La testa del Napoli in testa potrebbe essere spenta o non raggiungibile

higuain_testabassaAngelo Forgione Cos’è accaduto al Napoli dei 13 risultati utili, quello che con 9 vittorie e 4 pareggi si era meritatamente issato in testa alla classifica? Neanche il tempo di riassaporarne il dolce gusto e subito ingoiato un boccone amaro. 25 anni e 7 mesi per ritrovarsi in vetta e soli 6 giorni per perderla. Per giunta, neanche una partita disputata da capolista, visto che l’inseguitrice (Inter) aveva scavalcato gli azzurri prima che andassero in campo e le prendessero dal Bologna. È, il Napoli, davvero incapace di tenere il vertice?
Sostengo nel mio Dov’è la Vittoria, dati alla mano e a compiuta analisi, che i club del Calcio meridionale hanno davvero poche possibilità di raggiungere i più alti traguardi ma anche che qualche chance c’è. E quando l’occasione si presenta bisogna giocarsela fino in fondo e con determinazione. Quello in corso è un campionato davvero atipico, fuori dallo standard del nostro Calcio, connotato da tante forze incrociate che si alternano di domenica in domenica. Inter, Roma, Fiorentina, Napoli, e poi di nuovo Inter in testa, con la Juventus, inizialmente attardata, che ringrazia e ne approfitta. Non una squadra “ammazzacampionato” e opportunità per tutti. Vincerà chi avrà migliori ricambi, più fiato di tutti al traguardo e, soprattutto, chi ci avrà messo la convinzione di farcela lungo tutto l’arco della stagione. È in questo che il Napoli ha mostrato il più preoccupante dei segnali, perché una volta agguantato il primato solitario è crollato sulle gambe tremanti, come un palazzo dalle fondamenta fragili sotto la spinta di una leggera scossa di terremoto. Tutto è iniziato al minuto 62 della battaglia contro l’Inter, fin lì dominata e poi improvvisamente ribaltata nell’inerzia ma non nel risultato. Lì il Napoli tosto, che per mesi aveva inseguito la vittoria a prescindere, ha abbandonato il terreno di gioco, lasciandolo a una squadra gemella ma con una testa diversa, timorosa di perdere il primato raggiunto, rinculata nelle sue paure per i restanti 30 minuti e assistita dai pali della propria porta nell’ultimo giro di lancette. Con questa testa un’euforico e scarico Napoli è salito a Bologna, prolungando lo sciagurato finale contro i nerazzurri. Del Napoli convinto, solo la controfigura, tradito dall’appagamento per un effimero traguardo parziale e schiacciato dalla pressione del primato già nuovamente sottratto dall’Inter qualche ora prima. È mancata la giusta concentrazione, soprattutto in fase difensiva. È mancata la giusta determinazione. È mancato l’approccio che le squadre che vincono i campionati ci mettono ogni domenica. Napoli, più che dal solito Mazzoleni, bloccato dalla paura di perdere immediatamente il primato e dal furore del Bologna (a proposito di testa!), pronto a triplicare le forze per uscire sul portatore di palla e, soprattutto, sul ricevitore. Anche i felsinei hanno confermato quanto conti la testa, credendo di averla vinta sul 3-0 e smettendo di sudare, consentendo al Napoli di ridimensionare la disfatta.
Per stare in vetta bisogna essere convinti di poterci stare. Nasce un pericoloso disorientamento quando il presidente preconizza un maggior margine di vantaggio a Natale e l’allenatore, invece, smorza le ambizioni rifacendosi agli obiettivi ipotizzati a luglio che possono far sentire appagati i calciatori. Quando una squadra raggiunge la prima posizione, gioca bene e raccoglie consensi internazionali, vuol dire che vi è concretezza tecnica, e allora bisogna guardarsi in faccia, tutti, e ridefinire gli obiettivi e stabilire una linea comunicativa comune. Le due cose, quando c’è di mezzo lo scudetto, non devono andare d’accordo, ma ciò che deve coincidere sono le parole in pubblico dei dirigenti e dello staff tecnico, a prescindere dal fatto che si racconti la verità o che la si nasconda.
La sensazione è che, in questo strano campionato, il Napoli, con qualche innesto a Gennaio, potrà dire la sua. L’occasione per il Sud del Calcio non può essere gettata alle ortiche. Ma bisogna crederci veramente, e mettersi in testa che in campo bisogna andarci per vincere; e se gli avversari fiatano sul collo bisogna sputare sangue. La psicologia è fondamentale anche nello sport, soprattutto ad alti livelli, e Sarri lo sa bene, perché era stato proprio lui a dire un mese fa, dopo la vittoria contro il Midtjylland, che non temeva cali fisici se la testa dei ragazzi avrebbe continuato a rispondere. Domenica scorsa quella testa, in testa, era spenta, o fuori campo.

