La mentalità perdente di Napoli secondo il fortunato Profeta di Fusignano

Angelo Forgione«Napoli perdente!». Ipse dixit Arrigo Sacchi, la cui carriera è in qualche modo legata al Napoli più vincente che vi sia mai stato. L’ex tecnico romagnolo ha sparato a zero sulla piazza partenopea nel giustificare, in un’intervista al quotidiano spagnolo AS, il fallimento (o presunto tale) di Benitez, suo pupillo, all’ombra del Vesuvio. Ed è bufera.
«A Napoli – ha detto l’ex allenatore – Benitez ha trovato una situazione non facile perché è una città che non ha mentalità vincente. Quella squadra non ha mai vinto niente di veramente importante. Maradona, il migliore giocatore che ho visto in campo, non ha alzato là neanche la Coppa dei Campioni. Neanche è arrivato ai quarti. Lavorare in un ambiente così è difficile».
C’è poco da risentirsi. Sacchi ha detto una sacrosanta verità. La mentalità vincente manca al Napoli, e manca a tutto il calcio centro-meridionale. È un problema radicale, nativo, che coinvolge tutto il movimento calcistico della parte del Paese non industrializzata. Più ci si allontana dalla produttività settentrionale e più il Calcio diventa poesia, sentimento. Roma, ad esempio: è una delle capitali europee meno vincenti nel Football, disciplina in cui la mentalità vincente è fiorita nei centri industriali del Vecchio Continente. È proprio l’applicazione dello spietato metodo imprenditoriale nel Calcio ad aver prodotto successi, lavorati come in catena di montaggio, da “accantonare” appena fabbricati, e fabbricati ad ogni costo, possibilmente il più basso. Se per l’icona bianconera Boniperti «alla Juventus vincere non è importante ma è la sola cosa che conti», anche a costo di festeggiare un Coppa dei Campioni con dei cadaveri all’esterno di uno stadio, un motivo ci sarà. Se per Berlusconi è prioritario ostentare sulle maglie del Milan una patch con le sette Coppe dei Campioni vinte, un motivo ci sarà. Se Massimo Moratti si è svenato di oltre un miliardo di euro nell’arco della sua quasi ventennale presidenza dell’Inter, pur di cancellare la fama di perdente che si era costruito, un motivo ci sarà. Le varie proprietà di Juventus, Milan e Inter coincidono nel tempo con la maggiore nomenclatura imprenditoriale italiana, quei Rizzoli, Agnelli (intere generazioni), Moratti (padre e figlio) e Berlusconi che hanno compreso il ruolo veicolante del Calcio per la creazione di identità moderne e produttive.
Napoli, che piaccia o no, è un’altra piazza, un’altra Italia. Solo 15 podi in 72 stagioni in Massima Serie (2 volte primo, 5 volte secondo, 8 volte terzo), e la sua tifoseria di oggi non tiene conto del dato storico, migliorato dall’azzurro di Maradona con 5 podi (5 trofei) e da quello del contestato De Laurentiis con altri 3 (3 trofei), i due più vincenti della storia. Roma non ha fatto meglio, coi 21 podi giallorossi (in 85 campionati) e i 13 biancocelesti (in 75 campionati). Risparmio al lettore la quantità di podi, non di scudetti, delle squadre di Milano e Torino.
Napoli, come Roma, è piazza che non sa vincere, perché ogni importante battaglia vinta non l’archivia immediatamente, come in catena di montaggio, ma si abbandona a lunghe euforie che abbassano la soglia di concentrazione rispetto ai successivi impegni in guerra. Napoli, come Roma, è piazza che non sa neanche più perdere, perché se ci lascia le penne è colpa di chi non fa qualcosina per appagare la convinzione di meritare di più, dimenticando tout court le svantaggiose condizioni economico-sociali del territorio.
