Dov’è la Vittoria a Radio Goal

A Radio Goal (Radio Kiss Kiss Napoli) due chiacchiere con Lucio Pengue su Dov’è la Vittoria (Magenes).

Napoli mette in mostra un simbolo del suo Rinascimento

Angelo Forgione Dopo la testa di sfinge al Nilo, a Napoli un’altra testa è stata messa a posto. La “Protome Carafa” di Donatello, da ieri, accoglie i visitatori del Museo Archeologico Nazionale.
È innegabile che Napoli viva negli ultimi anni un interessante risveglio culturale e continui a riscoprire le sue antiche vicende. I siti museali del territorio fanno registrare interessanti aumenti di afflussi. Fioccano libri sull’identità napoletana. Nascono nuovi percorsi turistici. Vanno in scena sempre più eventi, nei grandi palazzi e nelle strade. Di contro, sembrano esplodere episodi di marcescenza adolescenziale, che ritengo frutto della recente (e di successo) spettacolarizzazione della malavita.
Insomma, Napoli continua a mostrare il suo eterno dualismo. Più si scrolla di dosso il suo torpore e più sprigiona forze oscure di opposizione alla Luce. Ma il problema è anche e ancora lì, nel mondo dei grandi media. Se accanto alla narrazione delle indegne stese giovanili, ostentazione di protervia in erba, si raccontasse anche di una testa di Donatello messa in mostra, forse qualcuno ben informato svelerebbe di un Rinascimento nato prima a Napoli che nella celebrata Firenze medicea. Racconterebbe di Alfonso d’Aragona, del Beccadelli, del Pontano e della grande stagione umanistica napoletana. Ma “il Magnanimo” era straniero, e nulla fa che spostò la capitale dell’impero catalano-aragonese da Barcellona a Napoli, mentre “il Magnifico” era italiano. Meglio continuare a parlar di Napoli a senso unico, il peggiore, e produrre orgogliosi sceneggiati e dvd sui Medici di Firenze. Non sia che si racconti di un Lorenzo che inviava regali alla Corte di Napoli, e che vi si recò per implorare il ritiro delle milizie napoletane dalla Toscana ed evitare la sua caduta, salvando diplomaticamente la patria fiorentina.
A proposito, il direttore del MANN, Paolo Giulierini, artefice della lodevole operazione “Cavallo Carafa”, è toscano, residente a Firenze.

Portosalvo, la guglia della storia avversata torna a splendere

portosalvo_restauratoAngelo Forgione Immacolata, San Gennaro, San Domenico, Materdei e Portosalvo. Sono i cinque obelischi di Napoli. Uno di questi è uscito dall’abbandono in cui era caduto da decenni. È quello antistante la chiesa cinquecentesca di Santa Maria di Portosalvo e la Fontana della “Maruzza”, all’altezza dell’Immacolatella, alla biforcazione di Via Marina e Via De Gasperi.
È un simbolo di una vicenda saliente della storia di Napoli, realizzato dopo la riconquista del Regno da parte del Cardinale Fabrizio Ruffo che, alla testa dell’esercito della Santa Fede, scacciò i giacobini e restituì ai Borbone quanto sottratto dalle truppe francesi al comando del generale Championnet. A dieci anni dalla Rivoluzione Francese, la Repubblica Napoletana ebbe vita breve e la guglia fu innalzata in ricordo dell’esito favorevole ai reali napoletani in una vicenda epocale destinata a far discutere nei secoli.
L’obelisco celebrativo fu realizzato in piperno, con terminale piramidale sormontato da una croce, e vi furono apposti sui quattro lati dei medaglioni di marmo raffiguranti la Madonna di Portosalvo, Sant’Antonio, San Francesco di Paola – a cui i Borbone erano devoti – e San Gennaro, con cui ci si volle in qualche modo riconciliare. Che aveva combinato?
I militari francesi, appena entrati in città, avevano instaurarono un deciso anticlericalismo e politicizzato il venerato Santo per placare il dissenso dei partenopei, che li consideravano l’esercito dell’anticristo. Championnet, ben informato da Eleonora Fonseca Pimentel sui costumi locali e favorito da alcuni massoni della Deputazione del Santo, aveva imposto con la forza all’Arcivescovo di Napoli, Capece Zurlo, di annunciare lo scioglimento del sangue per salutare l’arrivo dei suoi e legittimarne l’occupazione.

