Ostacolo alle indagini sulle (vere) trattative Stato-mafia

Angelo Forgione – Mentre tutti erano distratti da Genny ‘a carogna e dai fiumi di parole sulla sua maglietta e sulla trattativa per svolgere o meno la finale di Coppa Italia, una silenziosa circolare del Consiglio Superiore della Magistratura, presieduto dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, azzerava il pool di Palermo, che non ha eguali per competenza, le cui indagini nel quadro delle trattative Stato-Mafia hanno delineato nuovi misteri legati a figure appartenenti ad ambienti di potere decisamente più alti di quelli toccati dalle precedenti attività investigative. La direttiva ordina che tutti i nuovi fascicoli d’inchiesta sulla mafia debbano essere affidati esclusivamente a chi fa parte della Dda, la direzione distrettuale. Striscioni contro lo Stato e a sostegno del pool antimafia di Palermo sono apparsi sui cavalcavia di viale Regione siciliana, nel capoluogo isolano. In uno degli striscioni è scritto: “Lo Stato carogna blocca il pool antimafia”.
Vale la pena ricordare che nel gennaio 2013 la Corte costituzionale accolse il ricorso del Quirinale contro la Procura di Palermo per conflitto di attribuzione e dispose la distruzione delle intercettazioni tra il presidente Napolitano e l’ex presidente del Senato Mancino.

Calcio italiano “game over”

la discriminazione territoriale scoperchia l’infiltrazione della malavita che ricatta le società e la società

