“The Economist” descrive il fallimento dell’Italia unita

“a Napoli prima grande monarchia e poi cricca politica”

Angelo Forgione – L’importante testata londinese The Economist ha pubblicato recentemente, sia su carta che on-line, un reportage firmato da John Prideaux e titolato “Oh for a new Risorgimento”, sulla situazione politico-economica d’Italia, mettendo in evidenza molti problemi della società italiana nell’anno delle celebrazioni del 150° anniversario di unità e certificando dal punto di vista estero il fallimento della nostra Nazione. Si analizza l’anomalia di un Paese in cui il Primo Ministro governa in coalizione con i secessionisti della Lega Nord “che accusano Garibaldi di non aver unito l’Italia ma di aver diviso l’Africa”. Anche la celebrazione a Sud può apparire desolante perchè – si legge – “nel 18° secolo Napoli era la terza città più importante in Europa dopo Londra e Parigi. Prima di essere accorpata all’Italia unita, era la città Capitale di una grande monarchia (gli inglesi lo sanno meglio degli italiani, e del resto “The Economist” nasce nel 1843, in piena crescita delle Due Sicilie, ndr) mentre ora è governata da una cricca di politici inetti. In questi giorni la città è famosa per i suoi cumuli maleodoranti di rifiuti non raccolti, come allora lo era per la baia e il vulcano che prima e dopo meravigliarono Goethe e i visitatori del Grand Tour”. Si fa poi riferimento al fenomeno editoriale italiano, il bestseller Terroni di Pino Aprile che fa luce sulle ombre delle truppe del Nord che presumibilmente “liberarono dalla dittatura” il Sud nel 1860, dove per dittatura si intende la stessa monarchia definita “grande” in precedenza.
Il reportage sottolinea che, a differenza di altri paesi che rivedono la loro storia senza però mettere in discussione l’Unità, in Italia è diverso e si avverte che le regioni che compongono il paese sono troppo diverse per essere fuse in una singola nazione, e che, di conseguenza, l’Italia come Stato ha radici poco profonde. Secondo questa linea di pensiero, la mancanza del consenso al progetto nazionale avrebbe portato alla debolezza delle istituzioni e del governo.
L’analisi del divario Nord-Sud sfocia nella constatazione che il Meridione è di fatto la più grande e popolosa area sottosviluppata nella “Euro-zone”. Prideaux sottolinea che “il rapporto intende sostenere che le cause dell’attuale malessere dell’Italia e il divario Nord-Sud risalgono a un’epoca più recente e non a 150 anni fa”, così come del resto ampiamente evidenziato da recenti studi del CNR (Malanima e Daniele), della BANCA D’ITALIA (Fenoaltea e Ciccarelli), dallo SVIMEZ e dell’ISTAT, oltre che dal Financial Times ultimamente.
”Tra il 2000 e il 2010 la crescita media dell’Italia, misurata in pil a prezzi costanti è stata pari ad appena lo 0,25% su base annua. Di tutti i Paesi del mondo, solo Haiti e Zimbabwe hanno fatto peggio”.
La chiusura del dossier è una condanna: “L’Italia è diventata un luogo che è a disagio nel nuovo mondo, timoroso della globalizzazione e dell’immigrazione. Ha adottato una serie di politiche che discriminano fortemente i giovani a favore degli anziani. A tutto ciò si aggiunge un’avversione per la meritocrazia che ha finito col far emigrare un gran numero di giovani talenti italiani all’estero. Inoltre, l’Italia non è riuscita a rinnovare le sue istituzioni ed è per questo che soffre di continui conflitti di interesse debilitanti nella magistratura, la politica, i media e business. Questi sono problemi che riguardano la nazione nel suo complesso, non una provincia o l’altra. A tutto ciò non ha giovato l’irrompere di Berlusconi al Governo. È giunto il momento per l’Italia di smettere di incolpare i morti per le sue difficoltà, di svegliarsi e prendersi un sorso di quel delizioso caffè che sa fare”.
Insomma, anche per il The Economist l’Italia è da rifare… per un nuovo Risorgimento. Non c’è dubbio, e sicuramente non potrebbe essere peggiore di quello precedente, che ad una grande monarchia del Sud ha sostituito una cricca di politici inetti. Di luci ormai l’Italia ne ha ben poche e c’è poco da salvare, peggio di così c’è solo da scavare il fondo. E lo diciamo senza alcuna esterofilia, anche perchè proprio da Londra è partito tutto questo sfascio.

Radio 24 insiste con Napoli

Radio 24 insiste con Napoli
continua il tiro al bersaglio nel palinsesto della radio

Da giorni il palinsesto di Radio 24 è riempito di Napoli, ma in senso negativo, non certo del suo immenso patrimonio culturale. Mentre Giannino continua a dire che è colpa di chi si offende se si offende per la sua invocazione del Vesuvio come soluzione estrema per “riformare” i Napoletani e a prendersela con “La Repubblica” con la quale evidentemente ha un conto personale aperto, la premiata ditta Cruciani&Parenzo prima intavola la puntata de “La Zanzara” del 1 Luglio dal titolo “Ci penserà il Vesuvio?” e poi, nella puntata del 4 Luglio va in conflitto con un radioscoltatore che viene invitato a bruciapelo da Parenzo ad andare a raccogliere l’immondizia di Napoli perchè discorde con le sue idee sul Ministro Alfano, per poi essere “liquidato” bruscamente da Cruciani. E dire che la telefonata era iniziata con grande cordialità.