Sacchi, dunque, ha ragione, e c’è poco da risentirsi. Ma quel poco ha il suo perché proprio nella figura di Sacchi, uno baciato in fronte dalla fortuna. Arrivato al Milan dalla provincia senza aver fatto nulla di straordinario oltre a rifilare due sconfitte al ricco e rampante Berlusconi. Uno che ha vinto tanto in rossonero, dando spettacolo, ritrovandosi addosso la fama di miglior allenatore italiano di tutti i tempi. Lo fece in soli tre anni, complice il tasso tecnico messogli a disposizione dall’allora Cavaliere e il temporaneo sfarinamento del Napoli più vincente della storia, che gli regalò uno scudetto e lo lanciò nell’olimpo della Coppa Campioni. È lì, nel torneo continentale più importante (e molto più facile di quello di oggi), che costruì il suo mito, visto che nei successivi 3 campionati italiani si piegò a Trapattoni, Bigon e Boskov. Sacchi introdusse l’esasperazione del ritmo e del movimento senza palla, ma soprattutto la figura del preparatore atletico, vero segreto che gli consentì di far correre i suoi più di tutti, prima di tutti. Quando quella figura fu adottata dall’intero scibile calcistico, Sacchi finì di veder sfrecciare i suoi in campo con una marcia in più. Se ne andò a guidare la Nazionale, e per poco non vinse un mondiale senza nulla fare e con un Baggio in più, macchiando la fama che si era costruito con quella nuova e meno lusinghiera del “cul de Sac”. Risultati assai modesti a seguire, anche in Spagna e poi ancora in Italia. Il troppo stress lo portò al ritiro. Magari frustrazione da insuccessi per un uomo che aveva vinto tanto in poco tempo, il signor nessuno divenuto “il profeta di Fusignano” e chiamato a dover dimostrare di essere un vincente. Chi lo aveva sostituito al Milan [Fabio Capello] vinse più di lui, senza prendersi alcuna benemerita etichetta.
Non che si intenda sminuire chi ha saputo dettare un cambiamento del Calcio, ci mancherebbe. Ma quel cambiamento fu attuato senza applicare la cultura della sconfitta. Il Milan di Sacchi sapeva vincere ma non perdere, e toccò livelli di fair-play molto bassi. Come non ricordare il pareggio-qualificazione della vergogna nei quarti di finale della Coppa Italia 1989/90 contro l’Atalanta grazie a un rigore guadagnato (e trasformato) con una rimessa in campo non restituita agli orobici, mentre Sacchi se ne lavava le mani e si prendeva le invettive del collega Mondonico. Come non ricordare quel Verona-Milan dell’Aprile 1990 che consegnò lo scudetto al Napoli, quando, dalla panchina, Arrigo urlò di tutto all’arbitro Lo Bello, costretto ad espellere lui e tre furibondi rossoneri. Il suo Milan chiuse nella vergogna il meraviglioso ciclo europeo la sera del 20 Marzo 1991 quando, sotto di un goal a Marsiglia, abbandonò il campo per lo spegnimento di un riflettore, presto riattivato. Eppure, Sacchi e il suo Milan, il fair-play e la cultura della sconfitta li avevano conosciuti proprio nel Maggio del 1988, espugnando il “San Paolo” e soffiando lo scudetto al Napoli. 80.000 napoletani si alzarono in piedi e tributarono uno scrosciante applauso ai vincitori (quello sì che era un pubblico che sapeva perdere). Due anni dopo, a parti invertite, da casa Milan piovvero solo veleni sul Napoli per la monetina di Bergamo, nonostante i 2 punti finali di vantaggio degli azzurri.
Cosa c’entra la mentalità vincente con la lealtà sportiva? C’entra, quando vittoria ad ogni costo significa calpestare l’etica. Sacchi frequenta oggi i salotti televisivi in qualità di opinionista, trasformandosi spesso a sproposito in educatore. Ha ragione a dire che a Napoli non c’è mentalità vincente ma è bene che non dimentichi che lo stimato Benitez ha fallito anche a Milano, con l’Inter, perché Moratti chiuse il portafogli dopo essersi svenato per vincere la Champions League. La crisi della raffinazione a livello europeo aveva avviato la spirale negativa dei bilanci in rosso della sua Saras. Sine pecunia ne cantantur missae. Se ne sta accorgendo anche l’ultimo Berlusconi, falciato dal lodo Mondadori. E se questo a Napoli è normale, a Milano lo è un po’ meno. A proposito di mentalità vincente.

