Napoli che votò monarchia nel ’46 cancella Vittorio Emanuele III ma Emanuele Filiberto non ci sta

Angelo Forgione per Napoli freepress È in dirittura d’arrivo il percorso iniziato nel 2015 dalla giunta De Magistris per il cambio toponomastico della strada prospiciente il Castel Nuovo, sottratto a Vittorio Emanuele III e assegnato a Salvatore Morelli, liberale pugliese, massone e avversario di Ferdinando II di Borbone. Un passaggio di consegne non troppo rivoluzionario nei significati politici ma certamente clamoroso per l’importanza del personaggio spodestato, il terzo re dell’Italia unita. In suo soccorso è giunto il discendente Emanuele Filiberto, con una lettera pubblicata sulle pagine de Il Mattino in cui è contenuto il lamento indirizzato al sindaco di Napoli per la decisione, inoltrandosi in un vicolo cieco della storia, una strada senza uscita.
Il principe basa la sua dolente rimostranza sui risultati del referendum istituzionale del Giugno 1946, allorché la monarchia ebbe a Napoli quasi l’ottanta per cento dei consensi, e sul fatto che per circa un decennio, fino ai primi anni Sessanta, un partito dichiaratamente monarchico governò la città. Due furono i motivi di quel coro partenopeo pro-Savoia che ancora oggi fa discutere l’Italia intera.
Primo motivo fu il retaggio storico dei napoletani, storicamente legati alla forma monarchica e poco inclini a quella repubblicana. Ospitare un re in città nutriva ancora l’antico ricordo di una capitale e di un regno ormai scomparsi, un regno che aveva portato il nome della città stessa. Strano a dirsi, ma Vittorio Emanuele III aveva mostrato amore per Napoli, la sua città di nascita. Ne parlava ottimamente il dialetto, e del resto qui era stato messo a mondo l’11 novembre del 1869, e alla Scuola militare “Nunziatella” era stato allevato. Conosceva anche il piemontese ma, ancor più strano a dirsi, non amava troppo il Piemonte. Prima di ereditare il trono d’Italia, era stato il Principe di Napoli, titolo nobiliare affascinante per la gente della città, quantunque fosse subalterno e simbolo di una chiara sudditanza poiché spettante al primogenito del Principe di Piemonte, ovvero dell’erede al trono d’Italia. Quel titolo, sin dall’annessione del Sud al Regno di Sardegna, aveva avuto sempre l’intento di rafforzare fra i napoletani il sentimento patriottico di matrice piemontese.
Un altro fattore, secondario ma non poco incisivo sulla maggioranza bulgara dei monarchici napoletani e del resto del Mezzogiorno, fu rappresentato dalle manipolazioni politiche del ministro dell’Interno, il repubblicano piemontese Giuseppe Romita, che orchestrò le prime elezioni amministrative dopo la dittatura fascista in modo da mettere in secondo piano l’espressione dei meridionali. Quelle consultazioni si svolsero, fatto fondamentale, poco prima del referendum, ma non dappertutto. Le votazioni furono distribuite non in una sola tornata ma, irregolarmente, in due momenti, il primo in primavera e il secondo in autunno, a distanza di mesi, in modo da piazzarvi in mezzo proprio il più importante referendum del 2 e 3 giugno per scegliere tra la monarchica e la repubblicana. Il clima politico di quei mesi lo espresse il socialista Pietro Nenni: «O la repubblica o il caos». Liberata l’Italia dal Nazifascismo e dalla furia distruttiva anglo-americana, bisognava liberarsi anche dei Savoia.