CLICCA QUI E ASCOLTA LA TELEFONATA

per proteste:
Radio 24: lettere@radio24.it – lazanzara@radio24.it – giuseppe.cruciani@radio24.it
Ordine dei giornalisti: odg@odg.it – cnog@pec.cnog.it
Autorità garanzie comunicazioni: agcom@cert.agcom.it 

Cruciani, dalla mistificazione allo sberleffo

Cruciani, dalla mistificazione allo sberleffo
dopo le proteste, niente scuse e confronto
ma solo stupide risate

Ecco di nuovo il duo Cruciani-Parenzo irridere la grande storia del Sud. Dopo le proteste e la richiesta di un confronto civile in diretta radiofonica, alla trasmissione “la zanzara” si torna a ridere stupidamente invece di fare un bagno di umiltà e porgere scuse doverose.
Ancora strumentalizzazioni e paragoni inappropriati al fine di ignorare da una parte il meridionalismo e il revisionismo storico, e di screditare dall’altra chi rivaluta in qualche modo l’operato della dinastia borbonica di Napoli.
Complimenti ai due “giornalisti” per la fuga dal dibattito. 

guarda l’antefatto

video: Cruciani e le coltellate alla grande storia del Sud

video: Cruciani e le coltellate alla grande storia del Sud
la mistificazione degli sprovveduti

Vergognoso e deplorevole atteggiamento di Giuseppe Cruciani (già noto per alcuni commenti velenosi sul Napoli a “Controcampo”) e David Parenzo durante la trasmissione radiofonica “La Zanzara” di Radio24. Un radioascoltatore salentino interviene in diretta dichiarandosi “neoborbonico” e revisionista per poi snocciolare scomode verità storiche. I due conduttori lo incalzano e lo trattano come un pazzo per l’uso della parola “borbonico” fatto senza alcuna sudditanza, per poi “imbavagliarlo” con scherno e irrisione dietro alle quali si nasconde l’ignoranza di due disinformati che zittiscono l’unico informato della discussione.
Ancora una dimostrazione di come il “regime di pensiero italiano” imponga la ghettizzazione di chiunque rivaluti a ragion veduta la grande storia del Sud che gli intellettuali di ogni parte del mondo conoscono, e di come si voglia a tutti i costi sopprimere la voglia di restituire alla parola borbonico un significato più fedele alle fama che la dinastia napoletana seppe dare a Napoli e al Sud preunitario.

Mentre Napoli soffoca sotto i rifiuti, che sono rifiuti della lega a cooperare, l’attacco alla città è anche storico ed è in atto non solo nelle stanze della politica ma anche negli studi televisivi e radiofonici.

È possibile protestare scrivendo a:
giuseppe.cruciani@radio24.it 
 lazanzara@radio24.it

Di seguito, il botta e risposta di V.A.N.T.O. con Cruciani

Caro Cruciani,
la sua ignoranza nei confronti della storia del Sud è sesquipedale. Lei è il suo collega Parenzo non solo non vi ponete dubbi nella vita ma avete così tante certezze sbagliate da andare incontro a brutte figure come quella col ragazzo salentino che è intervenuto in trasmissione sulla storia del meridione borbonico.
I migliori uomini di cultura, e oltre a quelli citati nel video ne potrei snocciolare tantissimi anche stranieri, rispettano le verità storiche mentre personaggi come voi finiscono col fare danni alla cultura che neanche immaginate. O forse si, perchè il sospetto che lo facciate di proposito è molto più che semplice sospetto.
Si guardino questo video e poi chiedano scusa al ragazzo salentino e a tutti i meridionali, sia quelli che sanno che quelli che non sanno.
Nella vita bisogna diffidare da quelli che hanno certezze, non da chi ha dubbi. Le persone di cultura sono anche umili, sanno ammettere i propri errori.

Risposta di Cruciani (in copia generica a tutti)

Abbiamo semplicemente detto che rimpiangere il Regno delle Due Sicilie è ridicolo. Nessuno ha mai voluti denigrare quella storia. Il resto sono chiacchiere. Grazie.

Controreplica di V.A.N.T.O.

Non giochiamo con le parole. Così peggiorate l’immagine di voi.
Non avete detto che è stupido rimpiangere. Le testuali parole evidenziate nel video sono:
“Ma quale passato glorioso, non diciamo stupidaggini. Il Regno delle Due Sicilie un passato glorioso? Ma stiamo dicendo sul serio o dobbiamo chiamare quattro ambulanze?!”
E poi… “Mo, adesso… il Regno delle Due Sicilie… i Borbone… era un periodo rispetto ad adesso e all’unità d’Italia migliore”.
E ancora Parenzo: “Il Regno delle Sicilie più industrializzato? Ma si rende conto?”
Per poi irridere chi ne sapeva più di voi con la sirena dell’ambulanza per dipingerlo come un matto da legare, e così zittirlo. Bel modo di fare informazione e cultura!
Non ci prendano in giro con simili risposte e attenuanti. Se proprio Loro non sono così umili da fare pubblica ammenda, almeno la smettano di infangare la nostra Napoletanità e meridionalità.
È ora che la smettiate tutti Voi di infangare Napoli e la sua grande storia basandovi su un presente che è risultante del nostro subire in silenzio, sia in casa nostra che fuori… un presente in cui gli unici fessi siamo noi che abbiamo assorbito per 150 anni.
E glielo dice uno che crede ancora nel valore dell’unità d’Italia. Ma che sia fatta davvero, perchè da un secolo e mezzo non se ne vede l’ombra.
Continuate a festeggiarvela mentre noi soffriamo nei rifiuti e vediamo la più bella città del mondo stuprata da politica e camorra che, insieme, le rubano l’anima.
Se non riuscite ad avere rispetto per la nostra storia che invidiate, almeno abbiate rispetto per la nostra sofferenza.

