Galasso contro il borbonismo, ma gli storici stranieri non lo aiutano

Angelo Forgione – ll prof. Giuseppe Galasso, con un articolo sul Corriere del Mezzogiorno del 12 luglio, è tornato sui temi del revisionismo risorgimentale e sul successo di alcuni libri scritti negli ultimi anni che raccontano di malaunità. «Il paradiso borbonico? È solo un’invenzione nostalgica», dice lo storico napoletano, ma gratuitamente. Certo che non si trattava di eden terrestre, perché il paradiso in terra non esiste e di certo non lo era neanche il Regno delle Due Sicilie. È cosa nota a chi si occupa di certi temi in modo equilibrato, come lo è che tanto il Nord quanto il Sud di quell’Italia fossero entrambi economicamente arretrati rispetto all’avanguardia europea. Sì che qualcuno ha enfatizzato la favola del Regno borbonico in grado di issarsi a terzo paese più industrializzato d’Europa, e non poteva certo esserlo uno Stato che, come tutti quelli preunitari, pur con una sua certa industrializzazione nascente, era certamente sbilanciato verso un’economia prevalentemente agricola. Le campagne meridionali erano impiantate nella povertà come quelle settentrionali, e i disagi dell’entroterra del Sud non erano una specificità. La vera specificità era semmai l’importanza di Napoli, di una città capitale che non c’era altrove. Era l’importanza della gran Capitale di allora a rendere più evidente la differenza tra città e campagna. Ma la rivisitazione dei fatti risorgimentali, quella seria, tende a riequilibrare il divario Nord-Sud, a dimostrare che non esisteva al momento dell’Unità, e che i metodi per conseguirla non furono né ortodossi né finalizzati alla creazione di una nazione omogenea. Lo hanno avvisato altri storici italiani ma preferisco ricordare quello che negli ultimi anni ci hanno detto gli storici stranieri, certamente neutrali rispetto alla vicenda. L’americano Michael Ledeen, ad esempio, per cui i Piemontesi crearono dei campi di concentramentoe “l’unificazione non è stata un fatto positivo per Napoli”. L’inglese David Gilmour, per cui “i napoletani si sarebbero mostrati più leali nei confronti dell’Italia dopo il 1861, se fosse stato consentito loro di mantenere il sistema di regole messo a punto dai Borbone, decisamente superiore a quello dei piemontesi”. E persino John Anthony Davis, altro americano esperto in materia, per il quale “nel 1860 le differenze economiche tra il Nord e il Sud erano di gran lunga inferiori a quelle che ci sarebbero state 40 anni più tardi quando lo stato italiano smantellò le barriere protettive che avevano portato allo sviluppo delle industrie tessili, di ingegneria e di edilizia navale meridionali”.
Davis se l’è presa pure con Benedetto Croce, teorizzatore dell’arretratezza meridionale, e non ha sbagliato il bersaglio. Il filososo abruzzese, infatti, si allineò ai vari storici postunitari cui, subito dopo la creazione dell’Italia unita, fu assegnato l’incarico di creare una storia che appartenesse a tutti, in cui andava rappresentata la grandezza del Paese e di cui il popolo potesse essere orgoglioso. Quella schiera – non ancora esaurita – ebbe licenza di edulcorare, romanzare, cambiare e ribaltare a piacimento le storie e i personaggi con un obiettivo superiore: l’invenzione pilotata di una storia nazionale, che avrebbe dovuto avere una credibilità per infondere una fede nell’Unità, rafforzare la coscienza dell’italiano nuovo e costruire un Paese unito nella memoria dei miti fondanti della Nazione e delle battaglie che avevano condotto all’indipendenza. Fu un fallimento, che stette nella volontà superiore di non integrare le culture locali in quella nazionale unica da consolidare. La vera Italia, quella dei dialetti e delle molteplici culture, fu soffocata, e l’Unione imposta dall’alto interruppe le contaminazioni reciproche delle diversità, fonte di crescita e produzione culturale. Così nacque una Nazione che non apparteneva storicamente a nessuno, e poco è cambiato da allora.
Chi abusa dei record duosiciliani e dei soprusi piemontesi è probabilmente la gente della strada, ed è proprio di questa che Galasso si lamenta quando scrive che “oggi il primo che incontrate per strada vi fa lezioni su primati borbonici o saccheggi sabaudi”. È la spia di un sentimento diffuso che si nutre pur sempre di una narrazione alternativa proposta da storici e seri scrittori, che resta tale, per quanto faccia facilmente presa su un popolo forse incapace di autogovernarsi ma comunque in cerca di riscatto. E per uno storico contemporaneo meridionale che dice che il Sud non fu colonizzato (perché sarebbe anche rilevante una folta rappresentanza politica meridionale nella storia unitaria) ce n’è un altro del passato che nel 1911, in pieno cinquantennio del Regno d’Italia, si chiese già “a che scopo continuare con questa Unità in cui siamo destinati a funzionare da colonia d’America per le industrie del Nord?”. Si trattava di Gaetano Salvemini. E anche in tal senso poco è cambiato da allora, anzi nulla. Il Nord ha iniziato a camminare e il Sud è indietreggiato nelle gerarchie continentali a tal punto da risultare oggi la macroarea più povera d’Europa. È per questo che le pubblicazioni sgradite a Galasso fioccano. Dunque, preoccuparsi dell’antitalianismo borbonizzante appare esercizio di disappunto più dannoso dell’antitalianismo stesso. Così si osserva un malato in coma da una cattedra, senza far nulla, neanche una preghiera, affinché si risvegli.