romita

I napoletani e tutti i meridionali, quindi, si videro pure aggirati ed estromessi dalle scelte politiche, tutte ormai dominate dal “vento del Nord”, definizione coniata in quei frangenti per definire la spinta politica settentrionale alla destituzione della monarchia e alla svolta democratica, accusando la strategia del ministro Romita, da lui stesso spiegata in seguito: mettere in minoranza il Sud, storicamente legato alla forma monarchica, facendo votare immediatamente il Nord alle amministrative prima che si votasse per il referendum, il quale si sarebbe svolto con i primi risultati, prevedibilmente filo-repubblicani, delle elezioni amministrative nel Settentrione. Furono mandate molto presto al voto locale le città di tendenza repubblicana, Milano compresa, la più filo-repubblicana, quella che era stata la sede in Alta Italia del Comitato di Liberazione Nazionale e che, a guerra finita, risultava a tutti quale primaria roccaforte del nuovo corso politico repubblicano. I milanesi votarono il 7 aprile, mentre si fecero votare dopo il referendum i napoletani, il 10 di novembre, sette mesi più tardi, come un po’ tutte le città del Sud, tendenzialmente filo-monarchiche, evitando così che un risultato anti-repubblicano potesse condizionare altre città nella consultazione sull’istituzione statale.
Il referendum spazzò via, dopo ottantacinque anni di regno indegno, la Corona sabauda, colpevole negli ultimi venti di aver dato il potere al Fascismo e poi di aver abbandonato la nave fuggendo dalla Capitale. A pesare di più fu proprio la volontà delle regioni settentrionali: in tutte le province a nord di Roma, tranne Cuneo e Padova, prevalsero le preferenze per la repubblica. Nelle restanti a sud, tranne Latina e Trapani, vinsero quelle per la monarchia. Ancora una conferma di quanto fosse nettamente diviso il Paese. Milano si espresse in gran maggioranza, per quasi il settanta per cento, a sostegno della forma repubblicana. Napoli si proclamò la città più monarchica d’Italia, con un risultato record che sfiorò l’ottanta per cento, ma in realtà non tutti i votanti credevano veramente nel Re come rappresentante unitario della nazione. Per alcuni, più che di effettiva affezione ai Savoia, si trattò di dare uno schiaffo alla classe politica settentrionalista che marginalizzava il Sud da ormai ottant’anni e di un’espressione di protesta contro un Nord guidato da Milano che influenzava le scelte e decideva le sorti dell’Italia.
A risultati accertati, tra mille polemiche di brogli, il fronte monarchico del capoluogo campano insorse in via Medina, dove si trovava la sede del Partito Comunista Italiano di Palmiro Togliatti. Sotto ordine giunto da Roma, la polizia sparò ad altezza d’uomo. In nove persero la vita e undici tra i circa centocinquanta feriti morirono in agonia, senza processo e giustizia. Per placare gli animi e “risarcire” la città, il 28 giugno l’Assemblea Costituente mise a Capo dello Stato un monarchico napoletano, Enrico De Nicola, eletto al primo scrutinio con circa il settantacinque per cento dei suffragi dopo aver votato egli stesso a favore della monarchia, convinto dalla necessità di assicurare un trapasso meno traumatico possibile al nuovo sistema e di proporre ai filo-monarchici meridionali una figura capace di riscuoterne il gradimento.
Nella sua lettera, Emanuele Filiberto scrive anche che “la storia non si affronta a colpi di censura” e che “le rimozioni toponomastiche sono una forma tipica di ogni sistema illiberale che pensa di sviare il dialogo con il proprio passato a colpi di bianchetto”. È esattamente il presupposto per cui condannare la cancellazione della toponomastica borbonica operata dai suoi antenati, a partire dall’elegantissimo corso Maria Teresa in corso Vittorio Emanuele, pure rovinato da un secondo tratto post-unitario verso la Cesarea edificato in spregio alla vista panoramica che i Borbone avevano preservato sul primo, e la differenza la si notare a vista d’occhio. Furono proprio i Savoia a cancellare per primi i nomi di quelle strade che erano intitolate alla dinastia decaduta, abbattendo gli stemmi gigliati e apponendo lapidi e statue per l’edificazione della nazional piemontesizzazione. Il giglio del granducato e il leone di San Marco lo lasciarono in bella vista sui palazzi di Firenze e Venezia, ma a Napoli lo scudo sabaudo lo sostituirono a ogni stemma gigliato delle Due Sicilie, magari coperto, come l’effigie reale borbonica posta sull’arco scenico del Real Teatro di San Carlo, poi riscoperta e ripristinata nel 1980. Impossibile ripristinare il palco reale, marchiato a rilievo dalla croce sabauda, usurpatrice della magnificenza della bellissima tribuna coronata.
Emanuele Filiberto dovrebbe sapere almeno che il suo Vittorio Emanuele III era segretamente legato alla Gran Loggia d’Italia, avvalorata da una comunione nazionale in una Conferenza mondiale dei Supremi Consigli di rito scozzese, e che fu quella loggia ad accreditare Mussolini presso le importanti massonerie britanniche e americane. Ma quando il Duce si oppose alle organizzazioni massoniche, queste gli misero contro il Re d’Italia, il quale ne ordinò l’arresto nel 1943, sostituendolo col massone Pietro Badoglio. E se l’amata Napoli, la città più bombardata d’Italia, fu rasa letteralmente al suolo, con morti e conseguenze sociali ancora oggi drammaticamente vive, fu anche a causa di quel re pupazzo, Vittorio Emanuele III, che concordò e siglò segretamente l’armistizio con gli Alleati anglo-americani a luglio, ma l’accordo fu reso noto solo qualche mese dopo per insistere ancora nella strategia psicologica finalizzata a stimolare la disapprovazione popolare nei confronti di Mussolini per la decisione di seguire la Germania di Hitler in guerra. Il piano, concertato tra Washington e Londra, fu accettato in modo occulto anche dalla Casa Reale a Roma e, soprattutto, dalla Massoneria italiana in cerca di riscatto. Tutti corresponsabili di immotivate vessazioni sulla pelle e sulle vite della popolazione, Vittorio Emanuele III in primis.
Emanuele Filiberto avverte infine che Napoli ha molti problemi più urgenti e prioritari della crociata toponomastica, perché tanti giovani non trovano un lavoro e la criminalità organizzata non accenna a deporre le armi contro lo Stato. Drammaticamente vero, ma tutto ebbe inizio con l’invasione sabauda al Sud, con la cancellazione di Napoli Capitale, con il patto scellerato con l’allora contenibile camorra voluto dell’amico di famiglia Garibaldi, usato e poi licenziato a lavoro ultimato, e con il cagionato inizio dell’emigrazione.
Emanuele Filiberto si accontenti dello scippo del parto della pizza “margherita”, dazio pagato per pubblicizzare la salubrità dell’acqua e dei cibi assicurata dopo il colera del 1884 dal nuovo acquedotto del Serino. Si accontenti dell’efigie marmorea dei Savoia all’ingresso di Palazzo Reale, dove una statua, quella di un suo avo, è l’unica minacciosa con spada sguainata. Si accontenti di ciò che ancora è intitolato alla sua casata, ed è sempre tanto, finché il tempo non lo spazzerà via inesorabilmente, perché per Umberto I, che finì ammazzato al quarto attentato dopo aver seminato malcontento in lungo e in largo, e per il minaccioso Vittorio Emanuele II si potrebbe suonarla come per “sciaboletta”. È verissimo che la storia non si censura, e infatti la si deve raccontare a fondo, soprattutto quando risulta manipolata per processo di edulcorazione.