Angelo Forgione È andata come peggio non poteva la finale di Coppa Italia. In scena, l’ennesima figuraccia del nostro calcio agli occhi d’Europa, proprio mentre il Portogallo superava l’Italia nel ranking europeo, come è logico che sia quando la prima e la terza lusitane eliminano dall’Europa League la prima e la terza italiane. Le immagini in diretta dallo stadio Olimpico ci hanno descritto di un colloquio tra Hamsik e responsabili del Napoli coi capiultrà (non tifosi, sia chiaro) seduti sulle recinzioni, utile ad allentare la tensione e far svolgere la partita per ordine pubblico, tra petardi lanciati all’indirizzo di addetti alla sicurezza e notizie ufficiali che si rincorrevano all’insegna della modifica ad arte con lo scopo di calmare gli animi. Tutto in una sera è venuto a galla la melma corrosiva sedimentata nel calcio italiano e nel Paese di cui è specchio.
Il presupposto di riflessione è unico: se la Digos segue i flussi delle tifoserie nelle trasferte è perché sa che tra di loro ci sono elementi pericolosi. Accade troppo spesso. I tifosi, quelli veri, sono di fatto schiavi di un passione e ostaggi di personaggi con un’etica e una mentalità tutta propria che non ha nulla a che vedere con la civiltà e che, da protagonisti di un torbido intreccio, assurgono al ruolo di chi comanda e di chi ha il potere di accendere gli animi o sedarli, sospendere o riprendere una partita, interfacciarsi o scontrasi con i rappresentanti e i tutori della pubblica sicurezza. Così accade in ogni aspetto della società in cui in ballo ci sono introiti facili e interessi personali, da sempre; dunque, perché scandalizzarsi solo quando le telecamere puntano gli obiettivi su una partita di calcio?
Potremmo star qui a parlarne all’infinito, e non avremmo nemmeno iniziato a farlo se non fosse successo quello che è successo all’esterno dello stadio. Il battito della farfalla dall’effetto devastante è di un altro capoultrà, della tifoseria estrema della Roma, già noto per le sue nobili gesta. È Daniele De Santis “Gastone”, destinatario di daspo, co-protagonista della sospensione di un Roma-Lazio del 2004 per l’omicidio (falso) di un un bambino da parte della polizia per cui se la cavò con la prescrizione, arrestato nel 1996 per ricatto all’allora presidente della Roma Franco Sensi, obbligato a fornire biglietti: «se non ci dai i biglietti – disse in un’intercettazione telefonica – facciamo lo sciopero del tifo e allo stadio non verrà più nessuno, e sfasciamo tutto, vedi un po’ se ti conviene». Questo è il profilo di un esercente in un chiosco nei pressi dell’Olimpico, sceso di casa per recarsi al lavoro con fumogeni, pistola ed, evidentemente, tanta premeditazione. Sapeva che gli odiati napoletani sarebbero passati nei suoi paraggi e invece di starsene buono pare abbia pensato di provocarli lanciandogli i fumogeni al grido «vi ammazzo tutti». All’inevitabile reazione, avrebbe risposto esplodendo colpi di pistola, colpendo alla colonna vertebrale Ciro Esposito. A terra ci è rimasto anche lui, pestato per vendetta, ma con “solo” una gamba rotta. Entrambi in ospedale, lo stesso, ma solo uno in rischio di vita. È questo il vero atto da condannare, e si è fatto grottesco l’accanimento nei confronti della “carogna” con la sua vergognosa maglietta, che non ha sparato contro un uomo come ha fatto “Gastone”, vero colpevole lontano dalle telecamere e dal clamore mediatico.
Dobbiamo discutere alla stessa maniera del problema delle curve inquinate, delle società ostaggio degli ultras, delle rapine in serie ai calciatori del Napoli per ricattare De Laurentiis che non cedeva e della caccia al tifoso napoletano ormai troppo evidente. C’è un filo logico che unisce questi aspetti, e l’applicazione della discriminazione territoriale l’ha reso più evidente. Ormai il sistema è saltato, ma non da oggi, ed è tempo sprecato la ricerca delle responsabilità e delle attenuanti tra questa o quella tifoserie. Di sane non ce ne sono più. Le responsabilità arrivano da lontano e hanno radicato un modo di pensare e agire deviato che ha contagiato anche gli addetti ai lavori. Un esempio? La scorsa settimana, prima di Inter-Napoli, gli interisti avevano reclamato con un grosso striscione la loro importanza vitale sugli spalti. Due pagine di libro chiuse così: “È la tifoseria che fa diventare il calcio una cosa importante”. Era un ricatto a Lega e FIGC, bello e buono, al quale le istituzioni del calcio pure stanno. I tifosi portano abbonamenti alle tv e allo stadio e alimentano il merchandising, che è voce importantissima nei bilanci moderni dei club italiani, tutti dipendenti da banche o risorse esterne della proprietà (eccetto il Napoli). I conti sono diventati l’unica emergenza delle società italiane, e nel frattempo la qualità e la competitività se ne sono andate a farsi benedire. Il segno della sottomissione di alcuni club ai gruppi organizzati? Se da una parte i cori razzisti contro Napoli durante la stessa partita hanno poi fruttato una sanzione come da regolamento (2 giornate di chiusura della curva nerazzurra), dall’altra si prepara per giugno una revisione non ancora ben chiara delle punizioni. Chissà cosa ne verrà fuori, dopo 40 anni di impunità e uno solo di applicazione. Il problema è diventata la sanzione, non il reato (commesso anche dai tifosi della Fiorentina durante la finale di Coppa), e allora ci si è messo – e non da ora – anche il telecronista Mediaset Sandro Piccinini in telecronaca, subito dopo i cori, a dar ragione ai ricattatori e a chiedere libertà di “sfottere”, invece di condannare certi atteggiamenti. Il condizionamento parte dagli stessi club coinvolti, i quali, dalla loro posizione di ricattati, invece di lavorare al cambio di mentalità, sbertucciano la discriminazione territoriale, la quale viene contestata perché presta il fianco ai ricatti delle curve e le svuota per decisione dei loro capi. Il problema è tutto lì: la norma sulla discriminazione territoriale, fornendo agli ultrà un’ulteriore arma di ricatto, ha scoperchiato indirettamente un problema ben più ampio, o meglio, il vero problema da risolvere, che appresso si porta anche l’amplificazione del razzismo. Prima si saneranno le curve e prima guarirà il calcio. Ma è possibile guarire il calcio prima di aver guarito l’Italia?
Un passo indietro delle istituzioni è impensabile, sarebbe una sconfitta gravissima. Dovrebbero farlo i club, che con le curve hanno da tempo frequentazioni poco raccomandabili e per nulla educative. A costo, se proprio occorre, d’avere stadi semivuoti per un po’. Un mito del calcio italiano come Maldini ha lasciato l’attività tra i fischi dei suoi “tifosi”, coi quali non ha mai legato. I ricatti dei capiultrà del Milan colpivano Galliani, messo sotto scorta, e Paolo non ha mai avuto atteggiamenti accondiscendenti verso i gruppi del tifo organizzato rossonero che pretendevano biglietti e vario merchandising a prezzi più bassi per poi rivenderli all’interno della curva.
Prima della finale tra Napoli e Fiorentina l’inno nazionale è stato sonoramente fischiato, ma lo sarebbe stato anche senza quel che è accaduto. Nascondere il dissenso dietro gli eventi drammatici di ieri significa censurare un malessere che è anche tra i tifosi normali, che vanno allo stadio solo per coltivare la passione per la propria squadra dopo una settimana di malpagato lavoro, quando c’è. Il presidente del Consiglio, il presidente del Coni, il presidente della Lega e il presidente della FIGC erano tutti all’Olimpico, testimoni oculari dell’evidente fallimento di un calcio malato che è immagine riflessa di un Paese senza cultura e con troppa delinquenza. E nulla fa per curarsi seriamente. Gamer over, si fa per dire. La giostra ricomincia fino al prossimo stop.