Nel Sud-Italia gli abitanti più poveri d’Europa. E il divario col Nord si allarga.

Angelo Forgione – Le annuali statistiche Eurostat circa il PIL pro-capite espresso in potere d’acquisto di più di 270 regioni degli stati membri dell’Unione Europea indicano che Calabria, Sicilia, Puglia, Campania, Basilicata e Sardegna sono le più povere d’Italia ma anche tra le ultime d’Europa, meglio solo di alcune aree di Bulgaria, Romania, Ungheria e Polonia. Nei dati pubblicati a maggio 2015 (relativi al dato specifico del 2013) la Calabria, fanalino di coda nei confini nazionali, presenta un coefficiente di PIL pari al 57% della media degli stati membri, rispetto al 134% della Lombardia e al 99% dell’intera Italia.

pil_ue_ultimeIl Mezzogiorno si conferma la più arretrata delle macroaree nell’ambito dell’Eurozona, considerando la sua estensione e la sua popolosità, e i suoi abitanti sono i più poveri d’Europa, di un terzo al di sotto della media Ue, mentre i più ricchi sono i londinesi, tre volte più ricchi di un qualsiasi altro cittadino comunitario. L’area di Londra conferma un Pil pro capite espresso in parità di potere di acquisto pari al 325% della media Ue (26.600 euro all’anno nel 2013). La City è di fatto il più importante centro finanziario del mondo ed è tra le città-faro dell’economia internazionale. Alle spalle dell’area centrale di Londra figurano quelle di Lussemburgo, Bruxelles, Amburgo e Groningen, mentre non ci sono regioni italiane tra le prime 20. Tra le ultime 20, invece, figurano la Mayotte (dipartimento francese d’oltremare al largo del Madagascar) e, appunto, diverse regioni della Bulgaria, della Romania, dell’Ungheria e della Polonia.
divario_coloreI nuovi dati Eurostat confermano l’allargamento del divario tra il Nord e il Sud dell’Italia. Tra il 2012 e il 2013, il Pil pro-capite delle regioni del Nord Italia è rimasto sostanzialmente stabile (di circa un quarto superiore alla media Ue), mentre è calato significativamente nel Sud e nelle Isole (dove si attesta intorno al 63-64% della media Ue). La Calabria presenta un reddito medio pro-capite di 15.100 euro a fronte di una media del Nord-Ovest d’Italia di 33.000 euro, e di 31.000 nel Nord-Est. Le regioni del Nord, viaggiano a un PIL pressoché doppio, con Lombardia, Trentino Alto Adige (province autonome di Bolzano e Trento), Valle d’Aosta ed Emilia Romagna in testa. Significativo il dato del Lazio, immediatamente dietro alle capofila settentrionali e più avanti di Liguria, Veneto, Friuli e Piemonte.
Il grafico complessivo che riassume i divari interni in relazione alla soglia media di ricchezza evidenzia l’anomalia italiana nello scenario continentale, con una metà del Paese al di sopra e una metà al di sotto: sono il Nord e il Sud. Solo la Spagna si avvicina, ma con un range decisamente più ridotto. Non inganni il picco minimo della Francia: si tratta delle regioni d’oltremare: colonie… appunto. Come il Sud-Italia, zona in cui si estraggono e si raffinano grandi percentuali del fabbisogno nazionale di petrolio, benzina, gasolio e gas, ma con royalties assolutamente inique e senza una sensibile ricaduta virtuosa sul territorio di sfruttamento.