Al Sud la più bella stazione TAV ma non ancora i Frecciarossa

Angelo Forgione Finalmente inaugurata l’avveniristica stazione TAV di Afragola, progettata dalla defunta archistar irachena Zaha Hadid. Un hub al servizio delle province a Nord di Napoli e dei territori di Caserta, Avellino e Benevento, ma che mostrerà le sue potenzialità solo dal 2022, si spera, quando, secondo progetto, dovrebbe fare da nodo di interscambio tra l’Alta Velocità Torino – Salerno, la nuova linea Napoli – Bari, la Circumvesuviana e i treni regionali da e per Caserta, Benevento e Napoli Nord.
Almeno la stazione, bellissima e senza collegamento intermodale, c’è, a incarnare la presenza di un approdo nell’assenza dello sviluppo. Il premier Gentiloni dice: «siamo ammirati nel mondo per l’Alta Velocità, ma abbiamo anche la responsabilità di riconoscere che questa ammirazione è territorialmente squilibrata. Quindi. Non ci resta che intervenire per un potenziamento verso Bari, la Calabria e la Sicilia per garantire una equità territoriale di cui il sud ha diritto. Oggi abbiamo le condizioni di partenza».
Dunque, c’è la meravigliosa stazione, una delle più belle del mondo, ma non i treni davvero veloci. Meno di 40 al giorno ne passeranno di qui mentre a Napoli Garibaldi ne sono circa 500. Questa è la portata di Napoli Afragola oggi, poi si vedrà. In ogni caso la nuova stazione non eviterà ai treni veloci di entrare e uscire da Napoli ma anzi sarà un’ulteriore fermata, e a pochi chilometri dal capoluogo. I treni veloci, in verità, mancano un po’ dappertutto a sud di Napoli. Sono infatti oltre cento i più rapidi Frecciarossa quotidiani tra Torino-Milano-Roma-Napoli e solo uno (1) si allunga da Salerno direttamente fino a Taranto, tagliando fuori Calabria, Sicilia e ovviamente Sardegna. Il resto sono i meno celeri Frecciargento, precisamente quattro (4). In Basilicata, Sicilia e Sardegna non circolano neanche gli ancor più lenti Frecciabianca, i convogli che assicurano la copertura su rete convenzionale di grandissima parte della Penisola, ma non la congiunzione delle dorsali tirrenica e adriatica del Meridione. Nelle due isole maggiori, già penalizzate dalla mancanza di continuità territoriale, solo treni regionali su linee complementari. Ma almeno per la Sicilia c’è programmazione. La Sardegna, invece, è assolutamente dimenticata. E se pensate che sia normale nel Paese del “prima il Nord”, sappiate che la Spagna, coi fondi europei, ha coperto tutto il suo territorio, e la prima tratta, costruita tra il 1989 e il 1992, è stata la Madrid-Siviglia, in direzione della povera Andalucia, anziché la Madrid-Barcellona (1996-2003).
Di fatto, con Afragola, Napoli ha una stazione AV decentrata, ma questo era noto. Roma Tiburtina è in piena capitale. Milano Rogoredo è nel capoluogo lombardo. Idem Torino Porta Susa. L’hub di Napoli, invece, è fuori Napoli, al momento scollegata e raggiungibile solo percorrendo una ventina di chilometri in automobile. Se questo sarà un limite per la città, come prevede il sindaco De Magistris, lo potremo capire solo quando, verso sud, andranno anche i Frecciarossa, cioè quando davvero si viaggerà ad alta velocità.

