Napoli vs Juventus, c’è tutta la storia d’Italia dentro. Alle origini della rivalità.

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Angelo Forgione  per Napoli giornale gratuito  Sì, c’è una storia dentro Napoli-Juventus che trascende il perimetro del rettangolo di gioco e finisce per spiegare perché sotto il profilo sociale è la partita più significativa del calcio d’Italia, cioè della nazione spaccata economicamente in due. Al principio sta la storia stessa del calcio italiano, ingabbiato a fine Ottocento nel “triangolo industriale”, l’area di maggior concentrazione di sviluppo racchiusa tra Torino, Genova e Milano, sorto grazie alle politiche attuate dopo l’Unità d’Italia per stimolare la crescita del Nord-ovest a detrimento del Sud. Il football, la nuova moda inglese, calzava perfettamente alle nuove élite borghesi di quel territorio per ostentare modernizzazione e benessere. Torino, nel 1898, partorì la Federazione, l’attuale FIGC, quantunque il pallone si calciasse dappertutto, e lo fece per impossessarsi del gioco, organizzando campionati detti italiani, ma che in realtà erano piccole competizioni interregionali di Piemonte, Liguria e Lombardia. Tutto il resto del Paese non era invitato, anche se di squadre ce n’erano pure in Sicilia, ma al Nord nessuno aveva intenzione di prendere un treno per andare a giocare laggiù, figuriamoci una nave. Il calcio, insomma, rispecchiava la spaccatura sociale ed economica creata dopo l’Unità, e così fu creato anche nello sport un gap tecnico fortissimo, contro il quale il Sud protestò vivacemente, ottenendo una riforma pro-forma, la Vavassori-Faroppa del 1912, utile solo a calmare le forti rimostranze capeggiate dall’Unione Sportiva Napoli.
Solo nel 1926, per volontà del regime fascista, il Coni impose la vera nazionalizzazione del calcio attraverso la “Carta di Viareggio”, consentendo alle squadre di Roma e Napoli di competere direttamente con le squadre di Torino e Milano, piegate malvolentieri alle volontà politiche. Non gli bastava aver accumulato vantaggio tecnico e di impiantistica, e pure decine di scudetti. Il Genoa, ad esempio, aveva già vinto tutti i suoi 9 campionati, praticamente uno in più di quelli conseguiti fino ad oggi da Roma, Lazio, Napoli e Cagliari messe insieme. La provinciale Pro Vercelli, sempre del “triangolo”, ne contava 7, il Milan 3 e l’Inter 2, come la Juventus, che soli tre anni prima era stata acquistata dalla famiglia Agnelli, cioè dalla Fiat, la fabbrica più rilevante e privilegiata d’Italia. Prima aveva addirittura rischiato di sparire, esattamente nel 1913, quando la retrocessione nella seconda categoria aveva consigliato ai soci di sciogliere il club in difficoltà economiche, ed era stata salvata con un ripescaggio con l’artificio dell’iscrizione nel girone della Lombardia. A colpi di retrocessioni e ripescaggi delle squadre dell’altra Italia, nel 1929 fu decretata la nascita della Serie A a girone unico, ma la distanza tra il calcio del Nord e quello del Sud continuò inevitabilmente a rispecchiare la disunità italiana. La Juventus, sostenuta dai capitali Fiat, fu trasformata in vetrina dell’azienda. Doveva vincere per mostrare prestigio, e iniziò a farlo con frequenza, mettendo in fila cinque scudetti, che attrassero sostenitori tra la buona borghesia torinese. Ma il vero boom del suo seguito esplose negli anni del “miracolo economico” italiano, dopo che i finanziamenti americani del Piano Marshall ebbero ricostruito le fabbriche del Nord distrutte dalla guerra e trascurato la crescita industriale del Sud. La Fiat fece la parte del leone col 50% dei crediti nel settore meccanico, grazie al patto con Clare Boothe Luce, ambasciatrice americana in Italia, forte oppositrice del comunismo italiano, che ottenne garanzia del licenziamento degli operai comunisti. La casa torinese ripartì alla grande e ottenne anche commesse negli Stati Uniti. Si realizzò allora la più grande migrazione di massa mai verificatasi nella Penisola: milioni di persone si spostarono dal Mezzogiorno, abbandonando la povertà per andare a lavorare al Settentrione. Pugliesi, siciliani, calabresi, campani, lucani e sardi fecero di Torino una città meridionale di dimensioni paragonabili a Palermo, ma non furono ben accolti dalla gente del luogo. All’esterno dei palazzi trovarono cartelli su cui c’era scritto “non si fitta ai meridionali”. Oltre a un tetto difficile sotto il quale dormire, dovettero trovare anche un modo per combattere l’emarginazione e persino il razzismo, nonostante fossero pronti a contribuire massicciamente alla crescita economica del territorio. Il calcio divenne un pretesto per farsi accettare, il veicolo più immediato per sentirsi più integrati. Molti sposarono i colori della Juventus, mentre il Torino restò la squadra dei torinesi. La famiglia Agnelli intercettò il sentimento e ricambiò con furbizia, offrendo agli operai meridionali un’immagine familiare. E così, a suon di milioni, mise in squadra il catanese Anastasi, il sardo Antonello Cuccureddu, il siculo-campano Giuseppe Furino, il salentino Franco Causio e altri calciatori meridionali, i cosiddetti “sudisti del Nord” a contribuire ai cinque scudetti juventini degli anni Settanta che accrebbero il seguito bianconero. La juventinità fu trasferita agli appassionati rimasti al Sud, soprattutto ai parenti degli emigranti, sui quali fece facilmente presa tutto ciò che comunicava il miraggio della ricchezza e del successo settentrionale.