Muti: «Riscoperti i Napoletani per omaggiare Mozart»

Muti: «Riscoperti i Napoletani per omaggiare Mozart»
«l’Europa rispetta Napoli, l’Italia se ne dimentica»

di Angelo Forgione

Pubblico in delirio e quindici minuti di standing ovation lo scorso fine settimana alla “Haus fur Mozart” di Salisburgo, città natale di Mozart, per Riccardo Muti a conclusione del suo progetto dedicato al “Settecento napoletano” nell’ambito del “Festival di Pentecoste” ruotato intorno a Napoli e alla cultura musicale espressa dalla città regina d’Europa per più di un secolo. In Austria, Muti ha trionfato negli ultimi cinque anni riportando alla luce i capolavori sconosciuti della grande scuola napoletana e della cultura partenopea “nascosti” presso il convento dei Girolamini e il conservatorio di San Pietro a Majella.

«Troppo spesso – ha detto Muti – Napoli fa parlare più per le sue disgrazie che per le sue qualità». A nome dei napoletani, il maestro ha ringraziato Salisburgo e il Festival di Pentecoste per l’occasione offertagli. «Per cinque meravigliosi anni, insieme alla Lange & Sohne, hanno prodotto opere e concerti facendo sì che si avverasse un sogno: far conoscere al mondo autori della scuola napoletana come Cimarosa, Paisiello, Traetta, Jommelli, Porpora, Mercadante, Hasse, senza i quali il genio di Mozart non sarebbe stato lo stesso. Avrebbe dovuto farlo l’Italia, ma non l’ha fatto. Tutto questo in una città come Napoli dovrebbe essere la normalità. Ovunque la città parla di questi capolavori, ci sono le chiese dove tanta musica sacra è nata, ci sono oggi le biblioteche musicali, al Conservatorio di San Pietro a Majella e ai Girolamini. E poi il San Carlo, il più bel teatro del mondo oltre che il più antico, così glorioso, il teatro dove è nato il fondamento dell’opera di Mozart. Luoghi che il mondo ci invidia e che noi, presi da problemi certo urgenti di vivibilità e sopravvivenza civile, spesso dimentichiamo».

Lo scorso anno, per sottolineare volutamente il debito che il giovane Mozart ha verso la scuola napoletana, accanto al napoletano Jommelli Muti pose proprio il salisburghese Mozart. «Sarebbe stato ugualmente il Genio che la Natura ha creato – dice il Maestro – ma diverso senza il contatto con la scuola napoletana. L’aver contrapposto la Betulia liberata di Mozart a quella di Jommelli indicò non solo le diversità ma soprattutto i punti di contatto. Il sovrintendente Flimm, dopo aver sentito “Il ritorno di Calandrino” di Cimarosa, mi disse: “Adesso capisco che Mozart non è piovuto dal cielo”».

Il patrimonio musicale del Settecento napoletano è stato dimenticato colpevolmente perché poi offuscato dal melodramma ottocentesco dell’opera risorgimentale di Giuseppe Verdi. 
«Il trionfo dell’opera popolare verdiana ha eliminato le radici napoletane dell’opera, fondamentali per la musica non solo italiana ma europea. La dimensione delle arie di Jommelli e l’uso del coro sono elementi illuminanti di un ingegno musicale che, pur non possedendo la genialità di Mozart, ebbe un influsso determinante nella musica del suo tempo».

Due parole Muti le spende per il conservatorio di San Pietro a Majella: «Il Conservatorio di Napoli –  spiega il Maestro – è uno degli istituti di formazione musicale più antichi del mondo. Il primo direttore fu Giovanni Paisiello (anche autore dell’inno nazionale delle Due Sicilie) che riunì in un unico istituto, a Napoli, quattro collegi di grande importanza per l’intera Europa. In questi collegi operavano insegnanti, studenti e cantanti di altissimo livello, basti pensare a Farinelli, nonché importanti compositori tra qui Porpora, Jommelli, Leo, Piccinni, Traetta, Scarlatti e Pergolesi. La Scuola Napoletana fu una vera sorgente musicale per tutta l’Europa».

Da Napoletano fiero della sua storia, Muti ha inquadrato il progetto nel contesto storico spesso dimenticato. «La cultura musicale Napoletana si inserisce nel quadro del rapporto tra Napoli e Vienna, tra Regno delle Due Sicilie e impero austriaco che era connotato da rapporti culturali di primaria importanza non solo attraverso la musica. L’Austria si è proposta, e questo parla da se, dimostrandosi più rispettosa del suo e del nostro passato, della sua e della nostra cultura, di quanto non faccia l’Italia che è sempre troppo lenta a rispondere alle proprie esigenze culturali. Oggi come allora, gli austriaci si sono dimostrati molto aperti e rispettosi della cultura Napoletana».

Muti, che auspica un interessamento del nuovo sindaco di Napoli per far rivivere quello scrigno di tesori che è la città partenopea, a conclusione della sua avventura austriaca ha ricevuto un messaggio da Luigi De Magistris che si è dichiarato al suo fianco per far rinascere la cultura napoletana.

Salisburgo, in visibilio, ha ricambiato la riconoscenza del Maestro urlando “Grazie Muti”. Che presto lo faccia anche Napoli e l’Italia intera.