tratto da Dov’è la Vittoria (Magenes, 2015) – pag. 50, capitolo “Prima il Nord”

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Tutta l’ignoranza d’Italia nella domenica del pallone

bandiera_francia_veronaAngelo Forgione Verona-Napoli la portano a casa gli azzurri. Una partita in cui si è specchiato un Paese che nel proprio campionato impone la bandiera francese in bella mostra e l’ascolto de “la Marsigliese”, in segno di solidarietà per le morti di Parigi. Giusto e sacrosanto commemorare delle vittime innocenti, ma quando ciò avviene solo in ricordo di un popolo e non di tutti quelli coinvolti in luttuosi eventi si finisce per esprimere un messaggio politico. Avremmo preferito la bandiera multicolore della pace e l’esecuzione di Imagine di John Lennon, ma evidentemente il cocchiere guida il carrozzone in una strada a senso unico. A Verona, poi, non per colpa degli innocenti ragazzini deputati a mostrarla, è venuto fuori persino un tricolore francese ribaltato (che nei paesi del Commonwealth significa arrendevolezza) e nessuno dei commissari di Lega ha pensato di far rettificare il senso. Sugli spalti, appena terminata l’ultima nota dell’inno di Francia sono ripresi i cori razzisti contro Napoli, e tutti a sdegnarsi, a partire da Paolo Condò su Sky, la cui denuncia veniva condivisa da Ilaria D’Amico. Ma ci vogliamo forse stupire per l’ipocrisia nazionale e per l’incoerenza dei tifosi del Verona, da sempre eccessivamente animosi nei confronti dei napoletani? Non un comportamento diverso dal solito, e certamente non peggiore di quello avuto dai bolognesi il 31 maggio 2013, durante Italia – San Marino, partita dedicata alla lotta al razzismo, quando intonarono a sproposito “stonati” cori contro il popolo partenopeo.
insigne_veronaSul campo del ‘Bentegodi’, il più bersagliato è stato, neanche a dirlo, il napoletanissimo Lorenzo Insigne. E proprio lui ha infilato il primo pertugio aperto nella difesa gialloblu, ha baciato più volte la maglia azzurra all’altezza dello stemma, è corso ad abbracciare il napoletano-toscano Sarri ed è stato travolto dai napoletani dello staff, a partire dal medico sociale De Nicola, passando per il massaggiatore Di Lullo, per finire con il magazziniere Tommaso Starace, lo stesso di trent’anni fa, quando fu Maradona a fargli giustizia sullo stesso campo. Lorenzo ha dedicato il goal alla sua città e la sua rivalsa da scudetto è finita in copertina, con più risalto di quanto non ne ebbe lui stesso due stagioni fa e, in Serie B, l’ex compagno di squadra a Pescara Ciro Immobile, che le offese dei veronesi se la legò al dito, così come l’altro conterraneo Aniello Cutolo, che restituì i ceffoni al ‘Bentegodi’ con tutto Mandorlini.
La domenica calcistica è finita come era iniziata. Nello stesso stadio in cui, nel 2007, fu sonoramente fischiato l’inno di Francia, a dieci minuti dal termine di Inter-Frosinone, con i padroni di casa in gloria, i tifosi nerazzurri si sono proiettati allo scontro al vertice di lunedì 30 al ‘San Paolo’ e hanno pensato bene di vomitare il loro repertorio razzista all’indirizzo dei napoletani. Tanto per non farsi mancare nulla.
Bandiere rovesciate, ipocrisie e scontri territoriali; questo è lo spettacolo che va in scena sui palcoscenici della Serie A. Non c’è affatto da meravigliarsi. Lo faccia chi non sa che l’Italia è un paese profondamente ignorante – tra i primi al mondo per odio razziale – che ignora la reale connotazione dei fenomeni immigratori e li rende negativi anche quando non lo sono. Insomma, Italia regno dei pregiudizi. C’è qualcuno – la Ipsos Mori in Gran Bretagna – che qualche tempo fa si è preoccupato di certificare il dato con una ricerca in 14 paesi del mondo con cui si evince che gli italiani hanno la più scarsa conoscenza di temi di pubblico interesse ed esprimono giudizi e sentimenti dalle deboli fondamenta. Insomma, italiani tutt’altro che brava gente. E allora non stupiamoci del razzismo negli stadi e nemmeno degli inciampi del presidente della FIGC Carlo Tavecchio. Ce lo meritiamo.