[…] Pure san Gennaro si è fatto giacobino! Ecco il commento del popolo. Ma può il popolo napoletano non essere quello che è san Gennaro? Dunque… Viva la Repubblica!

Questo scrisse Eleonora Pimentel Fonseca sul suo Monitore Napolitano, ma il popolo di Napoli non gradì né i francesi né i giacobini napoletani, e tantomeno l’atteggiamento del Santo. Il cardinale Ruffo aveva destituito San Gennaro, sostituendolo con Sant’Antonio da Padova, la cui festività era coincisa con l’ingresso a Napoli alla guida dell’esercito dei sanfedisti, ingrossato dal popolo di Napoli urlante a gran voce “Viva ‘o Rre!”. Nonostante l’amnistia concessa dal Cardinale, iniziarono a saltare diverse teste in piazza Mercato per la sete di vendetta dell’ammiraglio inglese Nelson, fiero oppositore dei francesi, e della Regina Maria Carolina, ancora traumatizzata dalla decapitazione della sorella Maria Antonietta a Parigi e dal massacro di decine di migliaia di popolani del Regno.
I realisti, San Gennaro non ce lo volevano sul monumento, e nemmeno il popolo, che aveva cominciato a chiedere grazie a Sant’Antonio. Ma Ferdinando IV pronunciò parole di pacificazione in vista della ricorrenza del 19 settembre e fece in modo che la città non ripudiasse il suo Santo, cui era dedicato tra le altre cose il più importante Ordine morale del Regno, riservato ai capi delle grandi famiglie e ai fedeli alla dinastia. San Gennaro ebbe un suo spazio sull’obelisco, ma per riottenere il patronato della città dovette attendere la fine definitiva del giacobinismo e dei Napoleonidi, nel 1815.
Qualche anno dopo, l’obelisco divenne il simbolo di una memoria dannata, quella della monarchia napoletana cacciata da Garibaldi e dai Savoia, e ha del prodigioso il fatto che sia scampato alla furia iconoclasta dei liberali, probabilmente perché simbolo religioso. L’abbandono e la razzia dei bassorilievi condussero la guglia di Portosalvo a un sostanziale oblio e a un grave degrado.

Nel 1998, il Consiglio Comunale di Napoli discusse l’opportunità di un’integrazione culturale che accogliesse una più ampia valutazione storica nel corso delle celebrazioni del bicentenario del 1799. In sostanza, la città decise la rivalutazione di ogni periodo storico, a prescindere che si trattasse di vinti o vincitori. Fu proposto che la degradata guglia borbonica e l’area circostante fossero restaurate. La discussione trovò il consenso dell’allora sindaco Bassolino e fu approvata all’unanimità. 
A quella decisione seguì l’avvio dei lavori di restauro nel 2004, poi interrotti senza che l’obelisco uscisse della rovina. La guglia, con gravi problemi di staticità, restò ingabbiata da una struttura metallica, circondata da rifiuti, avanzi di cibo e bottiglie rilasciati dagli extracomunitari che bivaccavano ed esercitavano l’attività di lavavetri in zona.
Nel frattempo, in epoca di celebrazioni dei centocinquant’anni dell’unità d’Italia, i monumenti e le statue dedicati agli eroi del Risorgimento ritrovavano splendore e visibilità. Poi l’avvento del finanziamento privato del progetto Monumentando a dare finalmente dignità e visibilità all’obelisco borbonico.