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Nasce BirTa, la birra alla mela annurca campana

Sta arrivando BirTa, la birra del Taburno aromatizzata alla mela annurca, una nuova specialità del territorio campano. Mele annurche campane IGP stagionate in botti usate per affinare il vino aglianico; orzo e luppolo coltivati da sei imprese agricole del territori di Frasso Telesino, Dugenta e Sant’Agata dei Goti (Benevento); acqua delle sorgenti del Monte Taburno. Questi gli ingredienti della prima birra artigianale realizzata con la filiera corta. Quattro diverse tipologie, tutte che impiegano malto base Pilsner e mele annurche aggiunte in fase di fermentazione come purea.
BirTa, la birra che si fonde a “la regina delle mele”, sarà disponibile sul mercato a fine settembre 2014.

Paradossale Paolo Guzzanti: «il Piemonte non voleva Napoli e Roma ma se le ritrovò»

Sulle modalità con cui fu realizzata l’annessione del Regno delle Due Sicilie a quello di Sardegna ne abbiamo lette di varie correnti, ma quelle che propone Paolo Guzzanti in un’intervista su Il Fatto Quotidiano del 26 marzo le battono davvero tutte in quanto ad originalità e fantasia.
Alla domanda “Lei crede alla Trattativa Stato-mafia?”, il giornalista-politico ha risposto così:

«Certo. C’è stata. Questo è un paese mafioso che con la mafia ha sempre trattato. […]
Il Regno di Napoli fu concesso dalla camorra. I piemontesi erano sbalorditi. Non avevano nessuna intenzione di prendersi il sud di Italia e tantomeno la Roma papalina e si ritrovarono a gestire questo peso gigantesco. […]»

Vero che mafia e camorra si allearono con gli invasori, ma che tra loro non vi fosse una “trattativa” è in contraddizione con la risposta stessa, e che i malavitosi avessero imposto ai garibaldini di prendersi il Sud controvoglia è roba da farsi una bella risata.

Eugenio Scalfari: «Altro che Unità! Fu occupazione piemontese»

Tratto da Repubblica TV, un’osservazione di Eugenio Scalfari, fondatore dell’omonimo quotidiano, stralciata da una chiacchierata sul nuovo libro di Umberto Eco Numero Zero (Bompiani). Sollecitato da Antonio Gnoli sul perché gli italiani non siano mai cambiati e restino sempre “diversi”, Scalfari ha sottolineato che il popolo italiano detesta lo Stato sin dalla sua nascita, e per via dell’occupazione piemontese.
«Non fu Unità! Fu occupazione piemontese, e se l’avesse fatta il Regno di Napoli, che era molto più ricco e potente, sarebbe andata diversamente. La mentalità savoiarda non era italiana. Cavour parlava francese. E gli italiani quel nuovo Stato l’hanno detestato.»

1860/1861, L’Irpinia in rivolta – Appuntamento con ‘Made in Naples’ alla presentazione del docufilm

copertina_1Appuntamento con Made in Naples ad Avellino, sabato 29 novembre presso la sala congressi dell’Hotel de la Ville di via Palatucci 20. Alle ore 17 si terrà la presentazione del film-documentario “1860/1861 l’Irpinia in rivolta“, realizzato da Antonio Di Martino con il contributo artistico del maestro Pino Lucchese, autore delle immagini presenti nel filmato. All’incontro, organizzato dall’Accademia dei Dogliosi, parteciperà anche lo scrittore e giornalista Angelo Forgione, che parlerà della cultura napoletana e meridionale. Durante la cerimonia saranno in mostra le tavole di Pino Lucchese, appositamente ideate e realizzate a corredo del documentario.
La storia del docufilm racconta le drammatiche scene di violenza durante l’invasione piemontese nei territori irpini, dalla rivolta di Carbonara (Aquilonia) fino ai moti del luglio del 1861 nelle valli del Sabato e del Calore, che coinvolsero anche Montefalcione e Montelmiletto.

avellino_1861

Bandiera delle Due Sicilie in caserma, storia di sconfinamenti.

