Nagatiello: «felice di restare a Milano perché sono napoletano»

Yūto Nagatomo, calciatore dell’Inter, in conferenza stampa dopo il rinnovo di contratto con i nerazzurri fino al 2019: «Mi trovo bene con i miei compagni di squadra. Lo posso dire, sono diventato quasi napoletano».
Lo scorso mese, così il suo ex CT in nazionale, Zaccheroni: «Nagatomo è molto più aperto di altri giapponesi, lo considero mezzo napoletano da questo punto di vista».
Quando, circa sei anni fa, arrivò in Italia, a Cesena, Nagatomo si mise a “studiare” le canzoni napoletane e si interessò alla cultura vesuviana. Per la sua simpatia e per le sue cantate e ballate partenopee, in Romagna lo chiamarono Ciro Nagatiello. E lui, Ciro Nagatiello, dopo cinque anni di Milano e uno di Cesena, si dice felice di restare in Italia, perché ormai mezzo napoletano.
Ancora una dimostrazione di quanto l’immagine dell’Italia intera all’estero sia pantografia di Napoli, la sua anima più viva ed espressiva, nel bene e nel male. Le positività di Napoli, al netto delle negatività, sono essenza del buon vivere e dell’italianità nel mondo.

nagatomo(l’immagine è frutto di un fotomontaggio)

Roberto Mancini e il bigottismo che non incanta

Angelo Forgione Maurizio Sarri dà del “finocchio” a Roberto Mancini, e finisce in squallida rissa verbale una partita di Coppa Italia tra due delle prime tre squadre del campionato. L’allenatore azzurro ha sbagliato e ha compiuto metà del suo dovere chiedendo scusa. Ciò detto, ‪‎Mancini‬, l’immenso Mancini che mi deliziava quando era calciatore, ha esagerato nel non accettarle per poi correre ad avvelenare i microfoni, alzando un polverone. Il Calcio non ha bisogno di certe tensioni. Razzismo confuso con omofobia, ma fu proprio il Mancio colui che definì «semplici sfottò» i cori e gli striscioni razzisti riservati ai napoletani durante il match Inter-Napoli del 7 Ottobre 2007 (“napoletani tubercolosi”, “colerosi”, etc.), e che incolpò i giornalisti: «iniziate a non farli vedere quegli striscioni. Siete dei falsi moralisti!», mentre il collega sull’altra panchina milanese Carlo Ancelotti lo stigmatizzava. Falso moralista è lui; ed è lui, più pericoloso del Sarri pentito, che nel Calcio avvelenato d’Italia, già abbondantemente disgustoso, non ci può stare.
Altro che lezioni britanniche! Bigottismo eletto a modello sportivo, utile magari a destabilizzare l’ambiente della capolista, in cui tutto, fin qui, è proceduto inaspettatamente a gonfie vele! Non ci caschi il Napoli! Mi è crollato un idolo della mia adolescenza, che già vacillava da quel 7 ottobre 2007.