Meno omicidi, più rapine e una conferma: Napoli non è il far-west d’Italia

Angelo Forgione Franco Di Mare, conduttore di Uno Mattina (Rai Uno), da napoletano equilibrato, si è tolto qualche sassolino dalla scarpa commentando gli interessanti dati forniti dalla ricerca del sociologo aretino Marzio Bargagli, che da anni smanetta tra le statistiche Sdi/Ssd sui reati e sulla sicurezza, e che ci racconta come si è evoluta la malavita in Italia negli ultimi trent’anni. E, indirettamente, ci dimostra che l’immagine di Napoli paga sempre un prezzo troppo alto rispetto alle reali dimensioni del problema sicurezza, se rapportate alle altre città medie e grandi della Penisola.
Ma cosa dicono i dati analizzati da Bargagli? Innanzitutto che è stato battuto nell’ultimo anno un nuovo record positivo: quello del più basso numero di omicidi nella storia unitaria. Nel 2014 sono stati 468, nel 1991 erano 1.916. A Sud il crollo del tasso di omicidi è stato più massiccio che a Nord. La flessione maggiore è a Genova (16% annuo), che oggi è la più sicura fra le grandi città, seguita da Catania (14% all’anno) e Napoli (5%). Calano i furti d’auto ma aumentano i borseggi, con una crescita media annua del 4,1% a Milano, del 13,2% a Torino, del 19% a Bologna (capitale della specifica tipologia di furto), del 20% a Firenze, addirittura del 31,5% a Roma, mentre a Napoli l’incremento medio è stato solo del 2,9%. Aumentano anche i furti negli appartamenti, con Bologna che ha avuto un incremento straordinario del 24,4% medio annuo, seguita da Milano e Catania, con il 20%. Napoli è la città che ha visto il minor aumento (3,2% annuo). Torino è oggi la città con il tasso più alto di furti in appartamento, seguita immediatamente da Milano e Firenze. Quella più sicura è proprio Napoli, con un tasso 6,7 volte più basso del capoluogo piemontese. E aumentano anche le rapine, con diversi distinguo tipologici e in modo disomogeneo tra Nord e Sud. Mentre nel Settentrione il tasso di rapine è aumentato, nel Meridione è diminuito. Torino segna un incremento medio annuo del 4,5%, Roma del 4,8%, Firenze del 6,4%, Milano del 6,9%, Bologna addirittura del 7%. Anche in questo caso Genova fa eccezione, con un aumento annuo dell’1%. E mentre, negli anni della crisi, nelle città centro-settentrionali il numero delle rapine cresceva, a Napoli diminuiva. Dal 2009 al 2014 il capoluogo partenopeo ha avuto una diminuzione media annua del 5%, avvicinata sensibilmente da Milano e Torino.
Statistiche che non contemplano gli indici di suicidi e di vittime stradali, che hanno una diversa valutazione nella percezione della sicurezza, ma che invece sono incidenti e vedono Napoli tra le città meno colpite in assoluto.