Un viaggio nel real gusto neoclassico

Sabato 9 luglio 2016, dalle ore 10.15, arte, cultura e alta gelateria vi attendono. Una speciale sinergia tra Palazzo San Teodoro, Gelatosità ed Angelo Forgione per un‘esperienza che sa d’estate e di storia napoletana. Nelle meravigliose sale della dimora storica di Palazzo San Teodoro alla Riviera di Chiaja, il percorso museale con realtà virtuale (viaggio nella Napoli borbonica con particolare tecnologia Samsung Gear VR) sarà arricchito dalla degustazione del gusto ‘Regno delle due Sicilie’ di Gelatosità, vincitore della tappa napoletana del Gelato Festival 2015: pistacchio di Bronte, cioccolato di Modica, nocciola tonda di Giffoni, arancia bionda di Sorrento e tranci di biscotto nocciola IGP. Per divulgare le origini napoletane dell’architettura neoclassica, i tour delle 11.15, 12.15 e 14.15 saranno arricchiti dalla presenza di Angelo Forgione, che, in modo sapiente, calerà i visitatori nel periodo dei fasti di Napoli al tempo del Regno delle due Sicilie, con un focus sul Neoclassicismo e un racconto sul noto sorbetto napoletano, progenitore del gelato! Al termine del percorso sarà possibile acquistare il suo fortunatissimo libro Made in Naples ad un prezzo speciale.

Evento con prenotazione obbligatoria
Info e prenotazioni al numero 3398798494

Costo: 8,00 euro
degustazione gelato gratuita
acquisto libro Made in Naples facoltativo

Orari dei tour:
10.15
11.15 con Angelo Forgione
12.15 con Angelo Forgione
13.15
14.15 con Angelo Forgione
15.15

Museo di Palazzo San Teodoro Experience
via Riviera di Chiaia 281

Napoli e Venezia, i minuetti ritrovati

Mercoledì 22 giugno 2016, nella prestigiosa Sala del Capitolo del Convento di San Domenico Maggiore a Napoli, alle ore 11,30 sarà presentata la prima edizione a stampa dei 13 Minuetti del musicista Ligure di Scuola Napoletana Pasquale Anfossi ritrovati due anni orsono dai musicisti e musicologi Roberto Allegro e Vittoria Aicardi presso la Biblioteca del Conservatorio di Musica “San Pietro a Majella” di Napoli, con un dibattito dal titolo “Napoli e Venezia – Pasquale Anfossi, il Mare e la storia dell’Ospedaletto”. Riguardo i Minuetti, anticipano il Maestro Allegro e la Dott.sa Vittoria Aicardi, si tratta di pezzi brevi, pregevoli sia da un punto di vista musicale che all’ascolto. Riteniamo che il loro contributo, come quello in generale un po’ tutta la celebre Scuola napoletana (Piccinni, Porpora, Traetta, Paisiello e Anfossi stesso) abbiano influenzato in maniera importante sia il classicismo viennese che lo stesso Mozart». Mozart medesimo, infatti, conobbe ed apprezzò molto Pasquale Anfossi, componendo diverse arie per le sue opere e definendolo, in una sua lettera “molto cognito napolitano”, mentre in un’altra, confermando quanto il compositore tabiese fosse apprezzato e considerato a Vienna, aggiunse “i miei nemici dicono che io voglio correggere l’opera di Anfossi”. Sarà presente oltre all’autore della pubblicazione Roberto Allegro Direttore artistico dell’Orchestra da Camera Italiana “Antonio Vivaldi e Presidente dell’Associazione Musicale “Antonio Vivaldi” di Mortara (Pavia), l’Assessore alla Cultura del Comune di Napoli Nino Daniele, il Critico musicale Stefano Valanzuolo ed Enzo Amato Presidente dell’Associazione Domenico Scarlatti che ha organizzato l’evento in collaborazione con l’Associazione Musicale Antonio Vivaldi di Mortara. In questa occasione, saranno rivelate verità nascoste dell’affresco di Jacopo Guarana presente all’Ospedaletto di Venezia.

1864, Napoli capitale d’Italia. Ma Vittorio Emanuele II disse «no».