La Juve distanziò Inter e Milan per scudetti e proselitismo, e sul suo blocco fu costruita la Nazionale che vinse i Mondiali del 1982, quando fu completata la definitiva saldatura tra il calcio e gli italiani, ma anche tra gli italiani e la Juventus, il cui nome non era quello di una città e attenuava l’associazione tra la squadra e il suo territorio. Al Sud, dove non solo era difficile vincere ma persino partecipare, si riempì il carro dei vincitori, soprattutto lontano dai nuclei di Napoli e Roma, e lo juventinismo attecchì nei piccoli e medi centri impossibilitati ad emergere nel calcio. Oggi, in quei territori, è pieno di tifosi che hanno scelto e continuano a scegliere le squadre più blasonate, Juventus su tutte, rifiutando di legarsi in età infantile alle squadre delle proprie città per non condannarsi all’impossibilità di recitare una parte da protagonista in pubblico.
Ecco perché nessuna squadra è tanto amata e sostenuta quanto la Juventus. Circa il 35 per cento dei tifosi italiani sono bianconeri, cioè uno su tre, e sono distribuiti in tutta la Penisola. Ma si tratta anche della squadra più detestata, perché alcune sue vittorie sono state macchiate da macchinazioni accertate e anche annusate, da clemenza degli arbitri e pure da boriosità da parte dei suoi dirigenti, i quali hanno pensato bene di sdoganare il diseducativo motto “alla Juventus vincere non è importante, è la sola cosa che conta”, una filosofia che con lo sport e la cultura della sconfitta condivide poco, che fa della squadra un’azienda volta alla supremazia sulla concorrenza interna, proprio come la Fiat. E in effetti le vittorie della Juve non rappresentano un prestigio endogeno ma appartengono agli Agnelli/Elkann. Non c’è altro club di un certo prestigio che abbia un’identificazione così antica con la sua proprietà. Juventus e Fiat è il matrimonio tra calcio e industria più forte e duraturo del panorama sportivo internazionale. Un club così “nazionale” è detestato soprattutto nei centri di forte identità territoriale, dove è più importante il senso di appartenenza, come nella piccola Firenze, nella grande Roma e, soprattutto, nella monoteista Napoli, dove la squadra è culto unico. I tifosi azzurri rappresentano circa il 15 percento dell’intera passione nazionale, quasi quanto i milanisti e gli interisti, ma sono in gran parte concentrati nel territorio campano. Il Napoli è il riferimento sportivo di una vasta provincia che, con i suoi 3 milioni di abitanti circa, è la terza d’Italia per popolazione, e non condivide il territorio con nessuno, diversamente da quanto accade a Roma, Milano, Torino e in tutti i maggiori centri del Vecchio Continente. Se a Torino vi sono il torinista e lo juventino, a Milano il milanista e l’interista, a Roma il romanista e il laziale, a Napoli esiste solo il napoletano, e non c’è bisogno di un “napolista”. L’appartenza calcistica e la cittadinanza, a Napoli, combaciano per sovrapposizione e si unificano, schiacciando le pur esistenti minoranze, quella juventina compresa. Tutto ciò spiega antropologicamente perché Napoli e i napoletani nutrano forte avversione ai colori bianconeri. Napoli-Juventus è da sempre la sfida tra due mondi distanti, tra chi tifa per un club che appartiene soprattutto a una città e chi tifa per un club che appartiene a tutti, cioè a nessuno; è la sfida tra chi vuole essere e chi vuole avere. Il napoletano, spesso, prova amore per Napoli. Lo juventino non ha alcuna necessità di amare Torino. Il napoletano è integralista, e diventa pure fondamentalista quando conosce tutta questa storia, e sa anche che la sua città è quella che più di tutte ha pagato la squilibrata unità d’Italia, l’antica capitale dei primati sociali che, oltre ai ministeri, ha perso il suo iniziale sviluppo industriale a favore del “triangolo industriale”, ed è oggi afflitta da drammatici problemi sociali. Il fondamentalista napoletano sa che lavoro e scudetti sono più facili a Torino, e traduce la Juventus nel simbolo sportivo dello sfruttamento dei ricchi sul proletariato meridionale al Nord.
Ma mo’ pure ‘o scudetto s’è scocciato d’ ‘e mmuntagne; dice ca vulesse vedé nu poco ‘o mare.

Il sarrismo napoletano al top in Europa, secondo il sereno Guardiola e il nervoso Allegri

Angelo Forgione «Mi piacerebbe vedere 11 facce di ca**o che abbiano la presunzione di palleggiare in faccia al Manchester City». Una parola forte in un concetto fortissimo che spiega il sarrismo. La verità è che Maurizio Sarri è uomo di poche parole e qualche parolaccia, che gli torna utile per entrare nella testa dei suoi calciatori. Fa parte proprio del sarrismo, sgarbato con il lessico ma molto rispettoso del calcio e del pubblico che paga per lo spettacolo. Diseducativo per il linguaggio dei giovani, ma maledettamente ed efficacemente evolutivo per il football. Il fatto è che, nell’era del calcio televisivo, le conferenze stampa e le interviste in quantità industriale inchiodano le svirgolate. E allora qualcuno storce il naso, come quando Sarri diede del «frocio» in campo a Roberto Mancini. Allora, a caldo, si disse che l’allenatore del Napolisi era giocato la reputazione. E invece eccolo ancora qui, a prendere elogi da Guardiolae da mezzo mondo per il gioco che ha dato agli azzurri… ma non dal non meno irriverente Allegri, anch’egli toscanaccio, per il quale lo spettacolo si fa al circo. Il rivoluzionario Pep esclama «wow» quando vede il Napoli mentre Max è talmente calato nel mondo Juve da sposarne in pieno il proverbiale “vincere è l’unica cosa che conta”.
Il dibattito è aperto, e Guardiola sembra averne centrato il cuore. «Il nostro mestiere dipende da quanti titoli vinciamo, ma questa è un’ingiustizia, perché ci sono tanti allenatori che non hanno la possibilità di allenare grandissimi calciatori che ti rendono la vita più facile». Allegri ha vinto senza deliziare al Milan e alla Juventus. Sarri sta provando a vincere a Napoli, che non è esattamente la stessa cosa, perché la squadra fattura decisamente meno delle tre strisciate, può investire meno e ha un monte stipendi pari a un terzo di quello della Juve. Per annullare i valori tecnici bisogna necessariamente passare attraverso la ricerca della perfezione estetica, e il fatto che la cosa minacci di riuscire sta mettendo in forte crisi nervosa Allegri e l’intero ambiente juventino, per cui vincere non è importante ma fondamentale, e allora figuriamoci quanto possa essere rilevante giocare bene.
La storia insegna sempre. Alla Juve, provò a coniugare vittorie e bel gioco tal Montezemolo negli anni Novanta, chiamato da Gianni Agnelli ad assumere la carica di vicepresidente esecutivo, determinando le clamorose dimissioni di Giampiero Boniperti, l’introduttore dell’antisportivo motto bianconero che rese dogma assoluto la vittoria. Per invidia dei trionfi del Milan di Sacchi, Montezemolo allontanò la leggenda Dino Zoff, tecnico dei trionfi in Coppa UEFA e Coppa Italia col metodo di gioco all’italiana, considerato démodé e sostituito con Gigi Maifredi, alfiere del gioco a zona totale. La rivoluzione produsse un disastro, col manager che, dopo aver rovinato i Mondiali, prima scaricò il prescelto e poi abbandonò la nave, a conclusione di una stagione fallimentare: fuori dalle coppe europee per la prima volta dopo 28 anni. Nel 1994 prese le redini Umberto Agnelli, il quale, dopo otto anni di vacche magre, inaugurò l’era degli scandali pur di tornare a vincere, e lo fece non solo con gli investimenti ma anche col doping e con la “cupola” calcistica, e non certo con il bel gioco.
In fondo, se vincere è l’unica cosa che conta, perché mai bisognerebbe vedere una partita invece di apprendere semplicemente il risultato finale?