De Laurentiis fa tremare la storiografia ufficiale

De Laurentiis fa tremare la storiografia ufficiale
cassa di risonanza troppo potente,
gli storiografi “tricolorati” preoccupati

Le nuove esternazioni revisioniste di De Laurentiis (clicca per leggere) hanno colpito in pieno gli storiografi dei vincitori risorgimentali. Oh no… ora ci si mette pure il “mediatico” presidente del Napoli a scoperchiare le verità sepolte? Tsunami da arginare prima che raggiunga le coste!
Giuseppe Galasso, in compagnia di Ernesto Galli della Loggia, Piero Craveri, Luigi Compagna e Diana De Feo alla presentazione di un libro su Cavour, ha avanzato la proposta di regalarne una copia al patron del Napoli.

Il senatore Compagna invece appare più preoccupato: «De Laurentiis ha tutto il diritto di intervenire sulla storiografia, però forse i napoletani gli chiedono un interessamento ai problemi del Napoli e non alla storiografia».
Noi invece, senza alcuna intenzione di strumentalizzare le frasi di De Laurentiis che sappiamo essere convinte e non casuali, non solo ci felicitiamo del suo interessamento per le verità storiche sotterrate ma chiediamo al senatore Compagna perchè mai “speri” che i napoletani chiedano al presidente del Napoli di pensare al Napoli piuttosto che alla storia d’Italia? C’è forse qualcosa da temere? Rispondiamo noi: «si».
Anche il patron della casa editrice Laterza di Bari ha ribattuto alle frasi di De Laurentiis invitando Napoli a smetterla di sognare di diventare Capitale di un regno che non c’è più, con una serie di affermazioni storiche aberranti e lontane dalle reali ideologie di un popolo che comincia a conoscere la verità e a pretendere che sia affermata a scapito delle falsità. Dalle reazioni a catena di queste ore appare evidente che la coscienza dei Napoletani fa paura, allora come oggi. Tirare fuori la solita accusa di nostalgia è una tecnica ormai stantia che non regge più, un argine troppo fragile.
Per la pletora dei difensori dei “ladri della patria”, De Laurentiis rappresenta una cassa di risonanza troppo potente e pericolosa, capace di raccogliere quello stesso messaggio da noi da tempo sdoganato ai più giovani anche attraverso la passione calcistica e diffonderlo a milioni di persone.
Il presidente si occupa invece fin troppo bene dei problemi della sua squadra e non sembra affatto distratto da altre vicende inutili. Appare invece meritevolmente attento alle questioni che riguardano la città e la sua storia, alla napoletanità a più ampio raggio, e ciò sembra più che giusto affinchè capisca in che contesto si inserisce la squadra di calcio che è motivo di orgoglio e passione per una città intera dal 1926 a oggi, quando nacque con dei simboli e colori che onoravano proprio quella storia.
La verità è che De Laurentiis è un anticonformista per eccellenza, scevro da quei complessi di inferiorità che ebbe invece Ferlaino quando negli anni ’70 rispolverò i gigli borbonici sulle maglie azzurre e lo stemma delle Due Sicilie sugli abbonamenti per poi abbandonare la strada “impervia” non essendo ancora il momento di percorrerla, assecondando poi la passione della moglie Patrizia Boldoni per Napoleone al quale dedicò la N del simbolo d’epoca Maradoniana a oggi.
La revisione storica sta avanzando inesorabilmente, asfaltando i dogmi degli irriducibili che, restando rigidi e immobili su posizioni sempre più deboli, rischiano di essere schiacciati.
Galasso regali pure il libro di un uomo come Cavour che non mise mai piede a Napoli e al sud, denigrandolo senza conoscerlo; noi ci pregeremo di omaggiare il presidente del nostro saggio “Malaunità” che pure di Cavour e del suo progetto di piemontesizzazione si occupa. E non solo di Cavour

Pino Daniele: «Io non sono figlio di Napoli»

Pino Daniele: «Non sono figlio di Napoli»
il cantautore: «mi sento un garibaldino del Sud»

È un’intervista dai toni polemici e antistorici quella rilasciata da Pino Daniele a Pasquale Elia del Corriere del Mezzogiorno del 3 giugno 2011.
«Io non sono figlio di Napoli… io mi sento figlio del Sud. Sono un garibaldino. Da quando ho l’età della ragione ad oggi non è cambiato niente, anzi la situazione è peggiorata. Ma non voglio pensare che non ci sia più la speranza. Una speranza che purtroppo si riaccende soltanto quando salta fuori qualcuno: una volta è spuntato Maradona, una volta Troisi, una volta Pino Daniele… Purtroppo è un popolo che ha bisogno sempre di un re. O di un Masaniello».

Verità nascoste del Risorgimento ad “Agorà” su Rai Tre

Verità nascoste del Risorgimento ad “Agorà” su Rai Tre
mentre la Regina Elisabetta rende omaggio ai martiri irlandesi, in Italia la memoria dei martiri meridionali è definito “folclore”

Diciamolo subito, il video è montato in maniera da far passare più chiaro il messaggio revisionista e meridionalista, ma molte cose ci sarebbero da dire che però non sono distanti dalla solita disamina di tutte le trasmissioni che da sempre invocano l’intervento dei revisionisti per poi rivestirlo di una patina folcloristica.
Basta limitarsi ad evidenziare che:
a) Eddy Napoli ha portato avanti un articolato e completo discorso sociologico davanti le telecamere che non si evince nel servizio, ed un artista del suo calibro non può essere “trasformato” in un semplice nostalgico.