Angelo Forgione  Tra gli ideali che ispirarono l’Unità italiana, quello laicista fu sicuramente uno dei più importanti. Rifacendosi alle più avanzate nazioni protestanti europee, gli artefici dell’annessione di Napoli e Roma al Regno d’Italia piemontese dovevano rendersi protagonisti della diffusione di un’ideologia svincolata dalla fortissima tradizione cattolica d’Italia, e contribuire ad allentare lo stretto rapporto con la Chiesa di Roma che aveva sempre caratterizzato la vita degli stati italiani.
A preservare l’autorità del Papa ci pensò un francese, non un italiano. Napoleone III, imperatore di quella Francia “figlia primogenita della Chiesa” piena di cattolici e di un consenso da preservare, piazzò le sue truppe in territorio romano mentre il Piemonte incamerava parte dello Stato Pontificio, e fu un bel problema per Garibaldi ma anche per  la pletora sabauda. Vi era bisogno di tutta la scaltrezza piemontese per risolvere la rogna, anche perché la posizione geografica di Torino, troppo vicina al confine nemico, la condannava a non essere per troppo tempo la capitale d’Italia. Le trattative diplomatiche portarono alla Convenzione di settembre del 1864, con cui il Re di Francia si impegnò a ritirare gradualmente i suoi uomini in cambio dell’impegno a non invadere il territorio pontificio. A garanzia degli impegni presi dai piemontesi, il sovrano francese impose il trasferimento della capitale in un’altra città, cosa che avrebbe dovuto provare la definitiva rinuncia alle seducenti mitologie di Roma capitale dell’Italia laica. I piemontesi miravano semplicemente a far sloggiare i garanti di Pio IX, per poi rompere i patti alla loro maniera. C’era solo da rinunciare in anticipo ai ministeri di Torino, alle ambasciate e ai fiumi di danaro pubblico, e da affrontare la rivolta dei cittadini torinesi, convinti che in assenza di Roma dovesse farne le veci solo la loro città, ormai pienamente interessata dagli investimenti per l’edilizia espansiva. Sommossa repressa nel sangue di cinquantacinque uomini disarmati, ma ormai tutto era già deciso: la capitale doveva trasferirsi altrove. Furono proposte Firenze, sostenuta dal Consiglio dei generali perché non esposta all’aggressione marittima, e Napoli, preferita dal consiglio dei ministri in quanto maggior metropoli italiana, lontana dal confine e meno esposta a un eventuale intervento austriaco richiesto dal Papa, ex capitale rispettata in Europa, la terza più popolata del Continente e già pronta a ricevere i dicasteri senza necessità di grandi spese, città di cultura degna delle grandi capitali europee. Tale scelta, secondo i sostenitori dell’ipotesi, avrebbe potuto contribuire a sradicare il brigantaggio meridionale che metteva a rischio la compattezza geografica. Prevalse la piccola Firenze, ma la volontà fu più che altro sovrana. Vittorio Emanuele II sapeva quanto fosse rilevante il peso di Napoli agli occhi dell’Europa e cercò di evitare che tornasse capitale. Il Re, invitato ad esprimere il suo pesante parere ai ministri, indirizzò la scelta verso la città toscana:

«Andando a Firenze, dopo due anni, dopo cinque, anche dopo sei se volete, potremo dire addio ai fiorentini e andare a Roma; ma da Napoli non si esce; se vi andiamo, saremo costretti a rimanerci. Volete voi Napoli? Se ciò volete, badate bene, prima di prendere la risoluzione di andare a stabilire la capitale a Napoli, bisogna prendere quella di rinunziare definitivamente a Roma.»