immagine: L’Ottimista di Marco Adinolfi

Il Frecciarossa adriatico arriva a Bari ma Salento e Molise restano esclusi

Angelo Forgione – Dal 20 settembre i tanti baresi residenti a Milano potranno raggiungere casa più velocemente. Finalmente Trenitalia porta i Frecciarossa a Bari, passando per Pescara e Foggia, grazie a 2 collegamenti giornalieri (1 per direzione) Milano-Bari della durata di 6 ore e 30 minuti. Il convoglio milanese partirà alle 7.50, quello barese alle 16.20.
È un passo avanti che riduce la scopertura del corridoio adriatico, visto che fino ad oggi il “capolinea” dei Frecciarossa era Ancona. Per la riuscita dell’operazione sarà necessario far “correre” i treni su binari meno veloci (Bologna-Bari) e, per 32 chilometri, sul binario unico nel tratto Termoli-Lesina, neutralizzando l’effetto “freccia”.
Si tratta comunque di 2 soli collegamenti Milano-Bari, a fronte di 91 Milano-Roma. E restano tagliati fuori il Molise (territorio di transito senza fermate intermedie) come pure l’intero Salento di leccesi e brindisini, che devono accontentarsi dei meno veloci Frecciargento, con una grossa sproporzione di frequenza delle corse rispetto a quelle dei convogli più rapidi: per 6 Frecciargento Roma-Lecce al giorno ci sono 91 Frecciarossa Milano-Roma. Per non parlare dei tarantini, serviti dai soli Frecciabianca. Considerando che, sul versante tirrenico, la Calabria è pur’essa servita da soli 2 Frecciargento e che in Basilicata, Sicilia e Sardegna circolano solo trenini regionali su linee complementari, non basta un prolungamento adriatico per Bari (equiparato a quello tirrenico per Salerno) per poter dire che sui binari del Sud non si viaggi di meno e più lentamente che su quelli del Nord.

25 anni fa lo scudetto dei veleni. Festa a Napoli e ira a Milano.

29 aprile 1990 – 29 aprile 2015: 25 sono gli anni trascorsi dal secondo e ultimo scudetto del Napoli. Un quarto di secolo, un periodo in cui solo Roma e Lazio, indebitandosi fino al collo, sono riuscute a portare altri due scudetti nel sud del Calcio.
Quello del 1990 fu lo scudetto dei veleni, uno scontro tra Nord ricco e Sud guastafeste, tra organizzazione ed estro. Vinsero Maradona e compagni, in situazioni poco chiare e tra strane dinamiche su ambo i fronti. Monetine (ininfluenti) e goal fantasma a far da sfondo a un finale di stagione pre-Mondiali culminato nell’ira di Berlusconi e soci, che non riconobbero la vittoria degli avversari, loro che due anni prima avevano trionfato tra gli applausi e la legittimazione dei napoletani, pur delusi da uno scudetto gettato alle ortiche. Il team manager Silvano Ramaccioni, in diretta tivù nazionale, affermò di non riconoscere “lo scudetto napoletano della slealtà”. Il regolamento della responsabilità oggettiva vigeva da anni ed era stato applicato più volte in precedenza, ma l’episodio interessò la lotta per lo scudetto tra una squadra ricca e potente del Nord e una straordinariamente forte del Sud. Vinse la seconda e la normativa fu rivista sulla scia dell’ira di Berlusconi e Galliani, ancora oggi influenti nelle scelte della giustizia sportiva (cancellazione chiusura settori per discriminazione territoriale).
Quello storico tricolore decretò la chiusura del grande ciclo del Napoli (anche se ne seguì una roboante vittoria in Supercoppa contro la Juventus) e la fine di un duello acerrimo e velenoso col nuovo potere berlusconiano, in forte ascesa. Dietro quel confronto sportivo tra Napoli e Milano (con l’Inter terzo incomodo) si addensano ancora oggi nubi nere: accuse di scudetti venduti e scommesse clandestine, di arbitri schierati; confessioni camorristiche di manovre politiche pro-Milan e di accordi di palazzo pro-Napoli (dettagli e approfondimenti sul mio saggio Dov’è la Vittoria di prossima uscita). Un’epoca così lontana, eppure così attuale. Anzi, eterna. Un’epoca riassunta in una dedica più recente di Maradona ai napoletani: «Abbiamo vinto contro tutto e tutti».