Dov’è la vittoria, a “San Paolo Show” anteprima con dibattito

Dov’è la vittoria, in uscita il 13 maggio in libreria, presentato in anteprima a San Paolo Show, la trasmissione di Tv Luna condotta da Paola Mercurio. Coinvolti nel dibattito che ne è nato anche Beppe Bruscolotti, Patrizio Oliva, Rino Cesarano, Massimo D’Alessandro e Angelo Pompameo.

25 anni fa lo scudetto dei veleni. Festa a Napoli e ira a Milano.

29 aprile 1990 – 29 aprile 2015: 25 sono gli anni trascorsi dal secondo e ultimo scudetto del Napoli. Un quarto di secolo, un periodo in cui solo Roma e Lazio, indebitandosi fino al collo, sono riuscute a portare altri due scudetti nel sud del Calcio.
Quello del 1990 fu lo scudetto dei veleni, uno scontro tra Nord ricco e Sud guastafeste, tra organizzazione ed estro. Vinsero Maradona e compagni, in situazioni poco chiare e tra strane dinamiche su ambo i fronti. Monetine (ininfluenti) e goal fantasma a far da sfondo a un finale di stagione pre-Mondiali culminato nell’ira di Berlusconi e soci, che non riconobbero la vittoria degli avversari, loro che due anni prima avevano trionfato tra gli applausi e la legittimazione dei napoletani, pur delusi da uno scudetto gettato alle ortiche. Il team manager Silvano Ramaccioni, in diretta tivù nazionale, affermò di non riconoscere “lo scudetto napoletano della slealtà”. Il regolamento della responsabilità oggettiva vigeva da anni ed era stato applicato più volte in precedenza, ma l’episodio interessò la lotta per lo scudetto tra una squadra ricca e potente del Nord e una straordinariamente forte del Sud. Vinse la seconda e la normativa fu rivista sulla scia dell’ira di Berlusconi e Galliani, ancora oggi influenti nelle scelte della giustizia sportiva (cancellazione chiusura settori per discriminazione territoriale).
Quello storico tricolore decretò la chiusura del grande ciclo del Napoli (anche se ne seguì una roboante vittoria in Supercoppa contro la Juventus) e la fine di un duello acerrimo e velenoso col nuovo potere berlusconiano, in forte ascesa. Dietro quel confronto sportivo tra Napoli e Milano (con l’Inter terzo incomodo) si addensano ancora oggi nubi nere: accuse di scudetti venduti e scommesse clandestine, di arbitri schierati; confessioni camorristiche di manovre politiche pro-Milan e di accordi di palazzo pro-Napoli (dettagli e approfondimenti sul mio saggio Dov’è la Vittoria di prossima uscita). Un’epoca così lontana, eppure così attuale. Anzi, eterna. Un’epoca riassunta in una dedica più recente di Maradona ai napoletani: «Abbiamo vinto contro tutto e tutti».

DOV’È LA VITTORIA – le due Italie nel pallone

Dov’è la Vittoria – Le due Italie nel pallone (Aspetti sportivi della malaunità politico-economica) è un saggio di indagine sulle cause delle differenti performance sportive dei movimenti calcistici del Nord e del Sud d’Italia, inquadrate nell’ottica del divario interno italiano su cui convergono da sempre la politica e la finanza nazionale, e approfondisce le dinamiche oscure che – da sempre – regolano il “dietro le quinte” del Calcio italiano.