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Zubin Metha: «Bisogna compatire quel Nord che ignora la cultura del Sud e di Napoli»

Angelo Forgione Un trionfale “Concerto per l’Europa” quello tenuto il 3 giugno nel Duomo di Milano, con il grande direttore indiano Zubin Metha a condurre l’Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo di Napoli nella Sinfonia n.9 di Ludwig van Beethoven, evento gratuito davanti a 5.000 spettatori che hanno tributato 15 minuti di applausi finali. Un ponte artistico tra Napoli e Milano che prova ad arrivare all’Europa attraverso la Musica, per condividere l’arte tra Nord e Sud.
Presente il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris ma non il suo omologo milanese Beppe Sala, che ha delegato l’assessore alla viabilità, e neanche il presidente della Regione Lombardia Riccardo Maroni. Forse infastidito da certe assenze, Zubin Metha, da tempo innamorato di Napoli, del suo teatro e della sua cultura musicale, ha esternato prima del concerto il suo disappunto per le lacune culturali del Paese, affidandolo al Corriere del Mezzogiorno:

«So dei tanti pregiudizi sui napoletani e per questo spero ci siano molti leghisti tra gli spettatori in Duomo, e che al suono delle meravigliose note di Beethoven imparino quale sia la grandezza del San Carlo e di Napoli. Molti leghisti sono ignoranti, ovvero ignorano la cultura del Sud e di Napoli: vanno compatiti».

Problema di non soli leghisti, ma problema che appartiene sempre meno al musicista di Bombay, il quale ha aggiunto:

«Napoli è una città che sto conoscendo sempre meglio. Per esempio, ho appreso tardivamente, e me ne rammarico, che il Regno delle Due Sicilie non era sotto la dominazione spagnola, ma aveva sovrani napoletani. Sto amando la storia di Napoli».

(ph: Laura Ferrari)

Ai Martiri di Pietrarsa un piazza di Napoli

pietrarsa_sangiovanniAngelo Forgione Dopo San Giorgio a Cremano, anche Napoli ha intitolato una piazza ai Martiri di Pietrarsa. Nel giorno della festa del Lavoro, il sindaco Luigi De Magistris ha presenziato alla cerimonia di intitolazione di “Piazza Martiri di Pietrarsa” nel quartiere di San Giovanni a Teduccio, il largo all’intersezione tra Via Taverna del Ferro e Via Domenico Atripaldi.
Il mondo occidentale celebra il primo maggio del Lavoro in ricordo dei gravi incidenti accaduti nei primi giorni di maggio del 1886 a Chicago, conosciuti come “rivolta di Haymark”. Penso che 23 anni prima era successo in Italia, a Napoli, nell’ormai sufficientemente celebre opificio siderurgico di Pietrarsa. Ma quella era una storia da nascondere in una nazione debole e sbagliata, e mai sarebbe potuta farsi monito per il mondo. Oggi, a quasi 154 anni da quel tragico 6 agosto, su mozione di Andrea Balia della Commissione Toponomastica, il Comune di Napoli recepisce il racconto dei narratori della storia nascosta, aprendo indirettamente un conflitto con la figura di Nicola Amore, allora questore e responsabile dell’uso delle armi in quel triste episodio, poi sindaco della città del Risanamento, costretto alle dimissioni per il favoritismo nei confronti delle banche piemontesi implicate nello sfruttamento edilizio dei suoli. Amore ha a suo onore statue e piazze in città, e c’è da preconizzare che mai le avrà De Magistris. Ma non è momento di polemica e sterili rabbie. È sempre più momento di conoscenza e di riflessione. Il fatto è che il 6 agosto 1863 si inaugurava la desertificazione industriale del Sud, e prendeva corpo il dramma della disoccupazione. Chiamarla festa è diventata ormai quasi una beffa. Aspettando il giorno in cui i sindacati italiani si degneranno di informarsi sulla storia d’Italia e recarsi a Pietrarsa, oggi museo ferroviario, ma anche museo del lavoro, sempre più un ricordo lontano.

Il Vesuvio rugge, revocata la cittadinanza onoraria a Cialdini

Angelo Forgione È stata approvata in giunta, su proposta del sindaco de Magistris, la delibera con la quale viene revocata la cittadinanza onoraria di Napoli ad Enrico Cialdini, generale dell’esercito piemontese e, successivamente dal luglio 1861, Luogotenente Regio delle province meridionali, responsabile dei massacri di civili a Pontelandolfo e Casalduni, nel Beneventano, del bombardamento di Gaeta e di altri atti dispotici e sanguinosi nel periodo dell’invasione sabauda nel Mezzogiorno d’Italia.
La revoca è stata decisa “come atto di riconoscimento della memoria storica delle vittime delle stragi che il generale Cialdini ha perpetrato nel nostro territorio e nel Mezzogiorno d’Italia”.
La cittadinanza al Generale dell’esercito del Regno di Sardegna fu conferita il 21 Febbraio del 1861 dal Decurionato di Napoli, presieduto dall’allora sindaco Giuseppe Colonna, a conclusione dell’assedio di Gaeta che aveva decretato la scomparsa del Regno delle Due Sicilie. Giuseppe Colonna aveva “ereditato” la carica dal dimissionario Andrea Colonna, nominato Sindaco con decreto di Giuseppe Garibaldi del giorno 8 settembre 1860, al principio del periodo dittatoriale della Città.
Quando Cialdini si insediò in città, il 19 luglio 1861, proclamò minacciosamente: «quando rugge il Vesuvio, Portici trema», alludendo alla paura che egli incuteva nei confronti della nobiltà filoborbonica, ritiratasi nei paesi vesuviani per non vedere la cancellazione della patria napolitana. Quando il Generale lasciò, al termine della sua luogotenenza, disse: «Tolga il cielo che il mio soggiorno tra Voi sia stato di danno a queste belle Provincie». Sui muri della città i napoletani gli lasciarono un messaggio esplicito: «quando il Vesuvio rugge, Cialdini fugge». Il Vesuvio, evidentemente, dopo più di un secolo e mezzo, continua a ruggire.