Angelo Forgione – Corre sul web la notizia della denuncia (non arresto) di due persone, Ferdinando Ambrosio (36) e Nicola Terlizzi (38), per aver esposto la bandiera del Regno delle Due Sicilie al termine della Corsa Storica dei Bersaglieri a Monte di Dio del 22 ottobre. Sarebbero stati fermati dalla Digos e denunciati per vilipendio alla nazione italiana e introduzione in luogo vietato.
Ambrosio e Terlizzi, evidentemente, intendevano lanciare un messaggio preciso, ben consci che i Bersaglieri (come i Carabinieri) sono un’Arma di origine piemontese, costituita nel 1836, utilizzata negli stupri e nei saccheggi dei territori meridionali durante l’invasione del Regno delle Due Sicilie, e rappresentano un simbolo di piemontesizzazione della Penisola. Il problema, nella poco chiara vicenda di cui sono protagonisti i due manifestanti, sta proprio nel luogo in cui sarebbe avvenuto il fermo: la caserma “Nino Bixio”, tra l’altro assegnata alla Polizia di Stato ma un tempo “Gran Quartiere di Pizzofalcone”, fortezza del Seicento costruita per accogliere le truppe fino ad allora alloggiate ai Quartieri Spagnoli e poi assegnata dopo l’Unità al 1° Reggimento dei Bersaglieri di Napoli, dedicata a Nino Bixio, colui che nel 1863 scrisse alla sorella riguardo al Meridione: “[…] Se io dovessi vivere in queste regioni preferirei bruciarmi la testa… […] Questo insomma è un paese che bisognerebbe distruggere o almeno spopolare e mandarli in Affrica a farsi civili!”.
Storie di altri tempi che qualcuno cerca di riaffermare. «Abbiamo mostrato la bandiera alla fine della parata – dice Nando Ambrosio – quando alcune telecamere della Rai stavano riprendendo i bersaglieri che si salutavano. A quel momento è successo un pandemonio, coi bersaglieri intorno che ci gridavano di tutto. Siamo stati circondati e poi condotti in una stanza, dove ci hanno perquisiti, interrogati e denunciati».
È bene chiarire che non esiste una legge che vieti l’esposizione di uno stato preunitario, ma esiste un Cerimoniale di Stato, secondo il quale è vietato esporre sugli (e negli) edifici pubblici istituzionali bandiere e vessilli non istituzionali o privati o di parte, ovvero possono essere esposte esclusivamente bandiere pubbliche istituzionali. Il fatto è che i manifestanti hanno evidentemente mostrato la bandiera in un edificio istituzionale d’ambito militare, durante un evento celebrativo, e questo giustificherebbe il sequestro del corpo del reato, ossia il vessillo. Altra faccenda è il vilipendio alla Repubblica, alle istituzioni, alle forze armate e alla bandiera italiana, che non appare chiaro dai fatti denunciati dai due manifestanti, i quali assicurano (e se ne assumono la responsabilità) di non aver lanciato insulti o frasi ingiuriose. L’Articolo 290 del Codice Penale prevede una multa da euro 1.000 a euro 5.000 “a chi pubblicamente vilipende le forze armate dello Stato o quelle della liberazione”. Gli articoli 291 e 293 prevedono la stessa sanzione per chi vilipende la nazione italiana e chi offende la bandiera o altro emblema di Stato attraverso ingiuria, distruzione, dispersione, deterioramento, occulatamento e imbrattamento della bandiera nazionale. Il verbale di sequestro indica il vilipendio alla nazione italiana. Non risulterebbe insulto o atto di manomissione da parte dei fermati, la cui colpa sembra essere quella di aver esposto la loro amata bandiera in un luogo in cui non potevano neanche entrare, per giunta in prossimità di telecamere, non di averla esposta. Insomma, una storia di sconfinamenti. Del resto, l’Italia è nata da un’invasione.

Territorio italiano disastrato? Perché cancellati gli insegnamenti borbonici.