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copertina Edizione 2015

Il Calcio italiano fa i conti con la sua credibilità. È influenzato, in modo fin troppo evidente, dalle pulsioni che attraversano la nostra società: le crisi economiche, i giochi della finanza, la corruzione politica, la sfiducia nelle istituzioni, le polemiche sui giudici (arbitri), le strutture inadeguate, l’insicurezza, i localismi, l’intolleranza. E poi, il divario Nord-Sud. L’Italia continua a non perseguire una vera unità e il suo divario interno, che è un unicum nel panorama dei paesi economicamente avanzati, continua a squilibrare anche il movimento calcistico nazionale. Insomma, il Calcio italiano, di fatto, riflette perfettamente la condizione del Paese, il suo regresso, che è anche, e soprattutto, causato dalla sua divisione interna che lo indebolisce.

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copertina Edizione 2017

La centocinquantennale “Questione meridionale” è un aspetto latente e mai analizzato a fondo – eppure assai decisivo – del Pallone italiano, dominato storicamente da tre squadre del Nord, espresse dal “triangolo industriale”, che sfruttano i vantaggi di localizzazione e attingono dal serbatoio di passione del Centro-Sud, un’altra forma di emigrazione meridionale, diversa da quella fisica di studenti e lavoratori. Sull’altro fronte, solo il Napoli e le squadre di Roma riescono a competere, a cicli alterni e diradati nel tempo.
Perché il Nord ha vinto più di 100 scudetti mentre il Sud non è arrivato neanche in doppia cifra? Perché le squadre del Sud faticano ad affacciarsi alla Serie A? Come hanno fatto le squadre settentrionali a prendere il pallino del gioco? E come l’hanno mantenuto? Cosa ha consentito a Cagliari, Napoli, Roma e Lazio di raccogliere le briciole lasciate dalle squadre del Nord? Perché Juventus, Milan e Inter sono squadre “nazionali”? E perché sono le più amate ma anche la più odiate? Perché il Napoli gode di una passione smisurata ed è considerata la vera nazionale dal suo popolo? Quando e come nasce la discriminazione territoriale? Chi ha manipolato la passione degli italiani? Tutti quesiti cui dare adeguate risposte, individuabili con una macrovisione dello show-business, fondamentale per comprendere il significato del fenomeno calcistico nella vita della Nazione unita e nel contesto storico, politico ed economico d’Italia.
La squadra più vincente d’Italia è legata a una famiglia piemontese che ha fatto la storia dell’industrializzazione italiana del Novecento. È una delle squadre di Torino, prima capitale del Regno e città dei Savoia, la dinastia che forzò un più corretto percorso di Unità nazionale e “piemontesizzò” la Penisola nel secondo Ottocento. Mentre si realizzava l’Unità geografica, in Inghilterra nasceva il Foot-ball, lo sport che, come tutti i costumi britannici, sarebbe divenuto uno strumento di affermazione egomonica della “Perfida Albione” nel mondo. Il Regno Unito, che esercitò la sua forte influenza nel piano sabaudo di unificazione monarchica della Penisola, avrebbe caricato i palloni da calcio a bordo delle proprie navi piene di merci e li avrebbe portati nei porti di mezzo mondo, compresi quelli italiani, importanti nella rotta verso il nuovo Canale di Suez, realizzato per accorciare le distanze con l’Oriente. Non a caso il Foot-ball di casa nostra vide la luce a Torino e in quella Genova che ne era il principale sbocco sul mare, per poi abbracciare Milano. Il “loro” campionato fu precluso alle squadre del Sud per circa trent’anni e l’Albo d’Oro contempla scudetti esclusivamente settentrionali, siglati prima che il Ventennio fascista aprisse la contesa anche al resto del Paese, procurando fastidio al movimento di quel Settentrione che nel frattempo riceveva massici favori nell’industrializzazione. Il dopoguerra consacrò il Calcio industriale. E oggi cosa accade?
Dov’è la Vittoria è un’indagine a carattere storico-sociologico-antropologico supportata da studi di economisti, docenti universitari e istituti di ricerca, per individuare le cause delle differenti performance sportive dei movimenti calcistici del Nord e del Sud d’Italia, inquadrate nello scenario del divario interno italiano. Anche attraverso la ricostruzione dei maneggi oscuri nel “dietro le quinte” della grande passione degli italiani – su cui convergono la politica e la finanza nazionale – ne viene fuori una fotografia del Calcio tricolore che illustra con completezza un aspetto poco dibattuto dell’annosa “Questione meridionale”. I veri protagonisti sono l’Italia e gli italiani, che in realtà non esistono, e trovano anche nel Football un linguaggio comune per dimostrarselo.