Il disturbo dello juventino campano che “segue” il Napoli

juve_sudAngelo Forgione Piccolo siparietto televisivo apparentemente insensato che invece è utile spunto di riflessione su un sottovaluto aspetto economico della Questione meridionale.
È una costante delle trasmissioni sportive napoletane dedicate al filo diretto con i tifosi: lo juventino di Napoli e dintorni, della Campania in generale, che irrompe in diretta per affermare la propria fede, spesso con fare becero per creare solo disturbo. Gente che le trasmissioni di dibattito partenopeo le guarda con costanza quotidiana, perché in fondo si tratta di tifosi che non riescono a risolvere un conflitto interiore. Hanno iniziato a tifare per la Juventus in età infantile, magari per affermarsi tra gli amichetti, e in età adulta non riescono ad avere sufficiente personalità per gestire l’affermazione dell’identità territoriale cui appartengono, men che meno di rimettere in discussione la fede sportiva, processo troppo difficile anche per chi, da sostenitore bianconero, è attratto dalle trasmissioni in cui si dibatte del Napoli e di Napoli. Non c’è dubbio che si tratti di un vero e proprio disturbo della psiche. È un fenomeno evidente nelle tivù campane, tutto attinente alla juventinità locale, dacché milanisti e interisti non vi partecipano. È accaduto anche e a me, ospite alla trasmissione Club Napoli All News di Francesco Molaro. Si parlava di Napoli calcio ma soprattutto di Napoli città, tutto in chiave storico-identitaria, e all’improvviso faceva irruzione il più classico dei disturbati: «Pagate le tasse, e avrete servizi, voi napoletani», sbraitava il buontempone con accento campano, ma come se fosse lombardo o veneto. «Bisogna fare come la Juve, essere vincenti», diceva il disturbato per affermare la presunta superiorità juventina facendo leva sulle vittorie, che sono probabilmente il motivo per cui ha iniziato a tifare, da bambino di un’altra città, per una squadra che non rappresenta la sua identità territoriale, ammesso e non concesso che la Juve ne rappresenti una. Ed eccoci alla riflessione seria di tipo meridionalista sul fenomeno della “migrazione del tifo”, perché anche in questo modo, cioè attraverso i periodici sondaggi commissionati dalla Lega Serie A sulle dimensioni delle varie tifoserie, il Nord prende soldi al Sud. A beneficio di chi non lo sapesse, il 25% dei diritti TV è ripartito in base ai bacini di utenza, cioè traducendo in fette economiche – e sono tanti soldi – la gerarchia delle tifoserie dettata dalle scelte di fede sportiva dell’immensa platea di appassionati, i quali talvolta acquistano anche abbonamenti e biglietti allo stadio, nonché prodotti ufficiali del merchandising. Senza contare i soldi derivanti dal turismo sportivo, tra ristorazione e talvolta alloggio nelle città delle squadre del cuore. Danari spostati in altri territori, nella fattispecie a Torino e Milano, e lì reinvestiti. Va da sé che il tifo non sia un sentimento fine a se stesso ma una scelta individuale dalle conseguenze rilevanti sui destini dei club ma anche dei territori, e questo vale non solo per la Campania, feudo di tifo napoletano, ma per tutto il Sud, interamente “colonizzato” dalle tre big del Nord.