Il Napoli come Napoli, regine d’inverno

Angelo Forgione Giro di boa della Serie A 2015/16, e il Napoli è davanti a tutte. Due vittorie convincenti alla ripresa, la tanto temuta ripresa dopo la pausa natalizia, e la squadra azzurra si è presa la testa, nuovamente. Incalza la Juventus, appaiata all’Inter, ma con un’inerzia decisamente diversa da quella dei nerazzurri, partiti di slancio e poi ripresi dalle due squadre più lente nell’uscire dai blocchi di partenza. Sì, perché Napoli e Juventus, alla quinta giornata, erano ai posti 12 e 13, lontane 9 e 10 punti dall’Inter. La sensazione netta è che il nome della squadra campione d’Italia verrà fuori da questo terzetto, precluso alla Fiorentina degli inciampi e all’arenata Roma.
Ma se la posizione della Juventus non desta sensazione, stupisce quella del Napoli, più per il gioco espresso che non per la classifica. Il fatto è che la squadra si diverte agli allenamenti, scende in campo per vincere ma senza la pressione di chi deve farlo per missione. Poi vince, stravince e fa divertire, e va pure a festeggiare coi propri tifosi. L’idillio è palese, l’afflato pure. Il fatto è che l’amore che i calciatori fanno coi propri tifosi si consuma ad ogni vittoria, non solo contro le più blasonate rivali storiche. Con il Frosinone come contro la Juventus. Non c’è in ballo la vittoria che vale una stagione ma la stagione che vale una vittoria. Si guarda a Maggio, flirtando con lo scudetto. Ma intanto si amoreggia in casa. È un’energia sessuale che fluisce ininterrottamente, che risplende in quella danza di fine partita, coi calciatori e i tifosi che si guardano occhi negli occhi, saltellando e battendo le mani. È una tarantella del pallone, una danza erotica dopo l’orgia del campo che propizia quella del trionfo finale. Qualcuno ammonisce sulla perniciosità del rito orgiastico, non conoscendo la natura dell’energia partenopea, che non conosce polarità. Tutti danno, tutti ricevono. Solo chi si immerge in questa vitalità può capirla. Un certo Ibrahimovic Zlatan, giramondo del pallone, Re senza regno, c’è riuscito per caso, catapultato sul prato del ‘San Paolo’ per accompagnare Ciro Ferrara ai chiodi per le scarpette in un lontano giorno di giugno del 2005. Si ritrovò nel cratere di un vulcano in eruzione, e fu marchiato a fuoco. I suoi occhi videro Maradona, Re dei re, in maniche di camicia, anche se tondo e pieno come il San Paolo, riabbracciato e asfissiato dai napoletani. Una bolgia infernale. E un pensiero nato quella sera nel fuoriclasse svedese, nomade del pallone: far impazzire il ‘San Paolo’ e prendersi, un giorno, quell’energia. Lo confidò ai suoi compagni della Juventus che dominava prima di finire in polvere e vergogne, mentre il Napoli annaspava in Serie C, destinato ad essere frenato dall’Avellino. Lo svedesone lo disse anche al suo manager, Mino Raiola: «Un giorno piacerebbe pure a me essere accolto come Maradona. Non posso concludere la mia carriera senza aver giocato con la maglia del Napoli». Avrebbe giocato nell’Inter, nel Milan, nel Barcellona, nel Paris SG. Desiderio azzurro mai realizzato, perché sogni e soldi, nel Calcio moderno, difficilmente si sposano. Zlatan è a Parigi, nel nuovo El Dorado del pallone, dove ingrossa il suo conto in banca, come Edinson Cavani, che il trono di Maradona lo ereditò e poi lasciò il regno dell’amore per quello del danaro. E dalla fredda Parigi, recentemente, ha chiarito: «La realtà è che oggi devo rendere al massimo per il PSG, ma Napoli rimane nel mio cuore». Come dire: “i soldi mi hanno portato qui, lontano da dove ho lasciato il cuore”. Percorso inverso per Pepe Reina, che pure ha conosciuto il calore di Barcellona e Liverpool, ma il suo cuore si è fermato a Napoli. Dodici mesi in prestito per rimpiangerla da Monaco di Baviera, e poi il ritorno tanto voluto, dopo tante fughe di piacere e continui tweet in napoletano. Stipendio ridotto da 4,2 milioni all’anno a 2,8 pur di riabbracciare Partenope: “Napoli è felicità, sono tornato per questo, è il posto giusto per me e la mia famiglia, dopo un anno non abbiamo resistito”.
Napoli che vince e festeggia le vittorie si prende la copertina di metà percorso, effimera ma benaugurale. Squadra che cerca di sovvertire il pronostico, le statistiche, la storia e l’ordine precostituito, che cerca di piegare il Nord del Calcio, che lavora al colpo di Stato. E già si alza da lontano lo stantio refrain del riscatto cittadino, come se il Calcio avesse il potere di risolvere i problemi sociali. Il fatto è che Napoli, nonostante tutto, vince non solo nel Calcio. È la città che, silenziosamente e senza doping governativo, ha fatto registrare il maggior incremento turistico d’Italia nell’ultimo anno, con gran picco nel recente mese di Dicembre, ricomponendo il quadrilatero storico (con Roma, Firenze e Venezia) amputato dal colera del 1973. Non dovrebbe essere una sorpresa, ma è l’ingiusta propaganda che si continua a proporre della città vesuviana a far gioire e sperare per il futuro. Napoli che conquista le vittorie con le sue forze, tra le difficoltà. Napoli che se la vivi ti innamori, proprio come la sua squadra. Napoli che può vincere.

Quando il calcio diventa geopolitica

Intervista di Domenico Romeo per lameziainstrada.it

dlv_cover_1Calcio che diventa archivio statistico, che a sua volta si tramuta in storia che collima con la geopolitica economica della Nazione.
È il mix del meraviglioso libro Dov’è la Vittoria (Magenes editore), secondo lavoro letterario di Angelo Forgione.
Un libro fuori dagli schemi, che rompe le barriere delle tradizionali e conformiste ‘scie’ di raccontare il mondo dello sport, sviscerando ogni fenomenologia sociale, macroeconomica e politica, annessa e connessa con un mondo per larghi aspetti a noi ancora sconosciuto.
Esce fuori un elaborato che induce a riflettere, che mette in luce gli aspetti controversi del mondo del calcio, partendo dalle origini, riconducendosi ai tentacoli delle lobby economiche, alle tipologie di distribuzione del potere da parte dei ‘potentati’.
Ne parliamo con l’autore.