Angelo Forgione L’ennesima alluvione a Genova ha creato di nuovo distruzione e lutto, per la seconda volta nell’arco di tre anni. Al di là degli sconvolgimenti climatici ormai irreversibili, le cause sono note e raccontano di una delle tante emergenze del territorio italiano, in cui le conseguenze delle calamità naturali producano sempre più danni. Corsi d’acqua ingovernabili, pareti montuose ad alta possibilità di frana, rischio sismico ignorato dal metodo edilizio… lo stato d’allerta ha ormai da tempo superato la soglia dell’imponderabilità. Oggi Genova è di nuovo in ginocchio e rivoltata come un calzino, e nel frattempo abbiamo dovuto assistere al disastro sismico in Emilia. E ritorna in testa la famosa frase di Paolo Villaggio, che tre anni fa tuonò contro la “cultura sudista meridionale borbonica, piaga di tutta l’Italia”, che, al contrario, insegnò a governare il territorio e a limitare gli effetti catastrofici della natura. Se i canali di scolo non fossero stati cementificati e si fosse costruito utilizzando il legno in muratura, così come ci insegnarono i Borbone, non saremmo arrivati a questo. Ribadire con i videoclip quanto ho scritto con maggiore approfondimento in Made in Naples consolida il messaggio, soprattutto se dopo la pubblicazione del lavoro ci hanno pensato scienziati e ricercatori a rafforzarne la veridicità, sconfessando la cultura storica tradizionale e tutti coloro che accusano di nostalgie chi indaga nella storia con serietà. Il passato, invece, può insegnarci a magliorare le conoscenze e la società futura. Vi siete mai chiesti, ad esempio, perché nelle università italiane di ingegneria non si insegna a progettare in legno, col risultato che nelle zone ad alto rischio sismico si costruisce con solo cemento armato, spesso di scarsa qualità?