La “liberazione”, insorgenza europea che partì da Napoli

La “liberazione”, insorgenza che partì da Napoli

le “quattro giornate” movimento di un popolo mai veramente libero

La festa della liberazione d’Italia, celebrazione della “Resistenza”, è anche detta “Secondo Risorgimento”. Non per caso, visto che la data del 25 Aprile corrisponde alla fine dell’occupazione nazifascista di Torino e Milano nel 1945. E così come il 17 Marzo viene identificato come data dell’Unità d’Italia (1861) perchè proclamata a Torino quando in realtà mancavano Roma (la Capitale!) coi suoi territori pontifici e tutto il Veneto, anche il 25 Aprile è data simbolica riferita al Nord poiché altre città furono liberate dopo e la liberazione completa è databile solo al 1° Maggio ’45.
Fu vera liberazione o si passò da un’occupazione militare tedesca ad un’altra coloniale americana? Revisionismo a parte, di fatto l’insurrezione europea contro il nazismo vide nel Meridione d’Italia la sua origine nel Settembre del 1943 e fu Napoli la prima grande città del vecchio continente ad insorgere e a cacciare i feroci invasori con un movimento di popolo senza supporto militare che vale per la città partenopea il grande onore della decorazione al “Valor Militare”, ma sarebbe più giusto definirlo “Civile”, con la seguente motivazione: «Con superbo slancio patriottico sapeva ritrovare, in mezzo al lutto ed alle rovine, la forza per cacciare dal suolo partenopeo le soldatesche germaniche sfidandone la feroce disumana rappresaglia. Impegnata un’impari lotta col secolare nemico offriva alla Patria, nelle “Quattro Giornate” di fine Settembre 1943, numerosi eletti figli. Col suo glorioso esempio additava a tutti gli Italiani, la via verso la libertà, la giustizia, la salvezza della Patria».
Memorabili le strategie di guerriglia dei furbi napoletani, arroccatisi nelle loro case a tirare dai balconi ogni tipo di arredo e suppellettile per colpire dall’alto i soldati tedeschi intenti a raggiungere la zona collinare (guarda il video).
Il politico comunista Luigi Luongo, nel suo libro “Un popolo alla macchia”, scrisse nel 1947 che “dopo Napoli la parola d’ordine dell’insurrezione finale acquistò un senso e un valore e fu allora la direttiva di marcia per la parte più audace della Resistenza italiana”.
Una settimana prima di Napoli insorse Matera e il movimento risalì l’Italia ingrossandosi di aiuti militari fino a concludersi completamente nel Maggio di due anni più tardi.
Da poco Vittorio Emanuele III di Savoia, dopo la caduta di Mussolini, era fuggito vilmente da Roma alla volta di Brindisi lasciando disorientato l’esercito e scoprendo lo stesso Stato.
Certo, gli Alleati angloamericani erano rassicuranti alle porte, dopo aver bombardato violentemente la città, le sue fabbriche e i suoi monumenti, per sollevare il popolo partenopeo, ma i napoletani esasperati dettarono la via all’Italia e all’Europa liberandosi della ferocia nazista, la più grande che l’umanità abbia mai conosciuto. Non sarebbero però mai riusciti a liberarsi della subdola colonizzazione italiana e conseguenti povertà e disoccupazione; e mai sono riusciti a liberarsi della camorra, così come il Sud intero delle mafie, che proprio in quel periodo rialzarono la testa dopo che la repressione fascista mussoliniana pure era riuscita a mettervi qualche argine; con la complicità degli Alleati i quali, sbarcati in Sicilia (sempre lì) nel Luglio del 1943, misero a capo delle amministrazioni locali dei dichiarati mafiosi in quanto antifascisti per ovvie ragioni. Nè più e nè meno ciò che accadde nel “primo” Risorgimento con mafiosi e camorristi assoldati da Garibaldi.