Il generale Cialdini sempre più sgradito al Comune di Napoli

Angelo Forgione Il Consiglio comunale di Napoli, nel corso della seduta del 20 marzo, ha approvato la modifica dello statuto con cui si riconosce a Napoli il ruolo di “Città di Pace e di Giustizia”. Inoltre, dando seguito al confronto sulla storia e l’identità di Napoli nel contesto del Meridione e del Mediterraneo tenutosi l’11 marzo in Commissione Cultura, si è discusso, tra i vari ordini del giorno, dell’istituzione di una giornata giornata della memoria del popolo meridionale e della revoca del della cittadinanza onoraria al generale Enrico Cialdini, responsabile dei massacri di civili a Pontelandolfo e Casalduni, nel Beneventano, del bombardamento di Gaeta e di altri atti dispotici nel periodo dell’invasione sabauda nel Mezzogiorno d’Italia. La cittadinanza al Generale dell’esercito del Regno di Sardegna fu conferita il 21 Febbraio del 1861 dal Decurionato di Napoli, presieduto dall’allora sindaco Giuseppe Colonna, a conclusione dell’assedio di Gaeta che aveva decretato la scomparsa del Regno delle Due Sicilie. Giuseppe Colonna aveva “ereditato” la carica dal dimissionario Andrea Colonna, nominato Sindaco con decreto di Giuseppe Garibaldi del giorno 8 settembre 1860, al principio del periodo dittatoriale della Città.
Nel corso della discussione dell’ordine del giorno, approvato all’unanimità, ha preso la parola Luigi De Magistris, sollecitato dal consigliere Andrea Santoro a cogliere l’invito unanime del Consiglio a proporre all’ente Camera di Commercio di Napoli di rimuovere il busto di Cialdini dal salone delle contrattazioni del palazzo dellal Borsa. Il sindaco ha riferito di essersi già attivato per procedere alla revoca della cittadinanza onoraria conferita a Cialdini. «Sin dal primo momento – ha detto il Primo Cittadino – questa amministrazione ha avuto grande attenzione per la toponomastica. Mettere la storia al suo posto significa anche revocare la cittadinanza a Cialdini. Presto inaugureremo l’area dedicata ai Martiri di Pietrarsa e continueremo, perché la gente che legge il nome di una strada o vede un monumento deve capire qual è la storia di Napoli. Auspico che il Consiglio si pronunci all’unanimità, perché comunque andremo in quella direzione per dire a tutti che la Città di Napoli ha revocato la cittadinanza a chi si è macchiato di crimini orrendi nei confronti del popolo meridionale».
Il successivo ordine del giorno ha riguardato l’istituzione di una giornata della memoria del popolo meridionale, con relative modifiche ai programmi e ai testi scolastici per il ripristino della verità storica sull’Unificazione d’Italia, alle intitolazioni di strade e piazze e conseguente rimozione di monumenti dedicati a discussi personaggi del Risorgimento. Quest’ordine del giorno, per la sua complessità, è stato rinviato ad un maggiore approfondimento in Commissione Cultura.