Italia corrotta, quando e come nasce

dall’Unità in poi, solo governi votati al profitto personale

Angelo Forgione La corruzione è un carattere distintivo e fortemente accentuato in Italia. Non è solo una percezione nostrana ma qualcosa di ben radicato nell’opinione pubblica internazionale. Nella classifica di dicembre 2013 dei coefficienti di corruzione di 177 Paesi nel mondo, redatta dalla ong Transparency International, l’Italia si è piazzata al 69esimo posto, a pari “merito” con il Kuwait e la Romania, e dietro a Uruguay, Botswana, Costarica e Lesotho. L’ultima posizione è occupata dalla Somalia, proprio quella nazione con cui l’Italia di Craxi strinse patti basati sul traffico di armi e rifiuti tossici, dai quali è poi conseguito l’inquinamento della Campania e del Mezzogiorno. In Europa, peggio di noi fanno solo Serbia, Bulgaria, Grecia e Albania, oltre a Russia e Ucraina. Ma qual’è l’origine di tanta disonestà?
L’Italia è nata così, non lo è diventata. Tanto per cominciare, fiumi di denaro in piastre turche, facilmente commerciabili e difficilmente tracciabili, sono scorsi da Londra via Torino per pagare la spedizione garibaldina e annettere il Sud al Piemonte. II criminologo positivista dell’Ottocento Cesare Lombroso, un grande agitatore di idee che fa discutere ancora oggi, molto criticato per alcune sue teorie scientifiche sulla fisiognomica destituite di ogni fondamento, ma al quale va comunque riconosciuto il merito di aver iniziato gli studi criminologici moderni, nel suo trattato L’uomo delinquente del 1876 lanciò strali su ministri e deputati del Regno d’Italia, da Cavour ad Agostino Depretis, in carica in quel momento:
“[…] Una triste osservazione in Italia mi ha dimostrato che dopo Cavour non si ebbe un ministero completamente onesto che potesse reggersi. Se vi prevalevano uomini troppo onesti, il ministero era certo di una brevissima durata, perché non aveva abbastanza tenacia, furberia, tristizia contro le mene parlamentari. […] Il ministro certamente più carico di delitti che sia mai esistito poté or ora, non solo reggersi davanti alla Camera, ma anche davanti alla opinione pubblica e governare senza una vera opposizione nel paese che tanto più gli si prostrava sommesso, quanto più si allontanava dalla legge. Ed è morto pieno di onori e d’anni ed ha una statua collocatagli certo per volere di molti italiani, quel ministro mediocrissimo di mente che se pur non corrotto instaurava da noi la più sfacciata corruzione parlamentare. Ecco dunque il vizio divenuto quasi necessario pel governo parlamentare. Anche agli specialisti medici, avvocati, la bugia è necessaria nei nostri tempi, è quasi la base delle loro operazioni.”
Del resto, quando Vittorio Emanuele II morì, nel 1878, lasciò debiti su questa terra per 40 milioni di lire dell’epoca, circa quarantacinque milioni di euro attuali, e lo storico Denis Mack Smith, specializzato nella storia italiana dal Risorgimento, afferma in Vittorio Emanuele II (Laterza, 1983) che “le carte di Cavour vennero tolte di forza dal governo italiano agli eredi del conte nel 1876, e in seguito soltanto poche persone hanno potuto vederle. Sembra che nel 1878 una parte di quelle carte siano state trasferite negli archivi reali, e ciò serviva senza dubbio a nascondere certi fatti nei quali il sovrano era coinvolto”. Una disinvolta tendenza a dissipare che iniziò allora, quando la corte sabauda era considerata tra le più sfarzose e spendaccione d’Europa.
I primi scandali finanziari del Regno d’Italia furono anche copiosi. Vale la pena citarne qualcuno per tutti: dietro la regia del politico e banchiere Pietro Bastogi, Ministro delle Finanze, le Ferrovie Meridionali furono cedute alla propria compagnia finanziaria privata, per poi subappaltare clandestinamente i lavori, dando luogo alle indagini di una Commissione d’inchiesta parlamentare, senza che però le speculazioni sulla costruzione delle reti ferroviarie terminassero. Il capitale fu ripartito tra le banche del Nord, con Torino, Milano e Livorno che presero la fetta più grande. Sempre dietro la regia di Bastogi, nel settore edilizio si sviluppò una forte speculazione a Roma, Napoli e Milano, nata dall’alleanza tra aristocratici proprietari terrieri e grandi banchieri settentrionali, interessati a guadagni a breve termine e senza rischi. In quegli anni, tra l’altro, fu decisa l’edificazione a Roma del Vittoriano, monumento nazionale a Vittorio Emanuele II appena morto, un’enorme mole di marmi e sculture dal costo insostenibile per l’Italia. Gli squilibri creati dall’edilizia impazzita fecero crollare il settore e fallire gli istituti di investimento immobiliare, generando lo scandalo della Banca Romana. Per coprire le enormi perdite, l’istituto di credito capitolino forzò l’emissione di moneta senza autorizzazione e stampò un ingentissimo quantitativo di banconote con un numero di serie identico ad altre emesse precedentemente, riservandone una parte per pagare politici e giornalisti. Una colossale truffa in cui furono implicati Francesco Crispi, Giovanni Giolitti e una ventina di parlamentari, nonché, seppur indirettamente, il re Umberto di Savoia, fortemente indebitato proprio con la Banca Romana.