Ferrovie: lo Stato fa viaggiare il Sud più lentamente e con meno frequenza

Angelo Forgione per napoli.com – Il Censis ha definito il Sud-Italia “abbandonato a se stesso” a causa dei “piani di governo poco chiari” ma anche, tra le varie problematiche, di infrastrutture scarsamente competitive. E di fatto i gruppi dirigenti nazionali continuano a non prevedere delle mirate politiche di sviluppo economico e civile nella parte più arretrata del Paese per rimuovere le differenze sociali esistenti. Un esempio di discriminazione governativa? Lo sviluppo della rete ferroviaria, col Governo Renzi che, nonostante l’evidente sperequazione dell’offerta ferroviaria tra Nord e Sud, ha concentrato il 98,8% degli investimenti ferroviari dalla Toscana in su, cioè nella parte del Paese che ne ha meno bisogno.
La rete ferroviaria italiana più evoluta è composta da: treni ‘Fracciarossa’ (Alta Velocità fino a 300 km/h), treni ‘Frecciargento’ (Alta Velocità fino a 250 km/h) e treni ‘Frecciabianca’ (linee tradizionali al di fuori della rete Alta Velocità). L’Alta Velocità ferroviaria, coi più veloci treni ‘Frecciarossa’, conduce da Torino a Salerno, e più a sud dell’Irno non si spinge. La diramazione secondaria da Bologna per Ancona esclude tutto il corridoio adriatico Pescara-Foggia-Bari-Taran­to-Lecce. Nel capoluogo salentino e a Reggio Calabria ci si arriva solo da Roma, coi meno veloci ‘Frecciargento’ e con una grossa sproporzione di frequenza delle corse rispetto a quelle dalla Capitale per Milano-Torino.
L’orario 2015 di Trenitalia indica che 78 Frecciarossa uniscono Milano e Roma, di cui 34 in meno di tre ore. 29 in totale le corse ‘Frecciarossa’ tra Torino e Roma, di cui 14 superveloci. Solo 6 treni ‘Frecciargento‘, più lenti, da Roma a Lecce. Addirittura 2, ovviamente ‘Frecciargento’, da Roma a Reggio Calabria. 36 sono i collegamenti Roma-Padova/Venezia e 14 i Roma-Verona.
Nelle dimenticate Sardegna e Sicilia non circolano neanche gli ancor più lenti ‘Frecciabianca’, i convogli che assicurano la copertura su rete convenzionale di grandissima parte della Penisola… ma non la congiunzione delle dorsali tirrenica e adriatica del Meridione. Nelle due isole maggiori, già penalizzate dalla mancanza di continuità territoriale, solo trenini regionali su linee complementari.
Insomma, sui binari del Sud si viaggia di meno e più lentamente che su quelli del Nord, e non è raro che vi scorrano vetture ferroviarie già utilizzate in Alta-Italia quando sostituite da materiale rotabile di ultima generazione. Un Paese che limita la mobilità di una parte dei cittadini non può certamente dirsi unito.

Napoli non è capitale dei reati ma resta riferimento dello stereotipo

crimini_torinoAngelo Forgione I dati forniti al Sole 24 Ore dal Ministero dell’Interno circa i reati denunciati nel nostro Paese nel 2013 dicono di nuovo che vi è un incremento dopo tre anni di flessione, il che non significa necessariamente che siano aumentati i reati (potrebbero essere aumentate le denunce; ndr), ma poi nessuna novità, nel senso che Milano si confa la provincia che subisce la pressione del crimine più alta. Via via, nell’ordine, Rimini, Bologna, Torino, Roma, crimini_pesaroRavenna, Genova e Firenze. Sia pure in ordine sparso, sempre le stesse degli anni scorsi.
E Napoli? C’è poco da stare allegri, ma si conferma fuori dalle quaranta città più insicure, e anche questa non è una novità (guarda video del 2011), nonostante la faccia da padrona incontrastata in rapine e sia seconda in quanto a scippi alla sola Catania; ma se la “cava” in borseggi, furti di appartamento e altre classifiche specifiche, che, una volta sommate, dicono che vi sono tante altre città decisamente più insicure, e che al Sud va meglio che al Nord. Eppure il raffronto con il riferimento napoletano (sbagliato) è sempre il primo a saltare in mente ai titolisti dello Stivale, a ulteriore conferma che certi stereotipi sono più radicati di certi alberi secolari: “È peggio di Napoli”, si stampa ad ogni latitudine e nella testa dei lettori, ma se Partenope non è in testa va da sé che siano automaticamente molte a fare peggio.