Tutti a Firenze! Una città di poco più di centomila abitanti invasa dalle istituzioni, dal Parlamento, dal Re, dalla corte e di tutto ciò che necessitava una capitale. Trentamila burocrati piemontesi a sconvolgerne le abitudini, le tradizioni e l’urbanistica. Ma gli uomini del “Re Galantuomo”, che gli accordi li prendevano per romperli, attesero che Roma fosse defrancesizzata e, dopo cinque anni e mezzo, invasero lo Stato Pontificio. Pio IX si ritirò in Vaticano, dichiarandosi “prigioniero d’Italia” fino alla morte, e si rifiutò di riconoscere la legge delle Guarantiglie, con cui il Regno d’Italia dei Savoia intese regolare i rapporti con la Santa Sede. Il Pontefice vietò ai cattolici di partecipare all’attività politica italiana e scomunicò tutti coloro che avevano partecipato al processo risorgimentale, a partire dai Savoia, ma si trovò di fronte l’ambigua figura di Vittorio Emanuele II, ricorso ai poteri forti d’Europa e alla Massoneria internazionale per coronare l’unificazione nazionale anche contro il Cattolicesimo, nonostante fosse riconosciuto religione di Stato dall’articolo 1 dello Statuto Albertino del Regno di Sardegna, poi esteso all’Italia unita. Pio IX scomunicò il primo re d’Italia per ben tre volte lungo l’arco della sua trono tricolore, ma ritirò il provvedimento nel 1878, in punto di morte del baffuto piemontese, inviando un sacerdote al suo capezzale per impartirgli l’assoluzione, poiché il primo sovrano dello stato nazionale italiano, comunque cattolico, non poteva e non doveva morire senza sacramenti.
Il Vaticano e l’Italia restarono separati in casa fino all’avvento del Fascismo, nel primo Novecento, mentre a rappresentare il rafforzato potere laico contrapposto alle forze conservatrici e clericali ci pensò la Massoneria. Il Potere temporale fu in qualche modo riabilitato dai negoziati tra Benito Mussolini e Pio XI, culminati nei Patti Lateranensi, con cui fu siglato un reciproco riconoscimento tra Regno d’Italia e Stato Vaticano. Fallita sul nascere la creazione di un Paese condiviso e giusto, naufragava  anche lo scopo fondante di sradicare la sua appartenenza religiosa.

Una chiacchierata Made in Naples con Raffaella Iuliano

“‪‎Napoli‬ è femmina. Mediterranea, seducente, sinuosa, formosa […]“.
Una piacevole chiacchierata Made in Naples con Raffaella Iuliano per la trasmissione ‘Spakkanapoli’ (Canale 9), sullo sfondo suggestivo della Reggia di Capodimonte nel “bel” mezzo di una tempesta di vento.

Stemma Due Sicilie nello spot McDonald’s, l’incursione identitaria del dottor Antonio

spot_mcdonalds_2Angelo Forgione Lo stemma del Regno di Napoli (e delle Due Sicilie) finisce pure in uno spot di McDonald’s. Strana citazione, che potrebbe sembrare figlia di una strategia subliminale per corteggiare i napoletani, quelli che il cibo veloce, quello di strada, l’hanno inventato; quelli che, col loro amore per la pizza e le tante ghiottonerie locali, rendono la loro città tra le meno “fastfudizzate” d’Italia. E invece di subliminale c’è solo l’irrefrenabile voglia di una delle comparse di ostentare il proprio sentimento identitario, e scusate se è poco. L’incursione è di Antonio Mocerino, napoletano, laureato alla Bocconi di Milano, che si è presentato in scena, nel giorno delle riprese, con una maglia nera serigrafata di storia napoletana (Napoli Tà-Ttà) alla quale è fortemente legato e con l’intenzione di diffonderla, in qualche maniera, attraverso lo spot. Pochi secondi di apparizione e ancor meno speranze di essere colto a girato montato. Certo, ci vuole occhio per notare la sua maglia, intento a sbattersi alla chitarra insieme a tutta la rock-band, sullo sfondo di un cliente del fast-food che mangia un panino. Eppure…
Antonio legge un mio post sulla mia fanpage facebook, apprende che ho notato lo stemma e mi scrive, inviandomi un suo selfie sul set, fiero di essere stato colto: La produzione non sapeva nulla del significato del simbolo ed io ne ho approfittato indossando la maglietta con l’intenzione di diffondere la nostra storia attraverso lo spot. Però non immaginavo mai che qualcuno potesse accorgersene. E sono enormemente onorato che sia stato proprio tu. Ti stimo molto e ti seguo da tanto. Tant’è che indirettamente, coi tuoi libri, col tuo blog, i tuoi articoli e i video, mi hai aiutato molto a scrivere la mia tesi di laurea La scienza, i media e il mito dell’Unità d’Italia (pubblicata sul sito del comitato Nolombroso), discussa davanti ad una commissione di un’università milanese. Spero di incontrarti di persona un giorno!”.
Sarà un piacere stringere la mano di Antonio, dottore in comunicazione identitaria.