Schiavone: «vera mafia è lo Stato». E lo Stato tace.

A una settimana dalle dichiarazioni a SkyTG24 del pentito di camorra Carmine Schiavone, le istituzioni italiane, chiamate in causa, tacciono.
L’ex collaboratore di giustizia ha chiaramente denunciato l’esistenza di uno “Stato mafioso”, di ministri corrotti, di intere caserme di Carabinieri, Polizia, e Guardia di Finanza conniventi. Il silenzio di chi dovrebbe parlare (e bonificare) è assordante!

Schiavone: «così Camorra e Stato hanno avvelenato la Campania»

Angelo Forgione – In un’intervista esclusiva a SkyTg24, Carmine Schiavone, ex boss di camorra del clan dei Casalesi e collaboratore di giustizia per vent’anni (fino allo scorso luglio), ha denunciato il tradimento dello Stato nei suoi confronti e le grandissime responsabilità di ministri, magistrati, carabinieri, poliziotti e finanzieri nell’avvelenamento delle terre tra Napoli e Caserta, ma anche fino a Latina, nell’ambito del business dello smaltimento dei rifiuti tossici delle aziende del Centro-Nord.
«Se potessi tornare indietro non mi pentirei. Sono pentito di essermi pentito e non lo farei più perché le istituzioni mi hanno abbandonato. Quando non sono riusciti ad ammazzarmi materialmente, hanno cercato di distruggermi economicamente, moralmente. Ero uno dei capi della cupola casalese e sono stato decisivo nell’omicidio di almeno cinquecento persone, ma loro sono più responsabili di me perché si sono venduti e hanno permesso di inquinare in cambio di soldi. Noi pagavamo a loro due miliardi e mezzo di mensile fisso, più 500 milioni per corruzione… poi preparavamo le macchine delle forze dell’ordine clonate e mantenevamo molte caserme. Quella di Aversa, per esempio, la sera mi ragguagliava di tutte le operazioni in corso. Ora stanno morendo milioni di persone.»
Queste le dichiarazioni del pentito, uno dei principali colpevoli del genocidio in atto ai danni del popolo campano, faccia di una medaglia che, secondo le sue rivelazioni, ha scolpito sul retro anche lo Stellone repubblicano d’Italia. Facile dunque capire come sia stato compiuto, con estrema semplicità, questo silenzioso delitto di massa. Un patto scellerato all’italiana che produrrà i suoi effetti nefasti nei prossimi cinquant’anni. Altrettanto facile capire perché, nonostante il problema sia sotto gli occhi di tutti, nessuno dei vertici dello Stato muova un dito per mettere fine a questo massacro e procedere con le necessarie bonifiche. Inutile rimarcare, o forse no, che il fenomeno mafioso meridionale è, dalla nascita dello Stato unitario, una comodità della Nazione italiana nordcentrica che al Sud baratta da sempre il consenso elettorale con il potere autogestito. Schiavone ha sentenziato proprio che «la mafia potrebbe essere distrutta ma non accadrà mai perché ci sono troppo interessi, sia a livello economico che a livello elettorale».
Padre Maurizio Patriciello, uno dei simboli della lotta all’inquinamento in Campania, ha scritto proprio al pentito. Il parroco della chiesa di Caivano, uno dei centri urbani più martoriati dai roghi tossici ed epicentro della “Terra dei Fuochi”, ha inviato una lettera al pentito per chiedergli di continuare a vuotare il sacco e di indicare con precisione tutti i punti in cui sono sotterrati i rifiuti tossici. Forse servirebbe a poco, visto che Schiavone, nella stessa intervista rilasciata a SkyTg24, ha fatto capire di aver già indicato più volte agli inquirenti dove fossero sotterrati i rifiuti, fornendo i numeri di targa dei camion utilizzati per i trasporti, le bolle d’accompagnamento che servivano ad eludere i controlli e le ditte che avevano apposto timbro e firma in calce a quei documenti.