video del 2012 relativo ai dati del 2011

L’Autostrada del Sole ha compiuto 50 anni. Viva l’automobile!

Angelo Forgione L’Autostrada del Sole ha compiuto 50 anni. L’opera venne completata definitivamente il 4 ottobre del 1964 e unì il Nord al Sud, ma fermandosi a Napoli, attraverso sei regioni. Una grandiosa opera che divenne il simbolo stesso del miracolo economico italiano.
La prima pietra fu posata l’8 dicembre del 1958. Era l’Italia che usciva dalla Guerra con gli aiuti del Piano Marshall per la ricostruzione. Erano state rimesse in piedi anche le fabbriche vitali, come la Fiat, a cui erano state assicurate commesse negli USA in cambio del licenziamento degli operai comunisti per accordo tra i vertici torinesi (Vittorio Valletta e Gianni Agnelli) e l’ambasciatrice statunitense Clare Boothe Luce, forte oppositrice del comunismo italiano.
Nel 1954, gli uomini Fiat Valletta e Agnelli erano entrati nel nascente Gruppo Bildeberg, un club occulto riservato agli uomini più influenti d’Europa e degli Stati Uniti, legati a varie massonerie. Proprio nel 1954, Fiat, Eni, Pirelli e Italcementi avevano dato vita alla SISI Spa (Sviluppo Iniziative Stradali Italiane) per favorire il mercato automobilistico a scapito del trasporto su ferro, attraverso l’imposizione all’opinione pubblica dell’equazione “autostrade uguale sviluppo economico”. Senza le strade, le macchine le avrebbero acquistate solo i più ricchi borghesi delle grandi città. Lo Stato intervenne a sostegno, costituendo la Società Concessioni e Costruzioni Autostrade Spa per aggirare le limitate disponibilità dell’Anas. I finanziamenti furono impegnati sullo sviluppo della motorizzazione, mentre alle Ferrovie dello Stato furono destinate scarse risorse con le quali fu solo riattivata, e lentamente, una rete ormai inadeguata, che invece avrebbe necessitato della costruzione di nuove tratte e della correzione di quelle insufficienti.
Il progetto pilotato di “motorizzazione” degli italiani prevedeva un asse orizzontale Torino-Milano-Venezia-Trieste, una diramazione da Milano per Genova, un asse verticale da Milano verso Bologna che si sarebbe biforcato, verso Roma-Napoli e verso Ancona-Pescara. Per le auto che scendevano al Sud, mentre gli operai che le costruivano salivano al Nord col “Treno del Sole”, occorreva un nome simbolico: “Autostrada del Sole” era perfetto. La realizzazione della rete autostradale e il boom economico misero gli italiani al volante. La Casa di Torino crebbe in produzione, dipendenti, esportazione e fatturato. Missione compiuta! Solo quando ormai tutti possedevano una macchina e lo scenario delle città era cambiato (in peggio, con l’invasione dal nuovo simbolo del miraggio di libertà) furono affrontatati, con importanti finanziamenti, gli aspetti critici della rete ferroviaria, alcuni ancora irrisolti al Centro-Sud. Oggi, per risolvere il problema della congestione urbana da automobili, si realizzano metropolitane sotterranee o leggere in ogni città di rilevanti dimensioni. Inutile dire che gli investimenti sulla rete autostradale e su quella ferroviaria sono tuttora concentrati più al Nord, ma questa è un’altra storia. Ma anche no.

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Pistole nel calcio, la prima volta fu dei tifosi del Bologna

Gli spari a Roma prima di Fiorentina-Napoli non sono stati i primi tra tifoserie.
Storia del calcio violento e truccato di sempre.