L’incredibile esplosione di scandali e fallimenti bancari della seconda metà dell’Ottocento scandirono lo sviluppo politico che seguì all’unificazione nazionale. Nel 1876, la “Destra storica” piemontese di Cavour, La Marmora e Ricasoli fu sconfitta dalla “Sinistra” monarchica di Depretis, Nicotera e Zanardelli. Ma i due schieramenti governativi non rappresentavano espressioni diverse e alternative, essendo facce della stessa medaglia, entrambe espressione della borghesia liberale. Si sviluppò il “trasformismo” del sistema di governo italiano, che costruiva ogni maggioranza con accordi e patti basati su interessi contingenti. Il clima consociativo, cioè privo di una vera e propria opposizione politica, alimentò le furbizie e le manovre segrete, costruendo un sistema politico a vantaggio di tutti, tale da non incoraggiare le riforme necessarie per modernizzare l’Italia, a favore degli interessi privati. Giustino Fortunato denunciò che il governo d’Italia delegò i politici meridionali  a sostenere rapporti con le mafie per ricorrervi in occasione di tornate elettorali. Già un rapporto del 30 novembre 1869 emesso della Prefettura di Napoli evidenziò le frequentazioni tra Giovanni Nicotera, futuro Ministro degli Interni, e un camorrista del quartiere Mercato. Lo Stato, in sostanza, garantiva riduzioni di pena e trattamenti compiacenti in cambio di favori elettorali. Nacque e si definì così il voto di scambio all’italiana. Nel 1901, in una Napoli travolta dalla speculazione edilizia piemontese-romana, nell’ambito del risanamento dei rioni popolari, e da una “tangentopoli” attorno agli appalti per l’illuminazione pubblica e i tram, venne istituita una Commissione d’inchiesta presieduta dal savonese Giuseppe Saredo, che portò a galla la grave situazione di inquinamento da accresciuto potere della camorra politico-governativa, accertando i legami del parlamentare Alberto Aniello Casale con la camorra, coinvolgendo anche il giornalista Edoardo Scarfoglio, direttore de Il Mattino, accusato di aver intascato danaro per sostenere i corrotti sulle pagine del quotidiano. Un brano del rapporto conclusivo della Commissione appurò le responsabilità dei parlamenti di Torino, Firenze e Roma nell’accrescimento del potere camorrista:
“Il male più grave, a nostro avviso, fu quello di aver fatto ingigantire la Camorra, lasciandola infiltrare in tutti gli strati della vita pubblica e per tutta la compagine sociale, invece di distruggerla, come dovevano consigliare le libere istituzioni, o per lo meno di tenerla circoscritta, là donde proveniva, cioè negli infimi gradini sociali. In corrispondenza quindi alla bassa camorra originaria, esercitata sulla povera plebe in tempi di abiezione e di servaggio, con diverse forme di prepotenza si vide sorgere un’alta camorra, costituita dai più scaltri e audaci borghesi. […] È quest’alta camorra, che patteggia e mercanteggia colla bassa, e promette per ottenere, e ottiene promettendo, che considera campo da mietere e da sfruttare tutta la pubblica amministrazione, come strumenti la scaltrezza, la audacia e la violenza, come forza la piazza, ben a ragione è da considerare come fenomeno più pericoloso, perché ha ristabilito il peggiore dei nepotismi, elevando a regime la prepotenza, sostituendo l’imposizione alla volontà, annullando l’individualità e la libertà e frodando le leggi e la pubblica fede.”
Con il dilagare indisturbato della corruzione dei deputati e la sparizione di soldi pubblici si inaugurò inevitabilmente la crescita del deficit dello Stato. Dopo il 1855, l’indebitato Piemonte, che da solo ebbe, fino al 1898, 41 ministri contro 47 dell’intero Sud, non compilò più il bilancio statale, oscurando le informazioni. Dopo aver invaso il Regno delle Due Sicilie, il Regno d’Italia si inaugurò a Torino con un alto debito che è sempre cresciuto nel corso di questi 153 anni, arrivando a superare i 2.000 miliardi di euro.
Il sistema politico-sociale della Nazione è rimasto sempre lo stesso, costruito sulla corruzione e sull’interesse personale. Ricordare la storia d’Italia del secondo Novecento servirebbe solo ad allungare il brodo. Meglio indugiare su una vignetta che nel 2009 ha vinto il Concorso nazionale di Satira e Umorismo “L’Ortica” (in basso). Si chiama “Homo Ridens: tributo semiserio a Darwin”, ed è stata realizzata da Marco Martellini, che ha disegnato ogni figura col un suo perfetto corrispettivo sul versante opposto. L’evoluzione della specie parte da una scimmia che si ingobbisce per diventare prima uomo di Neanderthal e poi predatore. L’acme è rappresentato da Giulio Cesare e dalla “civitas romana”. L’inizio dell’involuzione è rappresentato dall’Unità d’Italia nella figura del massone Garibaldi, omologo del predatore, che prelude alle tre figure imperanti della politica del Novecento: Mussolini, Andreotti e Berlusconi.
Mi fermo col quesito di Lorenzo Del Boca, dal 2001 al 2010 presidente dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti: «Con queste premesse, è possibile pensare che l’Italia avrebbe potuto essere diversa da quella che è?» È l’interrogativo con cui, nel febbraio 2012, concluse un intervento (clicca qui per ascoltare) sulle nascita risorgimentale della corruzione in Italia. Per chi non lo sapesse, Del Boca è un piemontese doc di Novara, non un meridionale.

vignetta