Forgione e Villaggio, duro e civile confronto culturale a “La Radiazza”

Villaggio: «Non ho mai detto certe frasi sul Sud».
Forgione: «Gliele ricordo io due o tre cosette»

Dopo l’intervista rilasciata a calcionapoli24.it alla vigilia di Sampdoria-Napoli e terminata con un forte scontro di opinioni nato dalle sue dichiarazioni rilasciate a SKYtg24 al tempo dell’alluvione di Genova, la posizione di Paolo Villaggio rispetto alla responsabilità esclusiva del Sud rispetto al disastro italiano meritava di essere chiarita.
Nel corso del programma “La Radiazza” di Gianni Simioli su Radio Marte, abbiamo contattato l’attore genovese che, remissivo e cauto, ha negato l’evidenza (documentata) di aver espresso certi giudizi circa la migliore cultura meridionale. Ne è comunque venuto fuori un confronto dialettico molto interessante, interrotto per esigenze di programmazione non prima di aver fornito a Villaggio degli spunti di riflessione. Speriamo ne faccia tesoro, e non solo lui.

È il giorno degli spaghetti, della pizza e del mandolino

È il giorno degli spaghetti, della pizza e del mandolino

si è sempre meridionali di qualcuno… e carnefici della Germania

Angelo Forgione per napoli.com L’italia divisa batte la Germania unita, SuperMario (Monti) batte Angela, i truffaldini battono gli onesti, e via andare…  ma quel che più importa è che i “Gastarbeiter”, gli emigranti italiani di Germania, vivano oggi il loro più classico “giorno dopo” da leoni. Quando il bianco-nero prussiano incontra il blu Savoia è sempre la stessa storia, calcistica ovviamente. “Non vincete mai” cantano gli italici. Ma cosa c’è nel karma pallonaro del popolo germanico? Che colpa hanno da espiare nei confronti degli italiani? Forse è solo la presunzione di ogni vigilia, più le prendono e più la loro voglia di vendetta aumenta. Cosa diranno e scriveranno il giorno in cui riusciranno a vincere?
Oggi sfornino pizze in quantità industriale i Gastarbeiter, che non saranno mai al capolinea. Attorciglino spaghetti macchiati di rosso pomodoro e tirino fuori i mandolini e tutta la voce che hanno per cantare in faccia all’omone dal calzino bianco nel sandalo col boccale in mano.
Il potere della nazionale è tutto qui, nel riuscire ad accomunare retoricamente nella buona e nella cattiva sorte. E quella cattiva sorte provoca anche un sottile piacere nel vedere raggruppati tutti gli italiani sotto i colpi del pregiudizio. Quando gioca l’Italia, il luogo comune all’italiana del Nord verso il Sud diventa quello tedesco verso l’italiano perchè, come disse Bellavista, si è sempre meridionali di qualcuno. Spaghetti, pizza, mandolino e mafia… deutsch grida a italienisch ciò che padania grida a terronia.
Magica nazionale italiana di calcio, capace di far dimenticare tutto. L’azzurro, che in realtà è blu, genera sindrome cognitiva amnesica. Chissà quanti di quelli che in tempi non sospetti hanno gridato “se saltelli muore Balotelli” ne hanno già fatto un eroe partigiano che ci ha liberato dai tedeschi. Nel cassetto chiuso della memoria anche le rivalità “guelfoghibelline” e le offese razziste, perchè chi tifa a Napoli e a Milano tifa lontano, ed è piuttosto il contatto a creare i presupposti per i fischi all’inno nazionale. Si dimentica di tutto e molto di più, ma tant’è, a più d’uno non interessa di fronte alla possibilità di festeggiare, strombazzare, fare “ammuina”, trovare la valvola di sfogo che fa pure bene in tempi cupi come questi.
Poi magari finisce anche come nel 2006 che l’Italia vince a braccetto con gli scandali, spinta dai goal di un palermitano di colore figlio di immigrati ghanesi. Perchè no? Siamo un popolo di truffatori-vincitori. Pardon per il luogo comune, siamo anche un popolo di onesti-perdenti senza onori. Ma è vero che più solleviamo polemiche e scandali e più alziamo trofei. Giusto o meno che sia, se vincono gli spaghetti, la pizza e il mandolino vince in fondo Napoli.