Leandro Arpinati

Angelo Forgione – I tristi eventi romani del 3 maggio che hanno preceduto la finale di Coppa Italia hanno un lontano precedente, che risale alla stagione 1924/25, quando Bologna era un faro del fascismo e Genoa e Bologna si contesero l’accesso alla finale scudetto contro i vincitori della Lega Sud. Ecco i fatti drammatici di quel tempo.
I liguri, una potenza calcistica di inizio Novecento, rincorrono il decimo scudetto. I felsinei, un’ambiziosa realtà emergente, sono guidati dal gerarca fascista e accolito del Duce Leandro Arpinati, presidente degli emiliani e vicepresidente della Lega Calcio. Un uomo potentissimo, una delle figure principali del regime fascista, capo dello squadrismo bolognese che già nel novembre del 1920 ha guidato i militanti armati nelle vicende della strage di Palazzo d’Accursio seguita all’insediamento della nuova giunta comunale socialista massimalista. Arpinati è vicesegretario del partito e podestà di Bologna, presidente del CONI e della FIGC, nonché, in seguito, sottosegretario agli Interni, cioè di fatto ministro.
La finale d’andata della Lega Nord va in scena a Bologna il 24 maggio 1925 ed è vinta dal Genoa per 2-1. I gol dell’ex Alberti e di Catto, con Schiavio che accorcia nel finale, indirizzano la vittoria verso i liguri. Sette giorni dopo, le squadre si ritrovano di fronte per il ritorno allo stadio di Marassi, gremito e pronto ai festeggiamenti. Ma il Bologna, a sorpresa, restisce il 2-1 con le marcature di Muzzioli e di Della Valle, dopo il provvisorio pareggio di Santamaria, e porta gli avversari allo spareggio in campo neutro. Il 7 giugno, a Milano, le squadre si ritrovano di fronte e il Genoa, grazie ai goal di Catto e Alberti, va all’intervallo sul punteggio di 2-0. Al 15’ della ripresa, il portiere genoano De Prà devia in angolo un potentissimo tiro del bolognese Muzzioli; l’arbitro Giovanni Mauro indica regolarmente la bandierina e a quel punto dirigenti e sostenitori bolognesi, tra cui alcuni uomini in camicia nera, irrompono armati sul terreno di gioco per accerchiare il direttore di gara e imporgli la convalida di un goal non visto per un buco nella rete, ma di fatto inesistente. Parole grosse, minacce e percosse conducono alla concessione del goal fantasma, con l’arbitro che promette ai liguri di mettere tutto a referto per far assegnare la vittoria a tavolino. Il Genoa la prende per buona e prosegue la partita tra ulteriori risse e tensioni che portano pure al pareggio felsineo dopo un fallo sul portiere genoano. Troppo per poter proseguire la farsa anche ai supplementari, il Genoa si rifiuta di giocarli e si affida al referto arbitrale. Ma il signor Mauro non fa alcuna menzione dell’aggressione e delle pressioni ricevute e omologa il risultato di 2-2 tra lo stupore dei liguri. Arpinati ha fatto valere la sua influente figura di dirigente della Lega e, soprattutto, di rampante gerarca fascista, imponendo un secondo spareggio, fissato per il 5 luglio a Torino, dove le due contendenti chiudono ancora in parità per 1-1. La forte tensione non genera nessun problema in campo ma violentissimi scontri si verificano in serata all’esterno, nella stazione ferroviaria di Porta Nuova, dove i treni delle due tifoserie si ritrovano divisi da quattro binari e un terzo convoglio, che all’improvviso si allontana. Bolognesi e genoani ora si guardano, prendono a inveire gli uni contro gli altri. Sui binari scendono i più scalmanati, si sfidano in una prima sassaiola mentre la polizia accorre a dividerli e a dare tempestivamente l’ordine di partenza del treno dei felsinei. La rincorsa al convoglio in corsa sembra riportare la calma, ma i tifosi di estrema destra del Bologna girano armati; e qualcuno fa fuoco: tra i venti e i trenta colpi, tutti in aria tranne tre. Due colpiscono di striscio un genoano e il capostazione. A terra resta un altro ligure, Vittorio Tentorio, trapassato da una pallottola in un punto fortunatamente non vitale e immediatamente trasportato in ospedale per le lunghe e necessarie cure.