b) Angelo Forgione, che ha una nomina importante nel PdDS, viene inquadrato senza che sia montata alcuna sua dichiarazione, evidentemente non funzionali al taglio “nostalgico-folcloristico” voluto dalla redazione del programma.
c) Alla fine servizio il conduttore Andrea Vianello chiede a Pino Aprile se si tratti di folclore o di sentimento profondo, sorridendo. Non è tollerabile che un “non informato” in materia possa, con un sorriso beffardo, definire “folclore” il sentimento di persone che rivendicano la memoria di circa un milione di morti. Quando Pino Aprile menziona con vigore  tali morti, lo stesso Vianello dice con la stessa risata irriverente “ma ha senso ricacciare fuori questo dopo tutto questo tempo”?
La Regina Elisabetta ha in questi giorni reso omaggio ai martiri per l’indipendenza irlandese. In Italia i martiri per la “resistenza” meridionale dall’invasione piemontese del decennio 1861-1871 non vengono ricordati da nessuno, e qualcuno si chiede ridendo se abbia senso ritirarli fuori.


Documentario: FENESTRELLE, LAGER DEI SAVOIA

Documentario: FENESTRELLE, LAGER DEI SAVOIA
come venivano uccisi i prigionieri napoletani (e Napoli)

È online il documentario RAI sulla fortezza di Fenestrelle, misteriosamente danneggiato il 20 Marzo dall’anticipo della messa in onda rispetto all’orario programmato e dall’oscuramento della stessa trasmissione sul territorio nazionale nei venti minuti finali che ha scatenato la protesta dei meridionali all’indirizzo della redazione della TV di Stato.
Si tratta di una delle pochissime testimonianze di una corretta lettura di certi avvenimenti “censurati” dalla propaganda risorgimentale che ha nascosto il luogo dove comincia e finisce la storia di migliaia di italiani prigionieri di altri italiani, deportati in veri e propri campi di concentramento. La storia dei prigionieri di guerra del Regno delle due Sicilie fatti morire di freddo e fame dai piemontesi. Ma anche la storia della distruzione del tessuto sociale, economico e industriale del meridione pre-unitario.

parte 1

parte 2

La vera storia della spedizione dei mille

Come e perché l’Inghilterra decise la fine delle Due Sicilie

Angelo Forgione – La storica spedizione garibaldina, per la storiografia ufficiale, ha il sapore di un’avventura epica, quasi cinematografica, compiuta da soli mille uomini che salpano all’improvviso da nord e sbarcano a sud, combattono valorosamente e vincono più volte contro un esercito ben più numeroso, per poi risalire la Penisola fino a a Napoli, capitale di un regno liberato da una tirannide oppressiva, e poi più su, per dare agli italiani la nazione unita.

Troppo hollywoodiano per essere vero. La spedizione non fu per niente improvvisa e spontanea ma ben architettata, studiata a tavolino nei minimi dettagli e pianificata dalle massonerie internazionali, quella britannica in testa, che sorressero il tutto con intrighi politici, contributi militari e cospicui finanziamenti con i quali furono comprati diversi uomini chiave dell’esercito borbonico al fine di spianare la strada a Garibaldi, che agli inglesi, in seguito, non mancò mai di dichiarare la sua gratitudine e amicizia.

I giornali dell’epoca, ma soprattutto gli archivi di Londra, Vienna, Roma, Torino, Milano e, naturalmente, Napoli forniscono documentazione utile a ricostruire il vero scenario di congiura internazionale che spazzò via il Regno delle Due Sicilie, non certo per mano di mille prodi alla ventura animati da un ideale unitario.

Il Regno britannico, con la sua politica imperiale espansionistica che tanti danni ha fatto nel mondo e di cui ancora oggi se ne pagano le conseguenze (vedi conflitto israelo-palestinese), ebbe più di una ragione per promuovere la fine di quello napoletano e liberarsi di un soggetto politico divenuto scomodo.

Furono gli idilliaci rapporti tra Ferdinando di Borbone e papa Pio IX a generare l’astio di Londra. La massoneria inglese aveva come priorità politica la cancellazione delle monarchie cattoliche, e la cattolicissima Napoli era ormai invisa a chi, a Londra e dintorni, mirava alla cancellazione del potere papale. I Borbone costituivano principale ostacolo a tale obiettivo, che coincideva con quello dei Savoia e dei liberali massoni d’Italia. Massoni erano i politici britannici Lord Palmerston, primo ministro britannico, e Lord Gladstone, gran denigratore dei Borbone. E massoni erano pure Vittorio Emanuele II, Garibaldi e Camilla Benso di Cavour.

In questo conflittuale scenario di potentati, la nazione napolitana percorreva un suo percorso dettato della politica di Ferdinando II, che condusse una politica di sviluppo autonomo finalizzata a spezzare le catene delle dipendenze straniere.

La flotta navale delle Due Sicilie costituiva inoltre un fastidio per la grande potenza navale inglese anche e soprattutto in funzione dell’apertura dei traffici con l’Oriente nel Canale di Suez, i cui scavi cominciarono proprio nel 1859, alla vigilia dell’avventura garibaldina.

L’integrazione del sistema marittimo con quello ferroviario, con la costruzione delle ferrovie nel meridione con cui le merci potessero viaggiare anche su ferro, insieme alla posizione d’assoluto vantaggio del Regno delle Due Sicilie nel Mediterraneo rispetto alla più lontana Gran Bretagna, fu motivo di timore per Londra che già non aveva tollerato gli accordi commerciali tra le Due Sicilie e l’Impero Russo grazie ai quali la flotta dello Zar aveva navigato serenamente nel Mediterraneo, avendo come basi d’appoggio proprio i porti delle Due Sicilie.

