la soppressione di tutti i conventi e la confisca dei beni mobili e immobili della chiesa. È coinvolto ovviamente anche il santuario di Piedigrotta, i cui canonici vengono liquidati con un piccolo vitalizio.
7 Settembre 1860, 7 settembre 2020. 160 anni sono trascorsi dall’ingresso di Giuseppe Garibaldi a Napoli. 160 anni, cioè, da quando la Capitale non è più tale.
In quel venerdì settembrino, a Napoli, è in pieno svolgimento la festa di Piedigrotta, la grande festa nota in tutt’Europa da quando Carlo di Borbone, nel 1744, l’ha resa festa nazionale delle Due Sicilie per celebrare la vittoria di Velletri contro gli Austriaci e ha introdotto una parata militare oltre alla sfilata dei carri allegorici. I viaggiatori del Grand Tour l’hanno vissuta e raccontata con entusiasmo. Stavolta, però, c’è distrazione e tensione. Garibaldi è salito sul treno borbonico a Salerno e viaggia verso Napoli mentre Re Francesco II di Borbone la sta lasciando per evitare sofferenze al suo popolo e sta navigando verso Gaeta, laddove organizzerà l’ultima difesa del Regno.
[…] Ebbene, esse [le popolazioni meridionali] maledicono oggi coloro, che li sottrassero dal giogo di un dispotismo, che almeno non li condannava all’inedia per rigettarli sopra un dispotismo più orrido assai, più degradante e che li spinge a morire di fame.
Ho la coscienza di non aver fatto male; nonostante, non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esservi preso a sassate da popoli che mi tengono complice della spregevole genìa che disgraziatamente regge l’Italia e che seminò l’odio e lo squallore là dove noi avevamo gettato le fondamenta di un avvenire italiano, sognato dai buoni di tutte le generazioni e miracolosamente iniziato. […]
Il 7 settembre del 1878, diciotto anni dopo il suo ingresso dittatoriale a Napoli, Garibaldi, usato e messo da parte da Vittorio Emanuele II, scrive una lettera alla patriota milanese Adelaide Cairoli, motivandole le dimissioni dalla carica di deputato al Parlamento e mostrandosi pentito del suo apporto alla causa piemontese-lombarda in alcuni significativi passaggi:
[…] Ebbene, esse [le popolazioni meridionali] maledicono oggi coloro, che li sottrassero dal giogo di un dispotismo, che almeno non li condannava all’inedia per rigettarli sopra un dispotismo più orrido assai, più degradante e che li spinge a morire di fame.
Ho la coscienza di non aver fatto male; nonostante, non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esservi preso a sassate da popoli che mi tengono complice della spregevole genìa che disgraziatamente regge l’Italia e che seminò l’odio e lo squallore là dove noi avevamo gettato le fondamenta di un avvenire italiano, sognato dai buoni di tutte le generazioni e miracolosamente iniziato. […]
per approfondimenti:
Napoli Capitale Morale
Made in Naples












Pezzi che parlano dell’antichissimo rapporto di Napoli con il vino a chi è più attento. Già, perché sono davvero in pochissimi, napoletani compresi, a sapere che la città di Napoli, dopo Vienna, è quella con più terreni coltivati a vite in Europa. Un primato a cui non ci si crederebbe, eppure la Napoli di oggi, un milione di persone accalcate, conserva ancora parte dei suoi antichi vigneti e li protegge nei suoi quartieri. La collina del Vomero e il declivio di Posillipo che degradano dolcemente verso il mare e sui Campi Flegrei, il cratere spento degli Astroni ad Agnano, il Maioriello di Capodimonte, i Camaldoli, Chiaiano e altri fazzoletti di città nascondono piccoli vigneti metropolitani, preziosi appezzamenti verdi, macchie più o meno grandi di eroici filari tra le costruzioni che colorano il paesaggio e ne diventano parte integrante. Un patrimonio salvato dall’estinzione di cui si parla poco e niente, ma che esiste in silenzio e resiste al trascorrere dei secoli. Una particolarità che conserva a sua volta un unicum napoletano molto apprezzato da enologi ed amanti del vino. Napoli, ma anche la sua provincia, presidiate dal Vesuvio e dai vulcani dei Campi Flegrei, costituiscono infatti uno dei pochi territori al mondo a preservare il tipo di coltivazione “a piede franco”, patrimonio genetico originario della vite europea, ossia la coltura senza l’impiego della vite americana come portainnesto. I filari napoletani di oggi sono davvero eredi diretti delle prime piante portate dai Greci in Campania, una rarità dovuta alla conformazione vulcanica del terreno sabbioso, caratteristica che da una parte rende il lavoro più difficile ma dall’altra ha consentito ai vigneti partenopei di tenere lontana l’aggressione parassitaria, quindi di preservare la biodiversità vegetale, la purezza dei vitigni e una maggiore concentrazione di profumi nelle uve, con sentori di mineralità e sapidità che rendono i vini di Napoli tipici e differenti, impossibili da produrre in altre zone del mondo.