Nel testo lei espone, esplicitamente, difformità economiche nel panorama Sud-Nord del Paese che si riflettono anche nel calcio. A suo avviso, come si è sviluppata all’origine questa sperequazione?

Tutto succede dopo l’Unità del 1861. L’Italia era nel suo complesso ben più arretrata rispetto alle Nazioni che guidavano lo sviluppo europeo. Si trattava di un Paese con un’élite legata a interessi agrari, e non esisteva una reale differenza tra Nord e Sud in termini di ricchezza, seppur vi fossero precise caratteristiche e diversità territoriali. Da quel momento prese piede la piemontesizzazione, i prestiti bancari furono impiegati per supportare la nascita dell’industria settentrionale nel triangolo Torino-Milano-Genova e le commesse statali furono dirottate al Nord.  Ed è proprio lì, dove si concentrava ormai l’offerta di lavoro, che vennero fondati i club che disputarono i primi campionati italiani, detti nazionali, ma che, in realtà, erano esclusivamente settentrionali, aperti a sole squadre lombarde, piemontesi e liguri. Il Calcio italiano è ancora fortemente a trazione settentrionale, e lo dimostra non solo la forte sproporzione di scudetti vinti dalle squadre del Nord rispetto a quelle del Sud ma anche la scarsa presenza storica di squadre meridionali in Serie A, che non va oltre il 20%. Come ho scritto nel libro, la Serie A assomiglia alla Major League Soccer americana, un torneo in cui una manciata di squadre canadesi si misurano con quelle statunitensi.

Tali difformità hanno causato una forma di accentramento industriale in talune Regioni. A suo avviso, questo trend potrà subire variazioni d’equilibrio?

Finché strade, ferrovie, porti e aeroporti non saranno sviluppati come al Nord sarà inutile costruire fabbriche al Sud. Le merci prodotte farebbero fatica ad essere sdoganate e ne conseguirebbero prezzi poco concorrenziali. È già successo ai tempi della Cassa del Mezzogiorno. Pensiamo all’autostrada Salerno-Reggio Calabria, presa in carico dall’ANAS nel 1962 e ancora in via di realizzazione, mentre l’autostrada del Sole Milano-Napoli fu compiuta in soli otto anni per volontà di un consorzio privato settentrionale costituito da Fiat, Eni, Pirelli e Italcementi. L’Alta Velocità ferroviaria si ferma a Salerno. In Basilicata, Sardegna e Sicilia non circolano neanche i più lenti Frecciabianca. Per il porto di Gioia Tauro, il più grande hub del Mediterraneo, non c’è collegamento intermodale e lo scalo calabrese è chiuso in un isolamento che ne limita le grandi potenzialità. Senza un ripensamento del sistema-Paese è inutile parlare di industrializzazione del Sud.

Parliamo di un concetto richiamato nel testo: quello del rischio di una colonizzazione economica che assoggetta una restante parte d’Italia, manifestandosi anche nel calcio. Vuole essere maggiormente esplicito in ciò?

Non c’è la volontà di rendere concorrenziale il Mezzogiorno, che deve restare un mercato delle merci settentrionali. Dopo la guerra, gli stanziamenti del Piano Marshall furono impiegati in grandissima parte per rimettere in piedi il “triangolo industriale” e il presidente di Confindustria dell’epoca, il ligure Angelo Costa, disse al sindacalista pugliese Giuseppe Di Vittorio che era più giusto portare operai meridionali al Nord che fabbriche al Sud. Oggi nulla è cambiato. La verità è che il sistema di sviluppo italiano è frutto di volontà ben precise che tendono a lasciare al Nord la maggior quota di ricchezza prodotta e le migliori infrastrutture, e a tagliare fuori mercato il Sud, al quale si lasciano sussidi e trasferimenti statali per diseducarlo alla produttività e per strozzarne l’autonomia. Il Sud assistito è funzionale al sistema, perché lo si può accusare piuttosto che dotare di infrastrutture e fabbriche, più utili alla produzione in concorrenza.

Nel libro da lei scritto, parla di una fenomenologia peculiare riferibile al concetto di ‘napoletanità’ intesa come appartenenza ad una Nazione. Cosa intende?