25 milioni di mutuo per il vecchio San Paolo e 37,5 donati allo Juventus Stadium

Angelo Forgione In vista della partita di ritorno di Champions League contro il Real Madrid, quasi pronti i nuovi spogliatoi e bagni ospiti e la nuova tribuna stampa dello stadio San Paolo di Napoli. È il primo lotto di lavori consentiti dal finanziamento di 25 milioni di euro ottenuto dal Comune di Napoli con un mutuo acceso presso l’Istituto per il Credito Sportivo, una banca pubblica che di certo non pratica tassi di mercato. Soldi che, ovviamente, sono destinati a gravare sul bilancio comunale.
Il sindaco De Magistris ha rimarcato lo sforzo di Palazzo San Giacomo per presentare uno stadio decente ai madrileni e per rifare, prossimamente, sediolini, bagni e servizi essenziali, sottolineando che certi lavori, in altre città, vengono effettuati con contributo delle società sportive. Dall’altra parte c’è il patron azzurro De Laurentiis che reclama somme avanzate per la manutenzione “straordinaria”. Nella diatriba ormai storica tra il Comune e la SSC Napoli paga la città, che ancora non ha una prospettiva di nuovo stadio. Resta in piedi il vetusto San Paolo, in corso di ristrutturazione necessaria, un riammodernamento necessario, con aggravio su una città che vede la sua impiantistica sportiva alla canna del gas, asfissiata dalle somme necessarie a tenere in vita il gigante di Fuorigrotta. Inutile dire che il Comune di Napoli dovrà prima o poi alienare o dare in concessione questa proprietà troppo dispendiosa. Inutile dire che il Napoli dovrà dotarsi di una struttura moderna e propria se vuole aumentare il fatturato e restare ad alti livelli di competitività.
In questo scenario a tinte fosche in cui ci perdono cittadini, tifosi, immagine della città e della società sportiva, va evidenziato che la spesa di 25 milioni per tamponare le emergenze dell’impianto flegreo e persino inferiore alla sola cifra che la Juventus ha ottenuto dalla società di marketing Sportfive Italia del gruppo francese Lagardère. 35 milioni sull’unghia, subito, per costruire il suo nuovo stadio, dei 75 concordati per la cessione del diritto all’intero incasso del contratto d’affitto fino al 30 giugno 2023, ma a condizione di trovare uno sponsor che desse il nome allo Juventus Stadium. Sono passati quasi 6 anni dei 12 pattuiti e ancora nessuno si è fatto avanti, perché la Serie A non è appetibile all’estero. Soldi quindi già persi per metà dalla Sportfive, cioè 37,5 milioni ad oggi di cui la Juventus ha beneficiato, e di fatto donati, per creare una struttura moderna e redditiva, senza contare altre voci di diritti ceduti a terzi. A conti fatti, l’operazione Continassa produsse alla Juventus un esborso di 25 milioni di euro per l’acquisto dei diritti sui terreni comunali e una liquidità immediata garantita dalla cessione di vari diritti pari a 55 milioni. A Napoli, intanto, il Comune si carica di debiti per un ferro vecchio.

Il Generale Cialdini è sgradito al Comune di Napoli

Angelo ForgioneA conclusione della seduta del consiglio comunale di Napoli del 23 dicembre 2016, si è svolta la discussione sull’ordine del giorno presentato dal consigliere Andrea Santoro (Fratelli d’Italia-An) con cui si intendeva proporre al sindaco Luigi de Magistris di esplicitare presso la Camera di Commercio la volontà di rimuovere i busti del generale Enrico Cialdini e del conte Camillo Benso di Cavour dalla sala delle contrattazioni del palazzo della Borsa.
Santoro ha preso la parola e spiegato le motivazioni della mozione tra la confusione dei colleghi, con numerosi consiglieri deputati al voto a confabulare come al bar. A ricondurre l’intero Consiglio all’attenzione, più che il presidente Alessandro Fucito, è stato il consigliere Salvatore Pace (Lista DEM), che si è appellato alla serietà dell’argomento e ha sollecitato un nuovo percorso di rivisitazione della toponomastica. Da questi è giunto favorevole sostegno alla mozione, come pure dalla collega di lista Eleonora Di Majo, proveniente da quel collettivo politico (Insurgencia) che già in passato ha manifestato per chiedere la rimozione dei busti. Francesca Menna (Movimento 5 Stelle) ha poi proposto una commissione per la rivisitazione della storia del Meridione e per la divulgazione nelle scuole cittadine. Ha chiuso la discussione Gaetano Simeone, che ha chiesto al collega di banco Santoro di limitare la proposta di rimozione al solo Cialdini, «dato per assodato che per tutti trattasi di cialtrone», e di rimandare Cavour a un maggior approfondimento storico sulla sua figura in un’opportuna commissione consiliare. Spazio anche a una battuta finale dello stesso Simeone: «a meno che Pace non ci dica che Cavour era uno juventino, perché in quel caso…». Dal banco della presidenza, Fucito ha chiarito che la Juventus, nel 1861, non era ancora nata.
Atto modificato ma approvato all’unanimità.
La parola passa ora alla Camera di Commercio di Napoli. Sarà l’ente di Piazza Bovio a decidere se il busto di Cialdini potrà essere rimosso o dovrà restare dove si trova. Intanto è già significativo che per l’attuale consigliatura comunale di Napoli sia ufficialmente considerata sgradita l’effigie del Generale e Luogotenente di Vittorio Emanuele II, massacratore di circa 9000 meridionali durante l’inavsione piemontese del Sud e responsabile dei violentissimi bombardamenti dell’assediata Gaeta, della distruzione di una decina di paesi interamente dati alle fiamme (Pontelandolfo e Casalduni i più noti), oltre che dei feriti, dei prigionieri, dei deportati, delle perquisizioni e dei saccheggi delle chiese.