Agnelli e De Laurentiis, esempi opposti di approccio al tifo deviato

Angelo Forgione Giunge la sentenza del Tribunale nazionale della Federcalcio nel processo ad Andrea Agnelli per i rapporti non consentiti con gli ultrà: un anno di inibizione per il presidente della Juventus e ammenda di 300 mila euro per il club bianconero. Solo parzialmente accolte le richieste del procuratore della FIGC Pecoraro, in quanto il Tribunale ha ritenuto che il patron bianconero era inconsapevole del presunto ruolo malavitoso dei soggetti incontrati. Strano, però, visto che in un’intercettazione telefonica del marzo 2014 qualcuno disse ad Alessandro D’Angelo, addetto alla sicurezza allo Juventus Stadium, «Il problema è che questo ha ucciso gente», riferendosi al milanese Loris Grancini, capo dei Viking, personaggio vicino ai clan siciliani e calabresi. Gli inquirenti informarono che quel qualcuno era Andrea Agnelli, ma poi si è fatto complicato capire se si trattasse del presidente o di Francesco Calvo, ex responsabile del marketing bianconero. In ogni caso, di dirigenti della Juventus si trattava.
Intanto sappiamo che le risorse derivanti dal bagarinaggio favorito da Agnelli e Calvo sono andate alla criminalità organizzata. Chissà se un giorno riusciremo a sapere anche perché Raffaello Bucci, capo del gruppo ultras bianconero dei Drughi, assunto dalla Juventus come consulente esterno ufficiale di collegamento tra la tifoseria e il club, in contatto con la Digos e servizi segreti, si suicidò dopo l’interrogatorio dei piemme che indagavano sulla ‘ndrangheta allo Stadium.
Atteniamoci però alla sentenza del Tribunale federale. Agnelli sapeva che erano ultras ma non sapeva che erano mafiosi. Ma la Juventus, in ogni caso, si segnala ancora una volta per violazione delle norme federali, stavolta quelle che vietano ai dirigenti delle società sportive di intrattenere rapporti con gli ultrà. E prosegue la non edificante tradizione della famiglia Agnelli, soprattutto quella del ramo di Umberto, il padre di Andrea, che avviò nel 1994, non appena conquistata la presidenza del club e dopo 8 anni di digiuno del club, l’era più macchiata della storia juventina, tra scandalo doping (prescrizione) e calciopoli.
Alla luce delle certezze fornite dalla sentenza, vale la pena ricordare quel che accadde più a sud nel 2004, quando Aurelio De Laurentiis si mise alla guida della SSC Napoli e tagliò ogni laccio con i rappresentanti degli ultrà delle curve dello stadio San Paolo. Dopo poco più di due anni, nel dicembre 2006, la prima ritorsione eclatante. Campionato di serie B: nel bel mezzo di Napoli-Frosinone improvvisa pioggia in campo di potentissimi petardi “cobra”, lanciati dal settore Distinti. Le intemperanze durarono diversi minuti e costrinsero l’arbitro Orsato a sospendere più volte la gara. La giustizia sportiva inflisse poi una giornata di squalifica al San Paolo. Le indagini scoperchiarono un fenomeno estorsivo ai danni del Napoli e appurarono che il club di De Laurentiis aveva tagliato la fornitura di biglietti alle sigle ultras capeggiate da pregiudicati. Per tutta risposta, gli “esagitati” avevano deciso di intervenire in maniera coatta, prima dando fuoco al “dirigibile” dello stadio destinato alla stampa e poi “manifestando” nella gara contro i ciociari. Uno dei responsabili così aveva minacciato un dirigente partenopeo: «Ho campato con il Napoli [di Ferlaino] per 50 anni, anche tu e Pierpaolo Marino (ex Dg) tenete i figli. Mi sono fatto quattro anni di galera, se ne faccio altri quattro non succede niente». Gli arrestati finirono a processo e condannati per associazione a delinquere, incendio doloso, lancio di esplosivi, minacce e tentata estorsione. E pagarono anche i danni al Napoli, che li chiese costituendosi parte civile. Tutto finito? Neanche per idea. Col Napoli in crescita, iniziarono a verificarsi strane rapine ai suoi calciatori e alle loro compagne. Un collaboratore di giustizia rivelò che le incursioni avevano un’unica matrice: gruppi di ultrà intenzionati a punire i giocatori che non partecipavano alle manifestazioni organizzate dai tifosi.
L’Antimafia, chiaramente, ha interrogato anche De Laurentiis nel corso delle indagini a tappeto sull’intero movimento calcistico italiano, contestandogli la presenza a bordo campo del rampollo del boss della camorra Lo Russo, ma esponendosi a una figuraccia con l’interrogato, che gli ha puntualmente ricordato che il sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli aveva già chiarito illo tempore che quell’uomo non era un latitante al momento dei fatti, che accedeva regolarmente sul rettangolo di gioco con pass da giardiniere procuratogli dalla ditta che curava il prato, e che la SSC Napoli aveva offerto la massima collaborazione alla Direzione Investigativa Antimafia, dimostrando la sua totale estraneità.
E poi la querelle tra De Laurentiis e Reina, col presidente che, alla cena sociale dello scorso maggio, invitò pubblicamente la moglie del portiere a controllarne “le distrazioni”, e pochi giorni dopo furono arrestati tre fratelli imprenditori in odor di camorra, amichevolmente disponibili nei confronti di Pepe.
Racconto tutto questo perché i buontemponi del tifo cieco continuano ancora oggi a citare a sproposito fatti di cui il Napoli è stato esempio e di cui Napoli è stata vittima in ambito mediatico.

Loris Grancini parla ai microfoni di Fanpage nel marzo 2017

Discriminazione territoriale: cronistoria della resa del calcio italiano

Angelo Forgione Ancora a parlar di cori di discrimazione territoriale negli stadi, e il disco andrà avanti per molto altro tempo ancora, tra chi si indigna, chi sorvola serenamente e chi promette impegno per risolvere il problema. La verità è che nessuno vuole più provarci peché il problema è culturale, ha radici storiche, fa parte della “cultura” italiana e non è risolvibile senza un’educazione al rispetto. Chi è nelle stanze dei bottoni lo sa benissimo e preferisce non mettervi mano. L’unico tentativo compiuto è misaremente fallito, e si è rivelato un boomerang per l’immagine del calcio italiano, che ha quindi preferito sotterrare tutto e silenziare il problema.
Fu l’UEFA a chiedere provvedimenti a tutte le 53 federazioni europee, dopo aver approvata la risoluzione Il Calcio europeo contro il razzismo durante il 37° Congresso Ordinario di Londra del maggio 2013, in cui il Parlamento del Calcio europeo decise di inasprire le pene per i casi di razzismo. Partirono gli ormai famosi spot coi volti dei calciatori a pronunciare «No to racism», e la FIGC recepì le nuove direttive, modificando il proprio codice di giustizia sportiva e stabilendo la chiusura dei settori degli stadi in caso di manifestazioni discriminatorie. L’effetto finì col peggiorare il problema e squalificare l’Italia agli occhi del mondo, col susseguirsi di chiusure di porzioni di impianti a Milano, Torino, Roma e non solo, dove i tifosi dimostrarono alle società di infischiarsene e di reggere serenamente un braccio di ferro da vincere ad ogni costo contro la Giustizia Sportiva. Toccò a Carlo Tavecchio, appena eletto, dar sfogo alle pressioni dei dirigenti dei grand club e a riconvertire le sanzioni in semplici multe a danno delle società sportive, ben disposte a darsi il piccolo pizzicotto sulla pancia pur di spegnere le polemiche. Solo che Tavecchio esordì malissimo e il fantomatico Opti Poba lo fece squalificare in ogni sede internazionale, prima dall’UEFA e poi dalla FIFA. Per salvare la faccia al calcio italiano si immolò Andrea Agnelli, con uno studio presentato all’UNESCO nel novembre 2015 in cui l’insulto discriminatorio veniva ritenuto innocuo e definito “catartico”.
È in questi passaggi che è racchiusa la cronistoria della resa del calcio italiano alla storia d’Italia. Pagano i napoletani, non tutti i meridionali, e continueranno a incassare perché la storia ha voluto così.