La mozzarella di bufala dop sottratta alla camorra

La mozzarella di bufala dop sottratta alla camorra

da oggi necessari certificato antimafia e latte di allevamenti dop

La mozzarella di bufala campana è un vanto tutto campano, da Mondragone a Battipaglia; una di quelle leccornìe irrinunciabili, simbolo di tradizione e cultura millenaria di origini normanne anche se il vero grande impulso produttivo è di epoca settecentesca.
Da oggi più sicura visto che il Consorzio di tutela della mozzarella di bufala campana dop, nell’assemblea annuale svoltasi per la prima volta in un bene confiscato alla camorra a Castel Volturno (Caserta), ha stabilito che per produrla occorreranno due requisiti fondamentali: l’obbligo di presentare ogni anno il certificato camerale antimafia e l’utilizzo di latte proveniente da allevamenti dop. Occhio al bollino dunque; da oggi la mozzarella sigillata col marchio del consorzio assicurerà non solo che si tratta di un prodotto di altissima qualità ma che non è frutto del riciclaggio della camorra.

Sud colpito al cuore!

Sud colpito al cuore!

Alla ricerca dell’anima di un paese mai vivo

Ci deve interessare marginalmente quale sia la schifosa mano armata dei criminali che oggi hanno distribuito sangue, dolore e lutto a Brindisi, nel Sud e in tutto il paese. Nessuna entità politica, economica o malavitosa era mai arrivata a colpire a freddo dei sedicenni all’esterno di una scuola, dove si insegna la cultura, l’educazione e la legalità. Al Sabato, di primissimo mattino, quando il mondo del lavoro dorme e il primo sole è di quei ragazzini col solo timore di un’interrogazione. Ciò che è accaduto oggi non colpisce chi lotta per il Sud ma colpisce la speranza nel futuro del Sud. Un futuro che oggi tutta l’Italia, un paese mai vivo e senz’anima, non ha più.
Insieme alla morte umana bisogna prendere coscienza di una morte sociale che qualcuno non vede. Quando un paese spaccato a metà economicamente e politicamente recede e pretende esclusivamente tributi iniqui al popolo senza attivare sviluppo, le mafie si fortificano e si ingrossano perchè danno “lavoro” a chi non ce l’ha. E si ingrossano anche le cellule terroristiche. Dunque, in attesa di sapere quale sia stata la mano assassina di Brindisi, semmai accadrà, non resta che constatare che il cappio della consapevolezza si sta stringendo attorno ai veri responsabili dell’altra morte che, partendo da quel Sud che è ancora una volta colpito al cuore, arriva a un Nord che non deve e non può sentirsi estraneo al fenomeno. Loro che stanno per essere soffocati da una presa di coscienza di un popolo sempre più in grado di capire quanto sta accadendo in una società clinicamente defunta perchè priva da sempre, e oggi ancor di più, di etica e di amore. Completamente consegnata alle volontà dei poteri occulti.

Campania da vendere? Costa troppo e non conviene

Campania da vendere? Costa troppo e non conviene

Klaus Davi insegue le idiozie di Borghezio e Radio Marte lo bacchetta

L’onnipresenza dei leghisti in tv, in radio e sui giornali nonché il “supporto” dei media troppo costante e accondiscendente è ormai stato ben denunciato e reso evidente. Tutto funzionale all’obiettivo di distrarre l’opinione pubblica dai reali problemi del paese e dalle ruberie della Lega stessa. L’ultima boutade (per chi l’ascolta, non per chi l’ha detta) è concertata dalla coppia Mario Borghezio – Klaus Davi, quest’ultimo a porgere l’assist per il leghista che vorrebbe vendere la Campania e la Sicilia, ma guarda caso non la Calabria, a qualche oligarca straniero. È accaduto a “KlausCondicio“, il salotto virtuale su Youtube di Klaus Davi e basta ascoltare l’introduzione dell’intervista per capire che il giornalista ha fornito un’imbeccata studiata a tavolino: «secondo alcuni l’unico modo possibile per combattere la mafia è vendere la Sicilia ad un oligarca russo, lei cosa ne pensa?». Dei fantomatici “alcuni” non c’è traccia e la fonte non è reperibile.
A “La Radiazza” su Radio Marte il tema è stato affrontato scherzosamente, ma non troppo, con Gianni Simioli che, supportato da Francesco Borrelli, ha contattato proprio Klaus Davi per esprimergli il disappunto per tanta complicità e disponibilità a dar voce a chi per missione infanga Napoli e l’intero Sud. A chiudere la trasmissione, Angelo Forgione che ha condensato il valore della Campania facendone una sarcastica stima relativa.