Proprio il controllo del Mediterraneo era una priorità per la “Perfida Albione” che si era impossessata di Gibilterra e poi di Malta, e mirava ad avere il controllo della stessa Sicilia quale punto più strategico per gli accadimenti nel Mediterraneo e in Oriente. L’isola costituiva la sicurezza per l’indipendenza napolitana e in mano agli stranieri ne avrebbe decretata certamente la fine, come fece notare Giovanni Aceto nel suo scritto De la Sicilie et de ses rapports avec l’Angleterre.

La presenza inglese in Sicilia era già ingombrante e imponeva coi cannoni a Napoli il remunerativo monopolio dello zolfo di cui l’isola era ricca per i quattro quinti della produzione mondiale; con lo zolfo, all’epoca, si produceva di tutto ed era una sorta di petrolio per quel mondo. E come per il petrolio oggi nei paesi mediorientali, così allora la Sicilia destava il grande interesse dei governi imperialisti.

I Borbone, in questo scenario, ebbero la colpa di considerarsi insovvertibili in Italia e di non capire che il pericolo non era da individuare nella Penisola ma più in là. Il Regno di Napoli e quello d’Inghilterra erano infatti alleati solo mezzo secolo prima, ma in condizione di sfruttamento a favore del secondo per via dei considerevoli vantaggi commerciali che ne traeva in territorio duosiciliano. Fu l’opera di affrancamento e di progressiva riduzione di tali vantaggi da parte di Ferdinando II a rompere l’equilibrio e a suscitare le cospirazioni della Gran Bretagna, che riteneva Napoli obbligata a servire Londra per gli aiuti contro i francesi del 1799 e del 1815 e perciò si rivelò un vero e proprio cavallo di Troia. Per questo fu più conveniente per gli inglesi “convertire” l’ormai inimicizia dello stato borbonico con l’aiuto a un nuovo stato alleato.

Questi furono i motivi principali che portarono l’Inghilterra a stravolgere gli equilibri della penisola italiana, propagandando idee sul nazionalismo dei popoli e denigrando i governi di Russia, Due Sicilie e Austria. La mente britannica armò il braccio piemontese per il quale il problema urgente era quello di evitare la bancarotta di raccogliendo l’opportunità offertagli di invadere le Due Sicilie e portarne a casa il tesoro.

Un titolo sul Times dell’epoca, pubblicato già prima della morte di Ferdinando II, fu foriero di ciò che stava per accadere e spiegava l’interesse imperialistico inglese nelle vicende italiane. “Austria e Francia hanno un piede in Italia, e l’Inghilterra vuole entrarvi essa pure”.

Lo sbarco a Marsala e l’invasione del Regno delle Due Sicilie sono a tutti gli effetti un gravissimo atto di pirateria internazionale, compiuto ignorando tutte le norme di Diritto Internazionale, prima fra tutte quella che garantisce il diritto all’autodeterminazione dei popoli. Il fatto che nessuna nazione straniera abbia mosso un dito mentre avveniva e si sviluppava la dice lunga su quale sia stata la predeterminazione di un atto così grave e sulle volontà della potente Inghilterra.

Garibaldi fu un burattino in mano a Vittorio Emanuele II Cavour, l’unico che avrebbe potuto compiere l’invasione senza dichiarazione, non essendo né un sovrano né un politico. E venne manovrato a dovere dal conte piemontese, dal Re di Sardegna e anche dai cospiratori inglesi, fin quando non giunse il momento di costringerlo a farsi da parte.

Di soldi, nel 1860, ne circolarono davvero parecchi per l’operazione. Qualcuno parla di circa tre milioni di franchi francesi solo in Inghilterra, denaro investito per comprare il tradimento di chi serviva allo scopo, ma anche armi, munizioni e navi. A Londra nacque il “Garibaldi Italian Fund Committee”, un fondo utile ad ingaggiare i mercenari che dovevano formare la “Legione Britannica”, uomini feroci che poi aiutarono il Generale italiano.

Garibaldi divenne un eroe in terra d’Albione, e la sua popolarità arrivò alle stelle. Nacquero i “Garibaldi’s gadgets”: ritratti, composizioni musicali, spille, profumi, cioccolatini, caramelle e biscotti, tutto utile a reperire fondi utili all’impresa in Italia.

In realtà, alla vigilia della spedizione dei mille, tutti sapevano cosa stesse per accadere, tranne la Corte e il Governo di Napoli, ai quali “stranamente” non giunsero mai quei telegrammi e quelle segnalazioni che venivano inviate dalle ambasciate internazionali. In Sicilia invece, ogni unità navale riceveva le coordinate di posizionamento nelle acque duosiciliane.

La traversata partì da Quarto il 5 Maggio 1860 a bordo della “Lombardo” e della “Piemonte”, due navi ufficialmente rubate alla società Rubattino ma in realtà fornite favorevolmente dall’interessato armatore genovese, amico di Cavour. Garibaldi non sapeva neanche quanta gente aveva a bordo, non era una priorità far numero; se ne contarono 1.089 e il Generale restò stupito per il numero oltre le sue stime. Erano persone in buona parte col pedigree dei malavitosi e ne feve una raccapricciante descrizione lo stesso Garibaldi. Provenivano da Milano, Brescia, Pavia, Venezia e più corposamente da Bergamo, perciò poi detta “Città dei Mille”. Vi erano anche alcuni napoletani, calabresi e siciliani, 89 per la precisione, molto dei quali immortalati nella toponomastica delle città italiane.