Napoli è una Nazione nella Nazione. Fino al primo Novecento è stata la città più popolosa d’Italia, un primato detenuto per secoli. Al momento dell’Unità era l’unica città degna di rappresentare la capitale del Paese. Fu invasa e annessa, e resta sempre una capitale abrogata che mantiene la sua identità “napolitana” più che italiana. Nel calcio, questo si traduce nell’interpetazione di un vessillo, quello azzurro, sotto il quale cercare una dignità cancellata. È il riferimento unico di una vasta provincia che, con i suoi 3 milioni di abitanti circa, è la terza d’Italia per popolazione, e non condivide il territorio con nessuno, diversamente da quanto accade a Roma, Milano, Torino e in tutti i maggiori centri del Vecchio Continente. È l’unica città del Sud che non lascia troppo spazio al tifo per le squadre del Nord, e che non si abbandona a una doppia fede, ovvero un concomitante sostegno per la squadra locale e per una del Nord in grado di vincere. Il legame tra i napoletani e il  Napoli non ha eguali, e vi si avvicina solo quello tra i romani e la Roma.

Calcio, malavita e lobby industriali: un legame che cammina a prescindere del territorio?

Dietro allo spettacolo calcistico si celano interessi enormi. Nel libro c’è tutta una parte dedicata agli scandali che dal ventennio fascista hanno coinvolto il nostro Football ad ogni latitudine, e a ben leggere si evince una manipolazione maggiore da parte del calcio settentrionale. La lotta per il trono tra le tre grandi del Nord si è svolta spesso fuori dal campo, attirando la complicità di istituzioni, politici e centri di potere, e alimentando un sistema corrotto generale che si è palesato più volte nelle aule di tribunale, tra ripetuti scandali e crac finanziari. Al Sud, la malavita ha i suoi interessi nelle categorie minori e il suo scopo nel riciclaggio di denaro sporco e nelle scommesse, rappresentando di fatto un limite per il movimento meridionale.

Calcio ed equilibri. Negli anni ottanta e novanta il Nord Italia presentava una Serie A composta da: Como, Bergamo, Brescia, Milano, dunque città lombarde. L’Emilia Romagna rispondeva qualche anno dopo con: Bologna, Modena, Reggio Emilia, Parma, Piacenza, Cesena. Solo qualche anno fa il Centro-Sud d’Italia presentava queste città: Roma, Cagliari, Palermo, Catania, Messina, Reggio Calabria, Bari e Lecce, per poi ritrovare il grande ritorno di Napoli ( alla data dell’intervista in testa al campionato  dopo 25 anni). Riguardo a quest’ultima casistica, come si è potuto verificare un evento simile per la prima volta nella storia d’Italia ? È riproponibile secondo lei?

Sì, si è registrata una buona presenza di squadre meridionali tra il 2008 e il 2011, pur non superando mai il 40% del totale. Ma la resistenza di quelle squadre dimostra che si è trattato di un exploit storico. Oggi, di quell’ondata, è rimasta solo l’onnipresente Roma, il rifondato Napoli e il Palermo, che pure è retrocesso. Cagliari e Bari sono in B, Catania, Lecce e Messina in Lega Pro, la Reggina addirittura in Serie D. In Serie A, oggi, milita il Frosinone, che è davvero un caso limite per il Calcio del Sud. Il problema vero è quello di assicurare ai sodalizi meridionali quella continuità e solidità che fa meno difetto ai club settentrionali.

Nel testo lei propone dati storici ed economici. Di chi si è avvalso al fine di curare l’attendibilità delle fonti?

Le fonti sono citate nella bibliografia, e poi ce ne sono tante altre che cito nel manoscritto ad ogni dato saliente. Direi comunque che è fondamentale la possibilità che abbiamo oggi di accedere alle emeroteche digitali, che consentono di leggere gli articoli dei quotidiani d’epoca. Il resto lo fa la visione storica dello scrittore, che con intuito deve saper mettere in relazione gli eventi sportivi con quelli economici e politici del Paese nei vari periodi storici.

All’interno del mondo del calcio che riscontro ha avuto il suo libro fra gli addetti ai lavori? (Presidenti, calciatori, giornalisti, etc).

È un saggio storico che vuole raccontare il mondo del calcio oltre il rettangolo di gioco, e per far questo ho dovuto mettere le mani anche dove c’era da sporcarsele. È ovvio che il mondo del calcio non abbia alcun interesse a dar risalto a un saggio che lo dipinge meno scintillante di quanto appare, ma questo lo sapevo già. Un grande editore si era anche interessato alla pubblicazione, e certamente avrebbe assicurato maggiore spinta al prodotto, ma poi sono sorti dei conflitti di interesse. La cosa più importante è che il libro sia comunque uscito e che i giornalisti di indagine ne abbiano apprezzato e condiviso il contenuto. La prefazione di Oliviero Beha è la migliore testimonianza di un lavoro evidentemente ben fatto.