Capitoli

  1. Un affare da “screanzati” – prefazione di Oliviero Beha
  2. Divide et impera – introduzione dell’autore
  3. Una Questione nazionale – il divario Nord-Sud
  4. Prima il Nord – la Federazione con la palla al piede
  5. Fatta l’Italia, facciamo i tifosi – il tifo nel Paese dei campanile
  6. Sudditi di Sua Maestà – impronte anglosassoni sul pallone
  7. Stringiamci a Coorte – il triangolo Genova-Torino-Milano
  8. Il Regno d’Italia – il matrimonio Juventus-Fiat
  9. Fratelli d’Italia – la discriminazione territoriale
  10. Libera frode in libero Calcio – un secolo di scandali italiani del pallone
  11. L’Italia chiamò – il maxiflop nazionale dei Mondiali ‘90
  12. Siam pronti alla morte – conclusioni dell’autore

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► Intervista su iogiocopulito.it de Il Fatto Quotidiano

Se ne va Re Giorgio, garante dei poteri forti d’Europa

Angelo Forgione – Ha lasciato il Quirinale l’undicesimo Capo dello Stato, dal 1948 ad oggi. Otto anni e sette mesi, il periodo più lungo di presidenza, in cui la Costituzione del nostro Paese ha subito continui stravolgimenti e manomissioni. Giorgio Napolitano avrebbe dovuto essere il garante della Costituzione e invece ha avallato tutte le violazioni più gravi della sovranità del Parlamento, firmando una serie di leggi inique e decreti che sono stati annullati dalla Consulta perché evidentemente non costituzionali. È uscito più volte dal seminato del terreno costituzionale che aveva giurato di rispettare.
Nel nostro ordinamento, la figura del Capo dello Stato fu pensata dai padri costituenti come quella di un arbitro, di un soggetto estraneo alle sfide tra le forze politiche, in quanto supremo garante del funzionamento della democrazia parlamentare. Napolitano è invece intevenuto nel dibattito tra le forze democratiche del Paese, prendendo posizione nei confronti di questo e quel partito; ha agito da vero e proprio attore politico, condizionando pesantemente l’azione dei partiti in momenti delicatissimi in cui egli avrebbe dovuto attenersi al ruolo di silenzioso osservatore. Ha preso a riunire presso di sé i capigruppo della maggioranza, una prassi che nessun suo predecessore aveva mai adottato. Ha interagito direttamente con gli altri organi costituzionali a carattere decisionale (il Parlamento e l’Esecutivo) al fine di orientarne le scelte fondamentali, intimando loro l’adozione di precise scelte politiche attorno a questioni fondamentali in materia macroeconomica. E così ha decretato la fine del Governo Berlusconi e la successione a Palazzo Chigi, imponendo la formazione senza elezioni del Governo dei banchieri a guida Mario Monti (novembre 2011). Perché Napolitano non è stato supremo garante degli interessi del popolo italiano bensì il curatore degli interessi del capitalismo finanziario europeo e dei suoi organismi tecnocratici. Se l’Europa ci ha imposto serenamente stangate e austerità è grazie a Re Giorgio, che nel frattempo si aumentava lo stipendio. Il fallimento di Monti è stato surrogato dal Governo Letta, che ha fatto anche peggio del predecessore. Eppure Napolitano ha provato a tenerlo in piedi in ogni modo prima di affidare le redini dell’Esecutivo a Matteo Renzi. Tre governi non della Repubblica ma del Presidente. Dunque, la prassi di Napolitano suggerisce l’immagine di un Capo dello Stato che ha perseguito un indirizzo politico e, soprattutto, un preciso obiettivo sovranazionale con tutti i mezzi a sua disposizione. Tutto apparentemente normale, se non fosse che un Capo dello Stato non può avere indirizzi e obiettivi politici.
È importante sottolineare che, nell’arco di questi nove anni o quasi di presidenza, Napolitano si è reso protagonista della richiesta al C.S.M. della distruzione delle scottanti intercettazioni con Mancino che lo vedevano come (indiretto?) protagonista; ha intimato a Berlusconi (nel 2011) di dare il suo pieno avallo ai bombardamenti NATO sulla Libia di Gheddafi; ha condotto i festeggiamenti per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia con una retorica stomachevole; non ha mai sollecitato delle politiche di riduzione del divario tra Nord e Sud del Paese; ha taciuto sul dramma della Terra dei Fuochi, lasciando senza risposte le mamme orfane dei loro figli, proprio lui che nel 1997, da ministro degli interni, aveva fatto secretare le dichiarazioni del pentito Carmine Schiavone.
Si chiude una brutta stagione. Il monarca stanco, forse il peggior Capo dello Stato che l’Italia abbia mai avuto, se ne va, lasciando il Paese sull’orlo del baratro.