È il Napoli “più” di sempre la grande bellezza del calcio italiano

Angelo Forgione Napoli ai preliminari di Champions League. Così impone la classifica a una squadra che ha sgretolato tutti i suoi record, e non solo i suoi. Inutile snocciolarli, valga per tutti il punteggio in classifica: 86 punti. È stato il Napoli più produttivo della storia, con una media punti di 2.26 a partita, la più alta di sempre, superiore anche a quella del Napoli scudettato 1989/90, a quota 2.11 nella conversione dei tre punti per vittoria, e a quello del 1986/87 (1.90), ma anche al primissimo Napoli di Sarri (2.15).
Al traguardo, il Napoli degli 86 punti e della grande bellezza non ha vinto il tricolore, non la Coppa Italia, e neanche ha centrato la qualificazione diretta in Champions. Ma non si può non evidenziare che la prima Juventus di Conte, nel 2012, ha fatto bingo con 84 punti, il Milan di Allegri, l’anno prima, con 82, come l’Inter del triplete di Mourinho. Ad alzare la quota scudetto, evidentemente, è stata la fame dell’ambiziosissimo Andrea Agnelli, voglioso di dimostrare ai cugini Elkann di essere manager all’altezza (e loro replicano ora con la Ferrari) e assatanato nel voler cancellare ogni concorrenza, nel voler battere il record di tricolori consecutivi, compreso quello conseguito dal nonno Edoardo. Sì, la Juventus ha messo in bacheca l’ennesimo tricolore e la Roma ha tamponato, di riffa o di raffa, la rincorsa azzurra. E tutti a chiedere a Sarri e ai suoi cosa sia mancato al Napoli. È mancato in autunno l’assetto trovato in inverno. È mancato qualche punto delittuosamente perso per strada. È mancata la forza economica della Exor e forse anche il debito che la Roma, assai spinta dagli arbitri lungo tutta la stagione, ha con Goldman Sachs. Ma il gruppo napoletano sente di non essere inferiore a nessuno, e vuole riprovarci dall’inizio, ripartendo da dove è rimasto, con gli equilibri trovati, per giocarsi lo scudetto davvero.
L’Olanda di Crujiff insegna che non è necessario essere vincenti per lasciare il segno nel football. Questo Napoli, la grande bellezza del calcio italiano, un segno lo sta lasciando. «È la squadra che gioca il miglior calcio d’Italia, tra le più spettacolari d’Europa», dicono i più titolati, da Guardiola a Capello. Ma alla banda-Sarri il bollino HQ non basta più.
Intanto cala il sipario su una stagione iniziata col grande tradimento, mitigato dall’immediato impatto di Milik. Una quadratura subito trovata e presto persa, con la necessita di trovare rimedio al traumatico infortunio del polacco in nazionale. Gabbiadini dentro, a Crotone, ma immediatamente espulso per una follia a centrocampo. Opportunità fallita, e Sarri convinto che la soluzione non poteva essere il poco sereno attaccante in cui non credeva. C’era Mertens a scalpitare, che già dalla primissima doppietta di Pescara aveva lanciato sguardi fulminanti al mister. Un po’ di rodaggio, con la squadra ad applicarsi attorno al suo tecnico, e poi il sangue si è sciolto: da Gennaio in poi, il Napoli ha iniziato a crescere, fino a diventare una vera e propria macchina da guerra. Milik, uscito da indispensabile a ottobre, è rientrato da comparsa a febbraio.
Gioco spumeggiante e meccanismi perfetti, palla nascosta a occhi chiusi, goal a raffica a rendere meno gravi quelli subiti di troppo, e Mertens, il rimedio, più goleador di Higuain in bianconero. Quasi tutti gli avversari asfaltati e Napoli campione di primavera, cioè primissimo nel girone di ritorno, coperto di complimenti e consensi. Ma non può finire qui.
Per il sodalizio azzurro si tratta pur sempre del diciassettesimo podio della sua vita sportiva, il quinto nelle ultime sette stagioni, che vale l’ottava partecipazione consecutiva alle competizioni europee, record nazionale in fieri. Si tratta di un club ben assestato nell’élite del calcio italiano ma anche in quello europeo, molto più saldamente del Napoli di Ferlaino sotto il profilo finanziario. Eppure la piazza è divisa, in una sterile diatriba oppositiva nei confronti di uno scorbutico presidente che opera in un territorio in cui è improbo fare impresa ad alti livelli, un imprenditore tronfio proprio perché consapevole di cosa voglia dire fare Calcio d’alto livello al Sud. Una parte della tifoseria pretende di più, nella convinzione che siano solo la passione e l’ampiezza di seguito a determinare le opportunità di un club e non le condizioni territoriali, che invece generano i più importanti vantaggi e limiti, a seconda di dove si operi. Un altro presidente, quello degli scudetti nati da sacrifici insostenibili, sollecita il rischio d’impresa, quello stesso rischio che egli prese non sulla sua pelle ma su quella di un club e di una tifoseria che avrebbero poi pagato i trionfi con tre lustri di anonimato e un doloroso fallimento. Provare a vincere è intento nobile per un club del Sud, ma è giusto provarci con la certezza di non uscire mai dal Calcio che conta. Il Napoli di De Laurentiis vi è entrato di prepotenza, vi resterà senza rischi, e ora si è messo pure in testa di trionfare.
Se dipendesse dalla banda-Sarri, il campionato potrebbe cominciare domenica prossima. Bisognerà invece attendere agosto per dare il via alla nuova stagione, difficile e stimolante. Altro giro, altra corsa. Ci sarà da sabotare il potere, da inceppare il meccanismo sportivo-finanziario che regola la Serie A. La torta è davvero dolcissima. Manca la ciliegina. Il meglio deve ancora venire.

Il ritorno di Higuain: fischi, pernacchie o indifferenza?

Tratto dalla trasmissione Club Napoli All News (Tele Club Italia), due chiacchiere sulla questione ‘ndrangheta allo Juventus Stadium, sul ritorno di Higuain al San Paolo e sui rapporti sempre tesi tra napoletani e romanisti.

De Laurentiis ha smesso di ridere di “discriminazione territoriale” nel paese degli struzzi