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Perfido Caprarica: «Barboni vs Windsor è sceneggiata napoletana contro dramma shakespiriano»

Angelo Forgione Antonio Caprarica, leccese di nascita ma inglese di auto-adozione, in un intervento alla trasmissione Tagadà (La7) riduce il revisionismo storico meridionalista a sceneggiata napoletana, e la sottopone al dramma shakespiriano della “sua” Inghilterra. «Barboni», sì, proprio barboni ha definito gli ultimi Re di Napoli, poveri accattoni al cospetto dei nobili Windsor. E definisce bufala il travaso dell’oro del Banco di Napoli al Banca Nazionale, come se la Legge del corso forzoso del 1866 fosse un’invenzione. Ne prende le distanze in quanto meridionale, ovvero di diritto uno di quelli che potrebbe “sfruttare gli interessi della bufala”. E poi ci racconta che la monarchia vive se non è contro il popolo, intendendo sottilmente che i Borbone sono decaduti perché contro i napoletani, che però li hanno rimessi sul trono nel 1799 e hanno salutato favorevolmente la restaurazione del 1815, che chiudeva i tumulti napoleonici. Semplicistico parlare di rivoluzioni risorgimentali, fomentate dalle aspirazioni di una minoranza del ceto medio, mentre Ferdinando II attuava una politica interna vicina al popolo. Che la monarchia britannica sia rimasta sul trono lo si deve all’imperialismo e alle massonerie d’oltremanica, di cui Napoli ha fatto le spese. La Regina Elisabetta sarà pur longevissima, ma Caprarica sappia che deve ancora battere il record di Ferdinando I, sul trono tra il 1759 e il 1825: 66 anni tra mille insidie, a cavallo della Rivoluzione francese e degli sconvolgimenti napoleonici. Elisabetta, nei suoi 64 anni di regno post-bellico, dopo le bombe sganciate dagli Alleati anglo-americani per inginocchiare Napoli, ha potuto godersi persino le Olimpiadi.
Qui da noi, nel Sud-Italia, se c’è un dramma, quello è la “questione meridionale”, e non è shakespiriano. Le sceneggiate le lasciamo ai libri sull’amata “perfida Albione” di Caprarica, in cui è ben descritta la pompa cerimoniale che ruota intorno alla monarchia britannica. La classe politica d’Oltremanica sa che una monarchia debole è la migliore garanzia di governo, molto meglio di un presidente della repubblica ficcanaso, alla Napolitano. Il vero re in Gran Bretagna è il Primo Ministro. Né Tony Blair né quelli che attendono il momento di succedergli hanno interesse a mettere in discussione un sistema che garantisce, meglio di una democrazia repubblicana, il loro potere. Continui pure a scrivere i suoi libri, il buon Antonio. Noi che scriviamo quelli sulla Magna Grecia ben sappiamo che il dramma meridionale, anche leccese, non nasce a Torino ma a Londra.

Briganti dell’informazione sul palco di Giugliano

Tratte dalla diretta televisiva di TeleClubItalia, le interviste ad Angelo Forgione, l’editore Gino Giammarino e Gennaro De Crescenzo (Mov. Neoborbonico), realizzate dopo il dibattito culturale moderato da Sara Giglio (Radio CRC), tenuto nella centrale piazza Matteotti di Giugliano (NA) nell’ambito della manifestazione ‘La Tammorra dei Briganti’.

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