Il pioniere della TV privata prova “Made in Naples” in 3D

gregorioAngelo Forgione – L’ingegner Pietrangelo Gregorio, primissimo pioniere dell’emittenza privata in Italia, ha dedicato a Made in Naples una prova tecnica di trasmissione tridimensionale del sistema Stereoglobal/G da lui inventato per consentire la trasmissione e la visione di programmi in 3D senza l’ausilio della banda larga, ovverso su comuni canali del digitale terrestre.
Alla storia di Pietrangelo Gregorio, osso duro per Berlusconi negli anni Ottanta e da sempre mente lucida del territorio campano, ho dedicato un intero capitolo sul mio libro, descrivendone le vicende e il ruolo primario nella storia dell’emittenza televisiva nazionale e anche europea. L’uomo dalle tante invenzioni sta sperimentando su TeleCapri e TeleCapriNews la tecnologia “low-cost” da lui creata, basata sulle convergenza oculare e sulla stereopsi composita, e si prepara all’ormai prossima inagurazione con cui Napoli, a tutti gli effetti, conseguirà ufficialmente un nuovo primato, stavolta in ambito tecnologico.

la visione del video in 3D, comunque non ottimale a causa della qualità compressa del video sul web, richiede l’uso di comuni occhialini con cromia rossa e azzurra.

L’ammuina elettorale

Cosa non si fa in campagna elettorale!? Cosa si è inventato il Partito Democratico, per screditare i propri avversari politici? Ha rispolverato uno dei più abusati luoghi comuni antistorici e antinapoletani: il presunto articolo 27 della Real Marina delle Due Sicilie “Facite ammuina”.
Tocca ripetersi nuovamente e ricordare che l’articolo non è mai esistito e che fu creato ad arte (leggi la vera storia) per infangare la memoria storica napoletana e meridionale. Lo stesso accade oggi, per diversi fini. Stavolta, per sconfiggere Berlusconi l’illusionista… borbonico. Votate gente, votate!

d.gentile@partitodemocratico.it

Biblioteca Girolamini: il Comune di Napoli parte civile, il MIBAC no!

L’emblematica vicenda della spoliazione della biblioteca dei Girolamini si arricchisce di nuovi succulenti episodi. Il senatore Dell’Utri è stato inserito nel registro degli indagati per concorso in peculato. Avrebbe ricevuto, per intesa preventiva, alcuni dei numerosi volumi sottratti dalla Biblioteca dall’ex direttore Marino Massimo De Caro. Qualche settimana fa, Silvio Berlusconi aveva dichiarato a “Servizio Pubblico” che Dell’Utri è una persona perbenissimo, cattolico, il numero uno dei bibliofili italiani. A quell’affermazione, qualche napoletano consapevole (compreso chi scrive, ndr) fu colto da un moto di rabbia corrosiva interiore.
E mentre il Comune di Napoli si è costituito parte civile al processo per il saccheggio, il Ministero per i Beni Culturali ha evitato di farlo. Il 3 Gennaio, il MIBAC annunciò di volerlo ma poi è scaduto il termine. Si vocifera che sia mancata l’autorizzazione della Presidenza del Consiglio. Perché? Facile immaginare che qualcuno di potente abbia fatto valere il suo peso.
Bel modo di governare che è quello all’italiana. Il ministro Ornaghi non ha mai chiesto scusa per l’increscioso accaduto. Marino Massimo De Caro, suo consigliere personale, fu designato alla direzione della Biblioteca dei Girolamini grazie ad un “nulla osta” del suo ministero. Istituzione che ha perso l’occasione per fare il suo dovere, già ampiamente venuto meno: tutelare il patrimonio culturale. E poi vediamo i monumenti italiani crollare.