La rotta non fu casuale ma già stabilita, come il luogo dello sbarco. Marsala non era la terra scorta all’orizzonte ma il luogo designato perché li vi era una vastissima comunità inglese coinvolta in grandi affari, tra cui la viticoltura.

La rotta non fu casuale ma già stabilita, come il luogo dello sbarco. Marsala non era la terra scorta all’orizzonte ma il luogo designato perché li vi era una vastissima comunità inglese coinvolta in grandi affari, tra cui la viticoltura.

Il 10 Maggio, alla vigilia dello sbarco, l’ammiragliato inglese a Londra diede l’ordine ai piroscafi bellici “Argus” e “Intrepid”, ancorati a Palermo, di portarsi a Marsala; ufficialmente per proteggere i sudditi inglesi ma in realtà con altri scopi. Ci arrivarono infatti all’alba del giorno dopo e gettarono l’ancora fuori la città col preciso compito di favorire l’entrata in rada delle navi piemontesi. Navi che arrivarono alle 14 in punto, in pieno giorno, e questo dimostra quanta sicurezza avessero i rivoltosi che altrimenti avrebbero più verosimilmente scelto di sbarcare di notte.

L’approdo avvenne proprio dirimpetto al Consolato inglese e alle fabbriche inglesi di vini “Ingham” e “Whoodhouse” con le spalle coperte dai piroscafi britannici che, con l’alibi della protezione delle fabbriche, ostacolarono i colpi di granate dell’incrociatore napoletano “Stromboli”, giunto sul posto insieme al piroscafo “Capri” e la fregata a vela “Partenope”.

Le trattative che si intavolarono fecero prendere ulteriore tempo ai garibaldini e sortirono l’effetto sperato: I “Mille” sbarcarono sul molo. Ma erano in 776 perché i veri repubblicani, dopo aver saputo che si era andati a liberare la Sicilia in nome di Vittorio Emanuele II, si erano fatti sbarcare a Talamone, in terra toscana. Contemporaneamente sbarcarono dall’Intrepid dei marinai inglesi anch’essi di rosso vestiti che si mischiarono alle “camicie rosse”, in modo da impedire ai napoletani di sparare.

Napoli inviò proteste ufficiali a Londra per la condotta dei due bastimenti inglesi ma a poco servì. Garibaldi e i suoi sbarcarono nell’indifferenza dei marsalesi e la prima cosa che fecero fu saccheggiare tutto ciò che fosse possibile.
Il 13 Maggio Garibaldi occupò Salemi, stavolta nell’entusiasmo perché il barone Sant’Anna, un uomo potente del posto, si unì a lui con una banda di “picciotti”. Da qui il Generale si proclamò “dittatore delle Due Sicilie” nel nome di Vittorio Emanuele II, Re d’Italia”.

Il 15 Maggio fu il giorno della storica battaglia di Calatafimi. I Mille erano ormai il doppio; vi si erano uniti “picciotti” siciliani, inglesi e marmaglie insorte, e sfidarono i soldati borbonici al comando del Generale Landi. La storiografia ufficiale racconta di questo conflitto come di un miracolo dei garibaldini ma in realtà si trattò del risultato pilotato dallo stesso Generale borbonico.

I primi a far fuoco furono i “picciotti”, che vennero decimati dai fucili dei soldati Napoletani. Il Comandante borbonico Sforza, con i suoi circa 600 uomini, assaltò i garibaldini rischiando la sua stessa vita e, mentre il Generale Nino Bixio chiedeva a Garibaldi di ordinare la ritirata, il Generale Landi, che già aveva rifiutato rinforzi e munizioni a Sforza scongiurando lo sterminio delle “camicie rosse”, fece suonare le trombe in segno di ritirata. Garibaldi capì che era il momento di colpire i borbonici in fuga e alle spalle, compiendo così il “miracolo” di Calatafimi. Una battaglia che avrebbe potuto chiudere sul nascere l’avanzata garibaldina se non fosse stato per la condotta di Landi, che fu accusato di tradimento dallo stesso Re Francesco II e confinato sull’isola d’Ischia; non a torto, perché poi un anno più tardi l’ex generale di brigata dell’esercito borbonico e poi generale di corpo d’armata dell’esercito sabaudo in pensione si presentò al Banco di Napoli per incassare una polizza di 14.000 ducati d’oro datagli dallo stesso Garibaldi ma scoprì che sulla sua copia, palesemente falsificata, erano scritti tre zeri di troppo. Landi, per questa delusione, fu colpito da ictus e morì.

Garibaldi, ringalluzzito per l’insperata vittoria di Calatafimi, s’inoltrò nel cuore della Sicilia mentre le navi inglesi, sempre più numerose, ne controllavano le coste con movimenti frenetici. In realtà la flotta inglese seguiva in parallelo per mare l’avanzata delle camicie rosse su terra per garantire un’uscita di sicurezza.

Intanto sempre gli inglesi fecero arrivare in Sicilia corposi rinforzi, armi e danari per i rivoltosi e preziose informazioni da parte di altri traditori vendutisi all’invasore per fare del Sud una colonia. Le banche di Londra sono piene di depositi di cifre pagate come prezzo per ragguagli sulla dislocazione delle truppe borboniche e di suggerimenti dei generali corruttibili, così come di tante altre importantissime informazioni segrete.