I quotidiani tentano di minimizzare la vicenda, il governo, di destra, probabilmente copre i colpevoli, ma l’indignazione è tanta perché per la prima volta si è sfiorata la tragedia per una partita di calcio. Il Consiglio Direttivo del Bologna addossa ai sostenitori del Genoa la colpa degli incidenti e fa arrabbiare i vertici fedarali, che allora multano il club di Arpinati e gli impongono di identificare i colpevoli per evitare l’esclusione dal campionato. Il braccio di ferro è violento e il gerarca, dietro le quinte, fa radunare in piazza Nettuno a Bologna una folla ribelle. Va in scena un folle comizio sportivo, il primo del genere tenuto in Italia, da cui si leva il grido di protesta contro la FIGC. In un clima del genere non si può più andare avanti e si decide la sospensione della sfida tra le due squadre. Sembra una tregua per calmare le acque in vista dell’ennesimo spareggio da giocarsi a settembre, ma un nuovo colpo di scena firmato Arpinati è pronto: in Consiglio Federale della Lega Nord impone un nuovo spareggio a porte chiuse da disputare alle 7 del mattino del 9 agosto in un campo secondario del quartiere Vigentino a Milano. Bisogna che la notizia resti segreta per evitare ulteriori scontri, ma di quell’appuntamento il Bologna viene avvisato per tempo, mentre il Genoa riceve la notifica soltanto qualche giorno prima. I suoi calciatori sono al mare, non si allenano e non sono preparati, ma vengono convocati d’urgenza per essere catapultati in campo a Milano a prima mattina. Nelle case sono ancora tutti a dormire ma attorno al terreno di gioco ci sono carabinieri a cavallo e camicie nere emiliane ad assistere alla vittoria del Bologna per 2-1. Il Genoa è finalmente piegato, la conquista del decimo tricolore fallisce. Dopo la sfida finale contro i meridionali dell’Alba Roma, lo scudetto va al Bologna, il primo dei felsinei, sul quale gravano le manovre di Arpinati, l’unico uomo veramente decisivo del club emiliano. Sarebbe diventato l’anno seguente, guarda un po’, presidente della FIGC. Pistole e proiettili non si sarebbero più visti nelle dispute calcistiche fino al 2 dicembre 1973: un tifoso della Roma avrebbe colpito il napoletano Alfredo Della Corte con uno sparo alla bocca. E poi il 3 maggio 2014: a ottantanove anni dai fatti di Torino un altro romano e romanista, Daniele De Santis, ha fatto fuoco contro un altro tifoso napoletano, Ciro Esposito. Era anch’egli legato ad ambienti di destra.

Bologna chiede scusa a Napoli

Qualche tempo fa fu la redazione regionale Rai del Piemonte, colta in castagna, a dover chiedere scusa ai napoletani per il razzismo da stadio. Non lo fece il Comune di Torino, come il consiglio comunale di Bologna, che oggi, dopo i cori razzisti intonati ieri allo stadio Dall’Ara, ha stigmatizzato più spontaneamente ogni forma di espressione di stampo razzista e si è scusato con la città di Napoli e con tutti i cittadini che non si sentano rappresentati dal fanatismo ultras. È quanto si legge in un ordine del giorno approvato all’unanimità (clicca qui). Il Consiglio “auspica che le società calcistiche prendano una volta per tutte le distanze da ogni forma di violenza”. Il sindaco felsineo Virginio Merola ha commentato in una nota dicendo che “si è trattato di comportamenti che nulla hanno a che fare con lo sport. Una violenza verbale inconcepibile, da condannare”. Inoltre, secondo Merola, “è stata infangata la memoria di Lucio Dalla, persone che ha sempre amato la sua città e Napoli”. Nulla invece l’informazione sulla vicenda da parte della redazione regionale Rai dell’Emilia Romagna.