Angelo Forgione Furia De Laurentiis ai microfoni di Mediaset Premium nel post Napoli-Real. Gli basta una scintilla per accendere un fuoco e alimentarlo a benzina, una domanda di Francesca Benvenuti sul rapporto con Sarri, dopo i travagli dell’andata madrilena: «È tutto a posto col suo allenatore?». E da lì parte la discriminazione territoriale della stampa, l’assoluzione del Corriere dello Sport e la dura reprimenda per la Gazzetta dello Sport, senza neanche citare Tuttosport e tutto il fronte più estremo dell’informazione settentrionale. «Poiché i giornalisti del Nord mi odiano, e odiano il Napoli, tutti al servizio del Nord. È da Camillo Benso di Cavour che il Nord odia il Sud, anche se poi la Juventus è una squadra molto sudista. Sono venuti a scasinare i nostri rapporti e abbiamo perso con l’Atalanta, ma poi ci siamo ripresi con la Roma». Sandro Sabatini, dagli studi di Milano, cerca di riparare all’uso della parola “odio”, all’indomani del vile danneggiamento dell’automobile di Mimmo Malfitano, penna della rosea. Ma non c’è verso di placare il patron azzurro, e va allora in scena la contrapposizione tra l’uomo vulcanico che tira fuori il suo pensiero, senza girarci intorno, e il bravo giornalista che parla alla Nazione ed è quindi costretto a calarsi nella retorica ecumenica. E allora Aurelio alza i toni e sbatte in faccia al suo interlocutore, ma in realtà all’Italia del pallone intera, tutta la verità di una divisione imperante. «E mi dispiace che lei che è un giornalista non se ne renda conto, ma siccome siamo in regime silente in cui dobbiamo dire quello che non pensiamo, voi volete che io non dica quel che penso e mi tappi la bocca». Il conduttore prende ad aggrapparsi allo specchio, un bel po’ deformato, di un Napoli amato da Bolzano a Pantelleria. «Dopo dodici anni di calcio – incalza il presidente – mi sono anche stancato, perché andare nei vari stadi e sentire “lavali col fuoco” è molto antipatico, e vedere che gli italiani non si ribellano a questo è molto volgare e cafone. Le prime volte che lo sentivo mi veniva da sorridere, ma ora vorrei che il pubblico che va allo stadio crescesse culturalmente, come stanno dimostrando i napoletani». Sabatini va trincerandosi sulla necessità di non dar risalto e pubblicità ai cori razzisti, e proprio qui inciampa, mostrando tutte le pecche del sistema giornalistico italiano, che invece avrebbe l’obbligo di sollecitare soluzioni efficaci tanto alla Federazione quanto al Governo. Non è che tutto il Nord odi Napoli e il Napoli, chiaro che vi sia molta gente sana e con intelletto intaccato, ma manca proprio l’analisi del vuoto culturale e legislativo che non consente di cancellare, a partire dalle scuole, quel Settentrione alimentato e avvelenato da pregiudizi e sentimenti razzisti, che esiste in diversi ambiti della cancrena sociale d’Italia, e chi lo nega è complice. De Laurentiis non sbaglia affatto a sottolinearlo, come ha fatto anche Maurizio De Giovanni ventiquattr’ore prima a Tiki Taka. Dopo certi titoli di giornale, al di là delle polemiche sportive, la misura è colma ed è evidentemente esplosa la voglia di dirla tutta.
Che il patron azzurro si sia stufato di una certa stasi non pare falso sentimento. È infatti vero che per anni abbia sorvolato, ridendoci su. Nell’autunno del 2013, al convegno “Cittadinanza sportiva” presso il Maschio Angioino, disse proprio di divertirsene: «Quando vedo migliaia di persone negli stadi che insultano un popolo con frasi che non voglio ripetere non lo trovo disgustoso, lo vedo come uno sfottò, ci rido sopra e mi diverto. Li prendo come un incitamento alla città per risvegliarsi». Nel frattempo cosa è accaduto? È accaduto che la FIGC ha fatto marcia indietro nella lotta al razzismo contro Napoli negli stadi, ha tirato il freno a mano e ha parcheggiato. Riavvolgiamo il nastro e capiremo perché.
Il 22 ottobre 2012 scoppia il
caso TGR Piemonte, la grande vergogna del cronista Giampiero Amandola, cinquantottenne di Nizza Monferrato, recatosi ai cancelli dello Juventus Stadium prima del match Juventus-Napoli per ascoltare le due tifoserie in affluenza. Un servizio condito da cori «o Vesuvio lavali tu» intonati da due giovani al microfono e dallo scivolone dello stesso giornalista Rai, cui uno juventino spiega che i napoletani sono inestinguibili perché «ovunque, a Nord e a Sud, un po’ come i cinesi»; risatine sarcastiche a denigrare i napoletani e pure i cinesi, e poi la geniale imbeccata di Amandola: «I napoletani li distinguete dalla puzza, con grande signorilità». Compiaciuto dell’insperato assist, il tifoso raccoglie e rilancia: «Molto elegantemente, certo!»… e ancora risate. Giornalismo spazzatura figlio della sottocultura italiana applicata al calcio. Amandola paga col licenziamento lo scandalo che ne segue, e la redazione torinese, in diretta regionale, deve chiedere scusa a tutti gli italiani. Mai accaduto prima!
Anche per tutto questo, nella primavera del 2013 la FIGC, allertata dall’UEFA per la degenerazione degli eventi italiani, deve recepirne le nuove direttive, diramate il 23 maggio nel XXXVII Congresso Ordinario di Londra in cui il parlamento del calcio europeo ha adottato la risoluzione Il Calcio europeo contro il razzismo con cui sono state inasprite le pene per i casi associati agli eventi internazionali. La UEFA e le 53 Federazioni affiliate si sono impegnate a uno sforzo maggiore per debellare il fenomeno dal mondo del pallone. La tolleranza zero ispira il nuovo Regolamento disciplinare UEFA. Vietate le forme di propaganda ideologica; punizioni per i tifosi che insulteranno la dignità umana per ragioni di razza e origine etnica, dalla chiusura di un settore a quella dell’intero stadio, fino alla sconfitta a tavolino, alla detrazione di punti e, in estrema conseguenza, alla squalifica dal campionato. Da Londra, l’organo europeo pretende altrettanta severità da ogni Federazione affiliata, chiedendo di impegnarsi per favorire l’adozione di identiche politiche sanzionatorie “in relazione alle manifestazioni nazionali”, lasciando cioè a ognuna la libertà di allargare le tipologie di discriminazione in base alle diverse problematiche presenti nei vari paesi. Si adegua la FIGC, modificando il Codice di Giustizia Sportiva e tarandolo alla nuova normativa UEFA, con un inasprimento delle sanzioni in materia di razzismo. Gli ispettori federali sono chiamati a non tapparsi più le orecchie. La prima società a farne le spese è il Milan, ma è solo l’apertura di una pagina molto triste per il Calcio italiano, smascherato e inchiodato al suo razzismo interno contro Napoli. Chiudono settori a Milano, Torino, Roma, e scoppia il caos. La soluzione, rendendo tutti i tifosi ostaggi di quelli razzisti, non è quella giusta. E allora, inizia la retromarcia, prima con la “sospensione condizionale”, una sorta di ammonizione per le società, le cui pene saranno congelate per un anno solare e applicate in modo cumulativo solo nel caso di una seconda violazione da parte di medesimi supporters nel periodo interessato, e infine con la cancellazione delle chiusure dei settori degli stadi per responsabilità oggettiva, cotta e mangiata all’elezione alla FIGC di Carlo Tavecchio, l’uomo della buccia di banana del fantomatico Optì Pobà, subito interdetto dalle attività internazionali dell’UEFA e della FIFA. Con questa reputazione, quale credibilità avrà il nuovo presidente federale nell’accodarsi alla campagna contro il razzismo? Con quale faccia potrà prendere le distanze da cori e striscioni razzisti e di “discriminazione territoriale” ascoltati e visti negli stadi di mezza Italia? Che idea ci si farà all’estero dell’Italia alla vista delle curve della Serie A sbarrate e vuote per razzismo? E allora via alla modifica del Codice di Giustizia Sportiva, stabilendo l’applicazione di ammende invece delle tanto contestate chiusure parziali degli stadi. Solletico per le società sportive, un dazio tollerato per cancellare la vergogna dei cori contro i napoletani.
Insomma, un doppio passo indietro invece che uno nella giusta direzione, verso una soluzione davvero efficace. L’incapacità di trovarla produce la tolleranza più vergognosa e l’autorizzazione sostanziale per tutti gli ultras a cantare vittoria nel braccio di ferro con le istituzioni e a urlare contro i napoletani a pagamento delle società, a loro volta in silenzio e senza rivalersi sui colpevoli. Ciro Esposito, a Roma, ci rimette la vita, per quell’odio territoriale indegno oggi denunciato da De Laurentiis. Andrea Agnelli, padrone di casa allo Juventus Stadium, definisce tutto questo «campanilismo, che fa parte della nostra cultura e non è razzismo ma una peculiarità italiana», e per somma beffa, nel dicembre 2015, prende l’iniziativa catartica e se ne va all’Unesco a farsi paladino della lotta al razzismo nel calcio, rispondendo in conferenza, a chi gli chiede cosa accada in Italia, che la situazione è in miglioramento. In realtà è solo silenziata, insabbiata, con la complicità dei media.
Tavecchio, l’uomo del “rinnovamento” che non c’è, l’ha votato anche De Laurentiis nell’estate del 2014, per accontentare una pressione del laziale Lotito. Nel corso degli anni, il napoletano se n’è pentito, per diversi motivi, e qualche giorno fa, alla rielezione dell’uomo che vuole proseguire lo svecchiamento neanche partito, è stato l’unico presidente di club astenutosi dal voto. Forse l’altro candidato, Abodi, neanche lo aveva convinto, e però dalla tivù ha poi dimostrato di essersi sganciato dall’attuale sistema. Dai media del Nord già lo era da tempo. Il futuro parlerà.