La testa del Napoli in testa potrebbe essere spenta o non raggiungibile

higuain_testabassaAngelo Forgione Cos’è accaduto al Napoli dei 13 risultati utili, quello che con 9 vittorie e 4 pareggi si era meritatamente issato in testa alla classifica? Neanche il tempo di riassaporarne il dolce gusto e subito ingoiato un boccone amaro. 25 anni e 7 mesi per ritrovarsi in vetta e soli 6 giorni per perderla. Per giunta, neanche una partita disputata da capolista, visto che l’inseguitrice (Inter) aveva scavalcato gli azzurri prima che andassero in campo e le prendessero dal Bologna. È, il Napoli, davvero incapace di tenere il vertice?
Sostengo nel mio Dov’è la Vittoria, dati alla mano e a compiuta analisi, che i club del Calcio meridionale hanno davvero poche possibilità di raggiungere i più alti traguardi ma anche che qualche chance c’è. E quando l’occasione si presenta bisogna giocarsela fino in fondo e con determinazione. Quello in corso è un campionato davvero atipico, fuori dallo standard del nostro Calcio, connotato da tante forze incrociate che si alternano di domenica in domenica. Inter, Roma, Fiorentina, Napoli, e poi di nuovo Inter in testa, con la Juventus, inizialmente attardata, che ringrazia e ne approfitta. Non una squadra “ammazzacampionato” e opportunità per tutti. Vincerà chi avrà migliori ricambi, più fiato di tutti al traguardo e, soprattutto, chi ci avrà messo la convinzione di farcela lungo tutto l’arco della stagione. È in questo che il Napoli ha mostrato il più preoccupante dei segnali, perché una volta agguantato il primato solitario è crollato sulle gambe tremanti, come un palazzo dalle fondamenta fragili sotto la spinta di una leggera scossa di terremoto. Tutto è iniziato al minuto 62 della battaglia contro l’Inter, fin lì dominata e poi improvvisamente ribaltata nell’inerzia ma non nel risultato. Lì il Napoli tosto, che per mesi aveva inseguito la vittoria a prescindere, ha abbandonato il terreno di gioco, lasciandolo a una squadra gemella ma con una testa diversa, timorosa di perdere il primato raggiunto, rinculata nelle sue paure per i restanti 30 minuti e assistita dai pali della propria porta nell’ultimo giro di lancette. Con questa testa un’euforico e scarico Napoli è salito a Bologna, prolungando lo sciagurato finale contro i nerazzurri. Del Napoli convinto, solo la controfigura, tradito dall’appagamento per un effimero traguardo parziale e schiacciato dalla pressione del primato già nuovamente sottratto dall’Inter qualche ora prima. È mancata la giusta concentrazione, soprattutto in fase difensiva. È mancata la giusta determinazione. È mancato l’approccio che le squadre che vincono i campionati ci mettono ogni domenica. Napoli, più che dal solito Mazzoleni, bloccato dalla paura di perdere immediatamente il primato e dal furore del Bologna (a proposito di testa!), pronto a triplicare le forze per uscire sul portatore di palla e, soprattutto, sul ricevitore. Anche i felsinei hanno confermato quanto conti la testa, credendo di averla vinta sul 3-0 e smettendo di sudare, consentendo al Napoli di ridimensionare la disfatta.
Per stare in vetta bisogna essere convinti di poterci stare. Nasce un pericoloso disorientamento quando il presidente preconizza un maggior margine di vantaggio a Natale e l’allenatore, invece, smorza le ambizioni rifacendosi agli obiettivi ipotizzati a luglio che possono far sentire appagati i calciatori. Quando una squadra raggiunge la prima posizione, gioca bene e raccoglie consensi internazionali, vuol dire che vi è concretezza tecnica, e allora bisogna guardarsi in faccia, tutti, e ridefinire gli obiettivi e stabilire una linea comunicativa comune. Le due cose, quando c’è di mezzo lo scudetto, non devono andare d’accordo, ma ciò che deve coincidere sono le parole in pubblico dei dirigenti e dello staff tecnico, a prescindere dal fatto che si racconti la verità o che la si nasconda.
La sensazione è che, in questo strano campionato, il Napoli, con qualche innesto a Gennaio, potrà dire la sua. L’occasione per il Sud del Calcio non può essere gettata alle ortiche. Ma bisogna crederci veramente, e mettersi in testa che in campo bisogna andarci per vincere; e se gli avversari fiatano sul collo bisogna sputare sangue. La psicologia è fondamentale anche nello sport, soprattutto ad alti livelli, e Sarri lo sa bene, perché era stato proprio lui a dire un mese fa, dopo la vittoria contro il Midtjylland, che non temeva cali fisici se la testa dei ragazzi avrebbe continuato a rispondere. Domenica scorsa quella testa, in testa, era spenta, o fuori campo.

tratto da Dov’è la Vittoria (Magenes, 2015) – pag. 50, capitolo “Prima il Nord”

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Napoli in vetta, meritatamente!