Garibaldi entrò a Palermo e poi arrivò a Milazzo ormai rafforzato da uomini e armi moderne, e l’esito della battaglia che li si combattè, a lui favorevole, fu prevalentemente dovuto all’equipaggiamento individuale dei rivoltosi, che avevano ricevuto in dotazione persino le carabine-revolver americane “Colt” e il fucile rigato inglese modello “Enfield ‘53”.

Quando l’eroe dei due mondi passò sul territorio peninsulare, le navi inglesi continuarono a scortarlo dal mare, e anche quando entrò a Napoli da Re sulla prima ferrovia italiana ebbe le spalle coperte dall’Intrepid – chi si rivede? – che dal 24 Agosto, insieme ad altre navi britanniche, si mosse nelle acque napoletane.

Il 6 Settembre, giorno della partenza di Francesco II e del concomitante arrivo di Garibaldi a Napoli in treno, il legno britannico sostò vicino alla costa, davanti al litorale di Santa Lucia, da dove poteva tenere sotto tiro il Palazzo Reale. Una presenza costante e incombente, sempre minacciosa per i borbonici e rassicurante per Garibaldi, una garanzia per la riuscita dell’impresa dei “più di mille”. l’Intrepid lasciò Napoli il 18 Ottobre 1860 per tornare definitivamente in Inghilterra dando però il cambio ad altre navi inglesi, proprio mentre Garibaldi, “dittatore di Napoli”, donava agli amici inglesi un suolo a piacere che venne designato in via San Pasquale a Chiaia, su cui fu poi eretta quella cappella protestante che Londra aveva sempre voluto costruire per gli inglesi di Napoli ma che i Borbone non avevano mai consentito di realizzare. Lo stesso accadrà a Palermo nel 1872.

Il 6 Settembre, giorno della partenza di Francesco II e del concomitante arrivo di Garibaldi a Napoli in treno, il legno britannico sostò vicino alla costa, davanti al litorale di Santa Lucia, da dove poteva tenere sotto tiro il Palazzo Reale. Una presenza costante e incombente, sempre minacciosa per i borbonici e rassicurante per Garibaldi, una garanzia per la riuscita dell’impresa dei “più di mille”. l’Intrepid lasciò Napoli il 18 Ottobre 1860 per tornare definitivamente in Inghilterra dando però il cambio ad altre navi inglesi, proprio mentre Garibaldi, “dittatore di Napoli”, donava agli amici inglesi un suolo a piacere che venne designato in via San Pasquale a Chiaia, su cui fu poi eretta quella cappella protestante che Londra aveva sempre voluto costruire per gli inglesi di Napoli ma che i Borbone non avevano mai consentito di realizzare. Lo stesso accadrà a Palermo nel 1872.

Qualche mese dopo, la città di Gaeta, che ospitava Francesco II nella strenua difesa del Regno, fu letteralmente rasa al suolo dal Generale piemontese Cialdini, pagando non solo il suo ruolo di ultimo baluardo borbonico ma anche e soprattutto l’essere stato nel 1848 il luogo del rifugio di Papa Pio IX, ospite dei Borbone, in fuga da Roma in seguito alla proclamazione della Repubblica Romana ad opera di Giuseppe Mazzini, periodo in cui la città aveva assunto la denominazione di “Secondo Stato Pontificio”.

Sparì così l’antico regno inaugurato da Ruggero il Normanno e sopravvissuto per quasi otto secoli. Dieci anni dopo, nel Settembre 1870, la breccia di Porta Pia e l’annessione di Roma al Regno d’Italia decretarono la fine anche dello Stato Pontificio e del potere temporale del Papa, portando a compimento il grande progetto delle massonerie internazionali nato almeno quindici anni prima, volto a cancellare la grande potenza economico-industriale del Regno delle Due Sicilie e il potere cattolico dello Stato Pontificio.

Garibaldi, pochi anni dopo la sua impresa, fu ospite a Londra, dove venne accolto come un imperatore. I suoi rapporti con l’Inghilterra continuarono per decenni e si manifestarono nuovamente quando, intorno alla metà del 1870, il Generale si impegnò nell’utopia della realizzazione di un progetto faraonico per stravolgere l’aspetto di Roma: il corso del Tevere entro la città completamente colmato con un’arteria ferroviaria contornata da aree fabbricabili. Da Londra si tessero contatti con società finanziarie per avviare il progetto ed arrivarono nella Capitale gli ingegneri Wilkinson e Fowler per i rilievi e i sondaggi. Si preparò a realizzare la remunerativa follia la società britannica Brunless & McKerrow, che tuttavia non vi riuscì mai per il boicottaggio del Governo italiano.

L’ideologia nazionale da allora venera i “padri della patria” che operarono il piano internazionale, dimenticando tutto quanto di nefasto si raccontasse di Garibaldi, un avventuriero dal passato poco edificante. L’Italia di oggi festeggia un uomo condannato persino a “morte ignominiosa in contumacia” nel 1834 per sentenza del Consiglio di Guerra Divisionale di Genova perché nemico della Patria e dello Stato, motivo per il quale fuggì latitante in Sud America dove diede sfogo a tutta la sua natura selvaggia.

In quanto a Cavour, al Conte interessava esclusivamente ripianare le finanze dello Stato piemontese, non certo l’unità di un paese di cui non conosceva neanche la lingua, così come Vittorio Emanuele II primo Re d’Italia, benché non a caso secondo di nome nel solco di una continuazione della dinastia sabauda e non italiana. Non a caso il 21 Febbraio 1861, nel Senato del Regno riunito a Torino, il nuovo Re d’Italia fu proclamato da Cavour «Victor-Emmanuel II, Roi d’Italie», non Re d’Italia.