Come i meridionali sono diventati juventini

Angelo Forgione Il calcio è una straordinario termostato sociale, capace di regolare la temperatura del popolo. I potentati economici l’hanno sempre usato, sin dal principio, per ingrandire i loro affari, accrescere il proprio consenso e sedare le proteste operaie. In Italia, il binomio Juventus-Fiat ha sempre rivestisto significati particolari, come, ad esempio, negli anni del “miracolo economico”, quando migliaia di meridionali salirono a Torino per produrre automobili. La storia dei compressori Fiat per frigoriferi con cui fu acquistato Pietro Anastasi, un vero e proprio blitz per strapparlo di forza all’Inter, è solo la punta dell’iceberg di una strategia industriale attuata dalla famiglia Agnelli per far diventare juventini i meridionali.
Con la chiusura delle frontiere dopo la disfatta della Nazionale italiana contro la Corea nel 1966, la Serie A parlò italiano dal 1967 al 1980. La Juventus iniziò a pescare al Sud, da dove provenivano gli operai che ingrossavano la comunità operaia di Torino. Alla fine degli anni Sessanta, il capoluogo piemontese era diventato la terza più grande città “meridionale” d’Italia dopo Napoli e Palermo. I calciatori del Sud divennero allora fondamentali per la strategia di fidelizzazione del tifo.
Furono proprio i meridionali di Torino, quelli che stavano costruendo le fortune economiche degli Agnelli, a iniziare a tifare in massa per la squadra del padrone, trasmettendo la juventinità ai parenti rimasti al Sud, sui quali faceva facilmente presa tutto ciò che gravitava attorno al miraggio della ricchezza e del successo settentrionale. Il Torino divenne la squadra dei torinesi, la Juventus quella dei lavoratori provenienti dal meridione. La squadra bianconera dominò gli anni Settanta, ingrandendo la sua tifoseria con nuove generazioni di fedelissimi immigrati – figli e parenti – che si identificarono con le vittorie della “zebra”, sul cui blocco fu costruita la Nazionale che vinse i Mondiali del 1982. La Juventus si rese così la squadra d’Italia, e il suo nome, che non era quello di una città e non imponeva il cliché del campanile, agevolò il processo di diffusione della sua popolarità.
Oggi, la gran massa di tifosi meridionali che sostiene la Juventus deriva da quell’eredità familiare e dalla fascinazione del potere esercita in tutti gli abitanti delle province del calcio, cui riesce facile
poter dire la propria scudetti alla mano.

Maggiori approfondimenti su Dov’è la Vittoria (Magenes)

Stampa estera: “Ferita e orgoglio dei figli del Vesuvio”

Il portale online della rivista spagnola Panenka pubblica un focus sulle questioni sociali che gravitano attorno alla discriminazione territoriale nel calcio italiano. Un articolo, nato dalla lettura di Dov’è la Vittoria, di cui è riportata di seguito la traduzione.

panenkaFERITA E ORGOGLIO DEI FIGLI DEL VESUVIO
Il disprezzo contemporaneo che avvertono alcuni abitanti del Nord Italia per la città di Napoli è una realtà. E il calcio lo dimostra.

– I napoletani sono ovunque, nel Nord e nel Sud, un po’ come i cinesi.
– Ma li distinguete dalla puzza.

Risate.

È la trascrizione dell’inizio di un servizio del telegiornale regionale piemontese della RAI, all’esterno dello Juventus Stadium in occasione dell’incontro Juve-Napoli dell’ottobre 2012. La seconda frase è un assist per un tifoso della Juventus fornito da un giornalista della TV pubblica italiana Giampiero Amandola. La RAI, nel clamore che ne è seguito, è stata costretta a licenziare il veterano Amandola.

Il servizio iniziava col coro di due giovani juventini davanti la telecamera: “Vesuvio, Lavali tu!”. È grazie al calcio che possiamo notare tutte la precarietà dell’unità italiana.

NAPOLI MERDA E STRISCIONI SUDAFRICANI

L’Italia è carica di luoghi comuni. C’è, per esempio, la tovaglia a quadri bianchi e rossi delle presunte pizzerie italiane fuori del paese. Altri sono totalmente falsi, come la storia che il disprezzo contemporaneo del Nord per Napoli è iniziato con gli scudetti di Maradona.