Angelo Forgione Napoli in testa al campionato di Serie A dopo 25 anni e 7 mesi. Non è poco per chi quel 29 aprile 1990 non immaginava che dietro il sole del secondo scudetto si addensavano le nubi del dramma umano di Maradona, del conto da pagare per un lustro al vertice e del fallimento doloroso. Ed è tanta roba per i più giovani sostenitori partenopei, che dall’attico della Serie A non si sono mai affacciati. Gli azzurri, tornati solitari in cima ai danni dell’Inter, hanno ora l’obbligo di tornare subito in catena di montaggio delle vittorie e presentarsi all’esame Bologna scarichi dell’euforia di una piazza non avvezza alle vertigini. Non lo è neanche la squadra, e la partita contro i nerazzurri di Milano, dopo 70 minuti di dominio, l’ha evidenziato. Col doppio vantaggio e l’uomo in più è subentrata la certezza di aver domato gli avversari, e l’imperdonabile calo di concentrazione ha consentito a Ljajic di trovare il goal che ha disintegrato le convinzioni degli uomini di Sarri, piombati nella paura di perdere punti, vittoria e primato. Tutta l’inerzia dei 20 minuti finali ha preso la direzione della squadra di Mancini, in inferiorità numerica ma in superiorità psicologica e atletica. In quell’ultimo quarto di partita è affiorata tutta la storia di un club ben più avvezzo alla contesa di vertice, di una squadra quest’anno costruita per non fallire i primi due posti, di una compagine che non disputa le competizioni europee e che, perciò, ha potuto spendere qualcosa in più nel rettilineo finale. Ma di fronte ai gatti nerazzurri improvvisamente diventati leoni c’era la dea bendata, necessario rinforzo, e due uomini in maglia azzurra coi nervi più saldi di tutti: Higuain e Reina, di quelli che chiami fuoriclasse a ragion veduta perché capaci di indirizzare un risultato. E Il Napoli ha portato a casa l’intero bottino, afferrato sin dal primo minuto con una cannonata che ha abbattuto la porta avversaria e messo a rischio nell’ultimo. Il fischio finale ha detto che Napoli e Inter possono essere primedonne fino in fondo, che il Napoli è competitivo pure se mancano cambi come Mertens e Gabbiadini, perché ha uomini più decisivi e un impianto di gioco più convincente, e che l’Inter, obbligata a far sul serio, fa sul serio e, diversamente da Napoli, Roma, Juventus e Fiorentina, può beneficiare del prezioso riposo infrasettimanale.
Passata la paura è iniziata la festa liberatoria sugli spalti, purtroppo senza ‘o surdato nnammurato (sempre più dimenticato), e pure uno strano dibattito mediatico. Pare che sia stata l’Inter la vincitrice dello scontro al vertice, e che il Napoli ne sia uscito ridimensionato. Il dibattito lo ha indirizzato immediatamente Mancini, attaccando verbalmente gli opinionisti arbitrali, definiti bugiardi e inadeguati, e riversando sui microfoni tutta la bile per l’espulsione di Nagatomo, che però era stata decretata da due gialli ineccepibili. Un’irruenta ginocchiata alle terga di Callejon che aveva già lasciato il pallone, descritta dal Mancio come simulazione dell’azzurro, e una sconsiderata entrata su Allan valgono l’eslusione per doppia ammonizione, diretta conseguenza di un atteggiamento annunciato alla vigilia da Felipe Melo («bisogna menare Higuain») e confermato da Guarin al fischio d’inizio, colto dalle telecamere mentre chiedeva a Murillo, con eloquente gesto, di essere poco tenero con gli avversari. E l’allenatore interista, che aveva evidentemente caricato i suoi in tal senso per cercare di arginare il gioco partenopeo, e che a Napoli prese applausi da calciatore per un goal formidabile in maglia blucerchiata, ha alzato i toni, dimostrando di non meritare lo stipendio che percepisce, infinitamente superiore a quello del ben più umile e sereno Sarri. Il nervosismo del tecnico jesino dimostra che l’Inter deve arrivare in alto per missione aziendale.
Fino a notte fonda, i salotti televisivi hanno incentrato il chiacchiericcio sulla squadra sconfitta, dimenticando che la squadra in testa al campionato era il Napoli, che aveva vinto la squadra che aveva dominato la gara per tre quarti, chiudendo comunque con un 62% di possesso palla, pregiudicato da un finale pieno di errori di misura e imprecisione. A Tiki Taka (Mediaset), Raffaele Auriemma sbroccava per l’eccessivo panegirico sull’autostima nerazzura ed Enrico Mentana, che lo accusava di essere tifoso del Napoli, come se lui non fosse tifoso interista, lo invitava a stare buono dandogli del “Pulcinella” (minuto 0:14:10) e prendendosi, dopo un’ora di trasmissione, l’etichetta di “cafone” dal collega napoletano.
L’Inter, che non avrebbe scippato nulla se avesse pareggiato, è stata celebrata perchè nessuno si aspettava che fosse capace di esprimersi come mai aveva fatto in precedenza. Il Napoli è passato in secondo piano perché nessuno si aspettava che fosse messo in ambasce in casa, con due goal di vantaggio e un uomo in più. Il dato è che è il Napoli in testa alla classifica, dopo aver vinto in casa 3 scontri diretti su 3 (il quarto è all’orizzonte). Tutto frutto della miglior difesa e del terzo miglior attacco, del miglior marcatore, del record di inviolabilità della porta a livello europeo (533 minuti), del minor numero di sconfitte (1), cui va aggiunto il percorso netto in Europa League con analoghi record. Eppure sono bastati 20 minuti di forte difficoltà contro la (ex) capolista per adombrare quello che Sarri e i suoi hanno fatto fin qui. La realtà è che la vetta è stata scalata e raggiunta dalla squadra azzurra, che alla 5ª giornata pagava 9 punti di distacco dalla capolista Inter, e nelle successive nove giornate se l’è messa dietro, insieme ad altre dieci squadre. La realtà è che il Napoli aveva solo un punto di vantaggio sulla Juventus quando Sarri sembrava sull’orlo della defenestrazione, e ora ne ha 7 sui bianconeri in risalita. La realtà è che, in 19 partite stagionali, gli azzurri hanno collezionato 14 vittorie, 4 pareggi e una sola sconfitta allo start. La realtà è che con il Napoli, in testa alla classifica, ci va tutto un popolo, compreso chi a inizio stagione contestava e disertava. La strada è lunga e tortuosa, e un posto al sole alla 14ª giornata è tanto accattivante quanto effimero, ma dopo la rabbia di Mancini e la copertina dedicata alla sua squadra rimontata in nove giornate, una cosa è più certa che mai: quel nome lassù è minaccia di un colpo di Stato.