Sgarbi “scambia” Sloan per napoletano tra risse e nervosismo

Nuovo trash-show al “Cristina Parodi Live” dove già qualche settimana fa era andata in scena la performance di Michaela Biancofiore.
Si parla di Berlusconi e prostituzione minorile e, Vittorio Sgarbi, un abituè delle risse televisive, si scalda per una domanda di John Peter Sloan: «Tu che difendi così il Cavaliere, ci sei mai stato alle cene di Arcore?». E il focoso critico d’arte va in ebollizione, visibilmente infastidito dalle idee e dalla veemenza dell’interlocutore. inglese di Birmingham, che Sgarbi “scambia” per napoletano. Notevole anche il ruolo da co-protagonista di Cristina Parodi che, tradendo un certo nervosismo, zittisce solo Sloan con uno «shut up!» (stai zitto!) di cattivo gusto, invitando Sgarbi a capire l’indole dell’amico inglese.
Sloan avrà preso il sarcasmo di Sbarbi per un complimento, lui che tifa Napoli perché, lavorando come cantante sulle navi da crociera, ha apprezzato la passione dei napoletani dell’equipaggio. «Vedere la loro felicità quando il Napoli vinceva, una gioia che ripagava la tanta fatica del loro duro lavoro, era uno spettacolo – ha detto in un’intervista l’artista britannico – e così sono diventato un simpatizzante degli azzurri».

Fanghi tossici del Nord e rifiuti di Milano nel Casertano

Angelo Forgione – L’avvelenamento sistematico delle terre della Campania, e quindi dei suoi abitanti, continua senza sosta. Qualche giorno fa la Squadra Mobile di Caserta ha sequestrato a Trentola Ducenta un’area agricola, ancora oggi coltivata a ortaggi, trasformata in cimitero di veleni. L’attività investigativa ha portato alla luce l’esistenza di una vera e propria associazione criminosa ben integrata al clan dei Casalesi che sversava nel Casertano materiale di provenienza industriale dal Nord, arricchito da metalli pesanti altamente tossici quali cadmio, cromo e arsenico. Tutto finito nella falda acquifera e nei prodotti, quindi anche sulla tavola dei consumatori.
Nell’informativa che riassume le indagini del centro DIA di Napoli emergerebbe lo smaltimento illegale risalente al 2003 di circa 6.000 tonnellate di rifiuti urbani del “Consorzio Milano Pulita”. E viene in mente l’emergenza rifiuti di Milano nel 1995 e le parole dell’ex-sindaca del capoluogo lombardo Letizia Moratti che nel 2009 si recò ad Acerra con Berlusconi per inaugurare il discusso inceneritore. ”La Milano che è oggi qui a Napoli, è la Milano che mette a disposizione le sue tecnologie e le sue competenze in materia di innovazione…”, disse la Moratti che si vantò di aver portato la tecnologia lombarda ai campani mentre Bassolino e Iervolino erano lì a guardare. In realtà gli inceneritori sono conosciuti a Napoli almeno dal 1937, quando li proponeva la IFIR “Industria Forni Inceneritori Rifiuti” di Napoli con sede in Piazza S. Domenico Maggiore (fonte G. Bonelli). Ma questa è un’altra storia. O forse no.