Resta comunque impresa arda la sua sparizione, poiché il Sindaco non ha potere sulla Camera di Commercio, e certamente si attiveranno forti opposizioni. Facile prevedere che si dirà che il Palazzo della Camera di Commercio di Napoli è stato costruito a fine Ottocento anche grazie all’elargizione dello stesso Cialdini di una parte di quanto risparmiato dalle spese di rappresentanza per conto di Vittorio Emanuele II. Quell’edificio, infatti, è proprio un simbolo di colonizzazione co-finanziato da un criminale di guerra, che in tal modo intese cancellare lo splendore della precedente sede della Borsa Cambi e Merci di Napoli (nata nel 1778) nella Gran Sala del Real Edificio dei Ministeri di Stato, l’attuale Palazzo di San Giacomo, a metà dell’antico cammino coperto in ferro e vetro realizzato da Stefano Gasse che conduceva a via Toledo (ostruito nel Ventennio fascista dalla costruzione del palazzo del Banco di Napoli). Cialdini era convinto che, con quel gesto, il suo nome non sarebbe stato maledetto dai napoletani, che tanto lo detestarono. «Tolga il cielo che il mio soggiorno tra Voi sia stato di danno a queste belle Provincie», disse il Generale lasciando la città. Sui muri, i napoletani gli lasciarono un messaggio esplicito: “Quando il Vesuvio rugge, Cialdini fugge”. Era il verso alla frase «quando rugge il Vesuvio, Portici trema» con cui, il 19 luglio 1861, il generale concluse il minaccioso proclama di insediamento a Napoli. Nel Vesuvio c’era l’allusione a se stesso, e dietro al nome di Portici c’era la nobiltà filoborbonica ritiratasi nei paesi vesuviani per non dover assistere alla cancellazione della patria napolitana.

Sindaco di Trieste tra i rifiuti: «Noi non siamo a Napoli!». Ed è polemica con De Magistris.

Angelo Forgione Inciampo del sindaco di Trieste Dipiazza, che, avendo verificato un problema nella rimozione di alcuni rifiuti nella sua città, ha pubblicato un video su facebook in cui afferma  «qui non siamo a Napoli, siamo a Trieste».

Replica del sindaco di Napoli De Magistris, chiamato in causa dal vibrato sdegno:

È davvero un peccato che una bellissima città come Trieste sia guidata da un Sindaco che cede ai luoghi comuni più banali e beceri su Napoli. Sono certo che i cittadini triestini sono molto più seri di un’Amministrazione che, a quanto pare, non è in grado neanche di gestire il problema della spazzatura in una città che è grande quanto un quartiere di Napoli.
Dal 2011, da quando c’è questa Amministrazione, le immagini dei rifiuti a Napoli sono solo un pallido ricordo. Napoli è la città italiana che cresce di più in termini culturali e turistici, e capisco bene che ad alcune realtà politiche e territoriali del Nord questa cosa possa dare grande fastidio. Ma noi siamo un popolo accogliente per natura, per cui voglio solo rivolgere un invito caloroso a tutti i cittadini triestini di venire a visitare la nostra bellissima città. Nonostante tutti i suoi problemi, che nessuno mai ha negato, tornerete a casa carichi di una bellezza e di una meraviglia che non ha eguali al mondo.

Ma Dipiazza non ci pensa proprio a porgere le scuse e, sempre tramite un post su facebook, rispedisce al mittente le accuse e rincara la dose, mostrando di nutrire certe idee guardando le incursioni di Luca Abete di Striscia:

Vorrei ricordare al sindaco di Napoli che dal 2001 al 2011 quando ho amministrato questa città per due mandati, Trieste si è classificata prima a livello nazionale per qualità della vita sia nel 2005 che nel 2009 (classifica Sole 24 Ore). Adesso, in questo terzo mandato, sto lavorando per riportarla a quei livelli. Il Sindaco de Magistris, invece di fare tali dichiarazioni, farebbe solo bene ad imparare da questa amministrazione come si raggiungono questi risultati, e magari guardare i servizi televisivi, come quelli di Striscia la Notizia, che riguardano la sua città e che purtroppo non trasmettono un’immagine di efficienza.
Fortunatamente conosco Napoli e con i napoletani ho trascorso momenti bellissimi, e queste polemiche, per una battuta di impeto, mi sembrano fuori luogo.

Le scuse, si sà, sono dei galantuomini.

A Napoli muoiono i partiti e gli elettori. De Magistris non faccia ammazzare il porto e il turismo.