Dov’è la Vittoria, il libro della settimana (Canale 21)

Tratto dalla rubrica Il libro della settimana (Canale 21 Napoli), l’intervista a cura di Federica Flocco su Dov’è la Vittoria (Magenes, 2015).

Tutta l’ignoranza d’Italia nella domenica del pallone

bandiera_francia_veronaAngelo Forgione Verona-Napoli la portano a casa gli azzurri. Una partita in cui si è specchiato un Paese che nel proprio campionato impone la bandiera francese in bella mostra e l’ascolto de “la Marsigliese”, in segno di solidarietà per le morti di Parigi. Giusto e sacrosanto commemorare delle vittime innocenti, ma quando ciò avviene solo in ricordo di un popolo e non di tutti quelli coinvolti in luttuosi eventi si finisce per esprimere un messaggio politico. Avremmo preferito la bandiera multicolore della pace e l’esecuzione di Imagine di John Lennon, ma evidentemente il cocchiere guida il carrozzone in una strada a senso unico. A Verona, poi, non per colpa degli innocenti ragazzini deputati a mostrarla, è venuto fuori persino un tricolore francese ribaltato (che nei paesi del Commonwealth significa arrendevolezza) e nessuno dei commissari di Lega ha pensato di far rettificare il senso. Sugli spalti, appena terminata l’ultima nota dell’inno di Francia sono ripresi i cori razzisti contro Napoli, e tutti a sdegnarsi, a partire da Paolo Condò su Sky, la cui denuncia veniva condivisa da Ilaria D’Amico. Ma ci vogliamo forse stupire per l’ipocrisia nazionale e per l’incoerenza dei tifosi del Verona, da sempre eccessivamente animosi nei confronti dei napoletani? Non un comportamento diverso dal solito, e certamente non peggiore di quello avuto dai bolognesi il 31 maggio 2013, durante Italia – San Marino, partita dedicata alla lotta al razzismo, quando intonarono a sproposito “stonati” cori contro il popolo partenopeo.
insigne_veronaSul campo del ‘Bentegodi’, il più bersagliato è stato, neanche a dirlo, il napoletanissimo Lorenzo Insigne. E proprio lui ha infilato il primo pertugio aperto nella difesa gialloblu, ha baciato più volte la maglia azzurra all’altezza dello stemma, è corso ad abbracciare il napoletano-toscano Sarri ed è stato travolto dai napoletani dello staff, a partire dal medico sociale De Nicola, passando per il massaggiatore Di Lullo, per finire con il magazziniere Tommaso Starace, lo stesso di trent’anni fa, quando fu Maradona a fargli giustizia sullo stesso campo. Lorenzo ha dedicato il goal alla sua città e la sua rivalsa da scudetto è finita in copertina, con più risalto di quanto non ne ebbe lui stesso due stagioni fa e, in Serie B, l’ex compagno di squadra a Pescara Ciro Immobile, che le offese dei veronesi se la legò al dito, così come l’altro conterraneo Aniello Cutolo, che restituì i ceffoni al ‘Bentegodi’ con tutto Mandorlini.
La domenica calcistica è finita come era iniziata. Nello stesso stadio in cui, nel 2007, fu sonoramente fischiato l’inno di Francia, a dieci minuti dal termine di Inter-Frosinone, con i padroni di casa in gloria, i tifosi nerazzurri si sono proiettati allo scontro al vertice di lunedì 30 al ‘San Paolo’ e hanno pensato bene di vomitare il loro repertorio razzista all’indirizzo dei napoletani. Tanto per non farsi mancare nulla.
Bandiere rovesciate, ipocrisie e scontri territoriali; questo è lo spettacolo che va in scena sui palcoscenici della Serie A. Non c’è affatto da meravigliarsi. Lo faccia chi non sa che l’Italia è un paese profondamente ignorante – tra i primi al mondo per odio razziale – che ignora la reale connotazione dei fenomeni immigratori e li rende negativi anche quando non lo sono. Insomma, Italia regno dei pregiudizi. C’è qualcuno – la Ipsos Mori in Gran Bretagna – che qualche tempo fa si è preoccupato di certificare il dato con una ricerca in 14 paesi del mondo con cui si evince che gli italiani hanno la più scarsa conoscenza di temi di pubblico interesse ed esprimono giudizi e sentimenti dalle deboli fondamenta. Insomma, italiani tutt’altro che brava gente. E allora non stupiamoci del razzismo negli stadi e nemmeno degli inciampi del presidente della FIGC Carlo Tavecchio. Ce lo meritiamo.