“No, accade da prima, e precisamente dal 1973, l’anno dell’epidemia del colera nel Mediterraneo”, precisa Angelo Forgione, giornalista e scrittore napoletano e napolista, colui che per primo denunciò con successo il caso Amandola. “La stampa e la televisione italiana incolparono Napoli e le sue condizioni igieniche. In realtà, quell’epidemia partiva da lontanissimo, dall’Indonesia e colpì il Sud-Italia e alcune coste della Spagna attraverso l’importazione di cozze tunisine infette”. Furono colpite anche le città di Palermo, Cagliari e Barcellona, ma Napoli fu quella che mise in campo una vaccinazione massiccia. “Fu la più grande operazione di profilassi della storia europea. L’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiarò finita l’emergenza dopo un mese e mezzo, mentre nelle atre città restò aperta per anni. Se la stampa italiana avesse raccontato bene quegli gli eventi, avrebbe fatto di Napoli un esempio della sanità, e invece nell’immaginario collettivo la dipinse come una Calcutta d’Europa”, dice Forgione.

Fu l’inaugurazione di una canzone che è ormai un classico, in tanti stadi in cui va a giocare il Napoli:

Senti che puzza, scappano anche i cani
stanno arrivando i napoletani
oh colerosi, terremotati,
voi col sapone non vi siete mai lavati
Napoli merda, Napoli colera,
sei la vergogna dell’Italia intera.

Non c’è bisogno di aver studiato l’italiano. Né si deve andare troppo lontano per veder cantare questa canzone l’attuale leader della xenofoba Lega Nord, il milanese Matteo Salvini, già coinvolto in numerosi scandali razzisti.
Ovviamente, Salvini si scusò, dicendo che “erano cori da stadio”.

“La prima cosa che vide Maradona al suo esordio in Serie A, a Verona, fu uno striscione con scritto ‘Benvenuti in Italia‘. A lui, in Spagna, lo avevano chiamato ‘sudaca’ e subito capì che cosa significava la parola ‘terroni'”, dice Forgione sul termine usato per etichettare i presunti ignoranti del sud Italia. “Diego capì che la sua missione non era solo sportiva. Quando il Napoli vinse lo scudetto, a Torino si scrisse ‘Napoli campione, oltraggio alla nazione‘ e ‘Siete i campioni del Nord Africa’”.

Erano i tempi dell’apartheid e l’attore napoletano Massimo Troisi, candidato in seguito all’Oscar per Il Postino, se ne uscì con una brillante risposta:

Preferisco essere un campione del Nord Africa che fare striscioni del Sud Africa”

TI HA FATTO GOL UN TERRONE!

I due scudetti del Napoli sono gli unici del Sud Italia in 114 campionati. La Sardegna ne ha uno grazie al Cagliari e la capitale cinque, tre romanisti e due laziali. E del Sud sono Crotone, Pescara e Palermo, le squadre che sembrano destinate a scendere in Serie B quest’anno. Più del 90% degli scudetti sono finiti al Nord. In queste squadre hanno militato grandi giocatori nel Mezzogiorno, e uno di loro è il simbolo della migrazione di massa operaia che ha sostenuto il triangolo MilanoTorino-Genova e il suo miracolo economico calcistico: Pietro Anastasi.

“Il centravanti siciliano era già promesso all’Inter ma poi finì alla Juventus con un accordo basato su una contropartita industriale”, racconta Forgione. “Il presidente del suo club, il Varese, Giovanni Borghi, era il fondatore dell’Ignis, che produceva frigoriferi, e i compressori glieli forniva la Fiat. Gianni Agnelli volle fortissimamente Anastasi: gran parte degli operai della sua azienda erano meridionali, molti siciliani. Portarlo a Torino, alla Juventus, significava creare affezione e consenso. Anastasi fu pagato per metà in contanti e per metà in compressori per frigoriferi”. Per Forgione fu il primo acquisto geopolitico del calcio. La foto di Anastasi in bianconero entrò nelle case degli operai e l’attaccante divenne l’idolo degli emigranti del Sud, che si erano lasciati alle spalle la loro terra per lavorare dove c’era la possibilità. A Petruzzu seguirono il sardo Cuccureddu, il palermitano Furino e il leccese Causio, i cosiddetti “sudisti del Nord”, una Juve  fortissima che accolse tanti tifosi desiderosi di festeggiare i titoli come di sentirsi integrati in una realtà socialmente diversa, se non ostile, al Sud.

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Nel suo libro sulle due Italie e il calcio, Dov’è la Vittoria, Forgione tira fuori un paio di casi in cui i protagonisti della polemica sono stati calciatori napoletani militanti nei club del Nord. Uno è Aniello Cutolo, diventato cinque anni fa una sorta di giustiziere meridionale. In particolare contro Andrea Mandorlini, a quel tempo allenatore del Verona, e contro la curva veneta, considerata la più xenofoba d’Italia. []

L’altro protagonista è Antonio Di Natale. Il napoletano, stanco dei cori anti-meridionali, zittì i suoi sotenitori friulani a Udine dopo aver segnato contro il Catania, svelando pubblicamente l’ipocrisia di un Nord che offende mentre esulta per i gol dei figli del Sud. Che Di Natale avesse messo il sale sulla ferita italiana lo dimostra il fatto che dovette scusarsi con un comunicato ufficiale del club, firmato da lui e concluso con un più che  sospetto saluto in dialetto friulano.

Ma il caso di anti-napoletanità più sanguionoso è un omicidio.

Solo tre finali di Coppa Italia fa, a Roma, Daniele De Santis, un quasi cinquantenne tifoso giallorosso di estrema destra, sparò a Ciro Esposito, prima della partita. I tifosi napoletani erano accorsi a salvare i passeggeri di un autobus di altri napoletani che venivano attaccati da un raid degli ultras romanisti. Esposito è morto dopo 53 giorni in ospedale. La Roma di De Santis, condannato per omicidio a 26 anni di carcere, non giocava quella sera: la sua presenza era motivata dalla caccia al napoletano. Circa quarant’anni prima era successo qualcosa di simile ad Alfredo Della Corte, un napoletano che si era salvato per miracolo dopo un colpo di pistola in bocca ricevuto al di fuori dellOlimpico.

I televisori italiani preferirono concentrarsi – mentre Ciro era attaccato a una macchina – sulla figura del capo degli ultras Mastiffs del Napoli che dialogava con le autorità e anche con il capitanissimo Hamsik, evitando sicuramente una tragedia allo stadio. []

Ma Ciro non è morto per una partita di calcio, e Napoli non è un’insopportabile ‘gomorra’. La peggio narrata tra le maggiori città europee spera in uno scatto di orgoglio contro il Real Madrid. E il ritorno è in casa.