Angelo Forgione De Magistris bis! Vittoria schiacciante, ed era ampiamente prevista. Ribadita la vittoria di cinque anni fa, quando già l’astensionismo aveva connotato il ballottaggio d’andata con Lettieri. Allora votò il 50% dei napoletani, dieci punti sotto la media nazionale. Al ritorno, cinque anni dopo, la percentuale è drammatica: neanche il 36% è andato alle urne, e ciò significa che il sindaco confermato è espressione di un napoletano su quattro. Non si può non rilevare che De Magistris ha perso circa ottantamila voti rispetto a cinque anni fa, quando a dargli la preferenza furono in 264.730 elettori, contro i 185.907 di oggi. Nulla toglie al vincitore, e però la città dimostra di essere non solo indolente e disinteressata ma sempre più sfiduciata e incapace di riscontrare nelle figure in competizione un’idea di amministrazione. Molto ha contato anche una compagna elettorale avvelenata e priva di contenuti, sfociata nella mancanza di confronto, di cui invece la cittadinanza avrebbe avuto assoluto bisogno per un coinvolgimento collettivo, smorzato anche dalle reti nazionali, che a Napoli hanno dedicato un posto di secondo piano, talvolta cancellandola.
De Magistris ha doppiato Lettieri per manifesta inconsistenza dello sfidante e di quelli che lo hanno affrontato al primo turno, e ci è riuscito per diversi motivi. Tre i più incisivi. Punto uno: il sindaco ha saputo raccogliere il sentimento identitario e autonomista crescente. Punto due: nel centro di Napoli è sparita la grande immondizia. Punto tre: a Napoli stanno tornando i turisti. Tanto è bastato per ribadire la supremazia sugli avversari, ma non per il rilancio della città, che è ancora lontano, e resta anche un’incognita sotto lo scontro con il Governo nazionale. Ed è proprio qui che l’ex magistrato si gioca il secondo tempo della sua partita locale, perché tre importanti nodi urbanistici vanno sciolti velocemente, e passano proprio per Palazzo Chigi. Il porto, Bagnoli e Napoli Est. Il porto prima di tutto, il primo per le merci d’Italia e uno dei principali per passeggeri, la prima azienda della Campania, un fulcro di sviluppo della città, che però perde terreno e traffici rispetto agli altri scali italiani e quelli del Nord-Africa a causa del mancato dragaggio dei fondali, ovvero la rimozione dei fanghi che non consentono l’approdo delle più grandi navi merci, ma anche della mancanza di raccordo con la rete ferroviaria nazionale per lo smistamento su ferro. Per non parlare della mancanza di elettrificazione, che costringe le imbarcazioni pesanti a tenere i motori accesi durante l’ormeggio e a inquinare l’area urbana a ridosso. Se non si porrà presto rimedio al problema della profondità dello scalo portuale si andrà incontro anche alla perdita delle navi da crociera. Bagnoli e Napoli Est poi, aree di ruderi industriali interessate da una riconversione ferma anch’essa al palo da decenni. Insomma, un immobilismo che sta paralizzando l’economia della città, al quale De Magistris dovrà provare a richiedere soluzione veloce pur nel suo conflitto in atto contro il premier Renzi e quello annunciato contro le tecnocrazie, le oligarchie e i poteri forti d’Europa. Tocca a lui sbattere i pugni sul tavolo per sollecitare Roma a sbloccare le situazioni. E poi bisognerà mettere mano al recupero monumentale e architettonico. Il piano per il Centro Storico Unesco, prima di tutto, con gli stanziamenti rimasti nel cassetto e riprogrammati. La restituzione alla città della Galleria Umberto, abbandonata e degradata, cui dare il decoro che Milano riesce a garantire, accelerando coi restauri (di tutti i monumenti cittadini) col freno al mano tirato, e studiando un regolamento per l’omogeneità delle insegne degli esercizi commerciali, come nel caso esemplare del capoluogo lombardo. Il recupero della Villa Comunale e della Riviera di Chiaja, spazio preso in ostaggio da una discutibile linea metropolitana che ha sfigurato i luoghi e anche qualche storico palazzo. Il restyling del lungomare pedonalizzato, che necessita di una risistemazione turistica. L’incremento del turismo e il miglioramento dell’accoglienza dovrà essere il vero obiettivo del primo cittadino, perché è quella la vera risorsa di Napoli. Complici i timori internazionali, i flussi turistici verso il Vesuvio sono in crescita. La città ha raddoppiato gli incassi della tassa di soggiorno versata dai turisti, che però non vengono reinvestiti interamente per il miglioramento dei servizi turistici della città, come avviene altrove. Con il solo 30%, il Comune di Napoli è all’ultimo posto nella classifica italiana per reinvestimento dei ricavi turistici. Nelle casse di Palazzo San Giacomo ci sono circa 4,5 milioni di euro che il sindaco deve reindirizzare in buona parte sul settore dal quale provengono, anche perché l’offerta alberghiera della città è quasi satura e si prospetta la necessità di creare nuove strutture ricettive. Non meno importante, il potenziamento della comunicazione, davvero carente per una città che non riesce a dire al mondo che i suoi musei sono tra i più ricchi e importanti d’Europa, che in città ci sono tre dipinti di Caravaggio, la Collezione Farnese, il Tesoro di San Gennaro, tanto per dire, e un’offerta complessiva impareggiabile. E poi ci sono le periferie da attenzionare, troppo trascurate rispetto ai quartieri centrali, la raccolta differenziata da incrementare, la pulizia ordinaria delle strade, la sicurezza da migliorare, lo stadio da rifare, e diversi altri problemi cui mettere mano davvero. È questo il lavoro da fare, a testa bassa, in una città che vuol essere a suo modo autonoma e tornare artefice del suo cammino, ma che deve necessariamente fare i conti con un governo settentrionalista. Per ora Napoli si conferma capitale dell’astensionismo. È un dato allarmante che perde peso solo perché la città in cui risultano in coma i partiti e pure gli elettori non è ritenuta prioritaria nel panorama politico nazionale. Riuscirà il sindaco autonomista a ridarle centralità? A proposito, il PD si salva a Milano e a Bologna, ma perde la prima, la terza e la quarta città d’Italia, di fatto in mano all’antipartitismo. Il partito della rottamazione sembra avviarsi, con tutta la vecchia politica, allo sfasciacarrozze. Una bella soddisfazione per De Magistris, sulle cui minacce di incontinenza in molti hanno forse troppo ironizzato.