Il Sud al potere in Serie A? Mai accaduto nella storia.

Angelo ForgioneLunedì senza Calcio, giornata di chiacchiere per l’Italia del pallone. Da Nord a Sud, tutti a indicare Roma e Napoli per la lotta scudetto, ma nove giornate sono davvero poche per preconizzare come si metteranno le cose in primavera. Neanche un quarto di percorso è stato compiuto dalle 19 squadre della Massima Serie, appena uscite dai blocchi di partenza, ma il fiume di parole dei talk-show sportivi si ciba da sempre dell’attualità contingente e non tira mai fuori il chiacchiericcio di qualche settimana prima, quando magari la situazione si presentava con connotati diversi. Solo il 22 settembre scorso erano 9 i punti che dividevano il Napoli dall’Inter, margine annullato in un mese e quattro partite. Oggi non sono tanti quelli che vedono la Juventus in grado di rientrare nella lotta per il titolo, nonostante i punti di ritardo dalla vetta siano “solo” 8; ma si tratta di percezione falsata dalla presenza di undici squadre davanti ai bianconeri, esattamente la stessa quantità di club che erano davanti al Napoli il 22 settembre.
Roma e Napoli sono ora, indubbiamente, sotto i riflettori per risultati, classifica e gioco espresso, e i quotidiani di giornata, così come le trasmissioni televisive, si riempiono di titoloni d’elogio per giallorossi e azzurri. Ma è davvero difficile ipotizzare un campionato conteso tra due squadre del “sud” del nostro Calcio. Storicamente non è mai accaduto. Quelle poche volte (8 su 111) in cui le squadre “meridionali” sono riuscite a sovvertire la geopolitica sportiva della Serie A hanno comunque fatto a pugni contro i club del Nord: la Roma sul Torino nel ’42; il Cagliari sull’Inter e sulla Juve nel ’70; la Lazio sulla Juve nel ’74; la Roma sulla Juve e sull’Inter nel ’83; il Napoli sull’Inter e sulla Juve nel ’87; il Napoli sul Milan nel ’90; la Lazio sulla Juve nel 2000; la Roma sulla Juve nel ’01.
Le statistiche e la storia parlano chiaro: un duello Roma-Napoli farebbe la storia della Serie A, non tanto perché attribuirebbe il nono scudetto al Sud ma perché per la prima volta vedrebbe il Nord “spettatore”. Certo, esiste l’ineludibile legge dei grandi numeri, che scatta sempre nel gioco, prima o poi, ma è davvero difficile pensare che l’asse Torino-Milano resti a guardare il “gioco”. Ne riparliamo al prossimo equinozio.

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‘Dov’è la Vittoria’ e ‘Made in Naples’ a Domenica Luna Live

«A noi fa piacere sapere la verità, la verità secondo Angelo Forgione». Così la conduttrice Paola Mercurio chiude la chiacchierata con l’autore di Dov’è la Vittoria e Made in Naples nel salottino domenicale dell’emittente campana Tv Luna.