Angelo Forgione – In vista della partita di ritorno di Champions League contro il Real Madrid, quasi pronti i nuovi spogliatoi e bagni ospiti e la nuova tribuna stampa dello stadio San Paolo di Napoli. È il primo lotto di lavori consentiti dal finanziamento di 25 milioni di euro ottenuto dal Comune di Napoli con un mutuo acceso presso l’Istituto per il Credito Sportivo, una banca pubblica che di certo non pratica tassi di mercato. Soldi che, ovviamente, sono destinati a gravare sul bilancio comunale.
Il sindaco De Magistris ha rimarcato lo sforzo di Palazzo San Giacomo per presentare uno stadio decente ai madrileni e per rifare, prossimamente, sediolini, bagni e servizi essenziali, sottolineando che certi lavori, in altre città, vengono effettuati con contributo delle società sportive. Dall’altra parte c’è il patron azzurro De Laurentiis che reclama somme avanzate per la manutenzione “straordinaria”. Nella diatriba ormai storica tra il Comune e la SSC Napoli paga la città, che ancora non ha una prospettiva di nuovo stadio. Resta in piedi il vetusto San Paolo, in corso di ristrutturazione necessaria, un riammodernamento necessario, con aggravio su una città che vede la sua impiantistica sportiva alla canna del gas, asfissiata dalle somme necessarie a tenere in vita il gigante di Fuorigrotta. Inutile dire che il Comune di Napoli dovrà prima o poi alienare o dare in concessione questa proprietà troppo dispendiosa. Inutile dire che il Napoli dovrà dotarsi di una struttura moderna e propria se vuole aumentare il fatturato e restare ad alti livelli di competitività.
In questo scenario a tinte fosche in cui ci perdono cittadini, tifosi, immagine della città e della società sportiva, va evidenziato che la spesa di 25 milioni per tamponare le emergenze dell’impianto flegreo e persino inferiore alla sola cifra che la Juventus ha ottenuto dalla società di marketing Sportfive Italia del gruppo francese Lagardère. 35 milioni sull’unghia, subito, per costruire il suo nuovo stadio, dei 75 concordati per la cessione del diritto all’intero incasso del contratto d’affitto fino al 30 giugno 2023, ma a condizione di trovare uno sponsor che desse il nome allo Juventus Stadium. Sono passati quasi 6 anni dei 12 pattuiti e ancora nessuno si è fatto avanti, perché la Serie A non è appetibile all’estero. Soldi quindi già persi per metà dalla Sportfive, cioè 37,5 milioni ad oggi di cui la Juventus ha beneficiato, e di fatto donati, per creare una struttura moderna e redditiva, senza contare altre voci di diritti ceduti a terzi. A conti fatti, l’operazione Continassa produsse alla Juventus un esborso di 25 milioni di euro per l’acquisto dei diritti sui terreni comunali e una liquidità immediata garantita dalla cessione di vari diritti pari a 55 milioni. A Napoli, intanto, il Comune si carica di debiti per un ferro vecchio.
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De Laurentiis: «Gli Agnelli hanno costruito un impero»
Angelo Forgione – Chiarissime le dichiarazioni di Aurelio De Laurentiis rilasciate a Sky dopo la vittoria del Milan ai rigori sulla Juventus nella finale di Supercoppa.
«Il gap con la Juventus esiste solo societariamente, loro hanno una storia immensa perchè immensa è la storia della loro famiglia. Il vero re d’Italia è stato Agnelli, e prima Valletta. La Juve è una goccia nell’oceano di una famiglia immensa. È roba da far paura, ma di cosa stiamo parlando? Dal punto di vista del potere economico non ce n’è per nessuno, nemmeno per gli arabi, i cinesi, i club inglesi, spagnoli o tedeschi.
Quando la mattina apro i giornali e leggo che il PIL può aumentare, mi cascano le braccia. Non si può parlare di calcio e stadi quando la situazione generale è questa. Il Sud, leggevo su un quotidiano, sta prendendo coscienza di se stesso. Dico da tempo che Napoli è una testa di serie di tutto il Meridione, sino a Palermo».
Il presidente del Napoli, circa gli Agnelli, parla di “Regno d’Italia”, e poi di economia meridionale e di rappresentanza calcistica del Sud in Europa, riferendosi chiaramente al fatto che l’unica squadra competitiva dei territori più poveri del Continente (Sud-Italia e Grecia) è il Napoli.
Parole in perfetta sintonia con il mio Dov’è la Vittoria, soprattutto nello specifico del capitolo “Il Regno d’Italia“.

De Laurentiis, fortuna o danno per il Napoli?
Napoli costantemente competitivo, una delle pochissime società solide e sane del Calcio italiano, pur trattandosi di un club del Sud. Eppure il suo presidente divide come non mai l’opinione, così come tutti quelli che esprimono pubblicamente il loro parere sulla sua gestione. Altro problema è il personaggio, che fa ben poco per essere popolare e benvoluto.
Ne abbiamo parlato a Fuori Gara, su Radio Punto Zero, con Michele Sibilla e Fabio Tarantino.
Lo strano complesso del tifoso napoletano che nasce a Torino
Angelo Forgione – Spuntano striscioni spinti contro Aurelio De Laurentiis in varie zone di Napoli e sale la contestazione di quella parte di tifoseria avversa al patron azzurro. La traversata in apnea di Higuain in direzione della sponda nemica, quella bianconera, ha sconquassato la piazza e dato fiato ai contestatori, in sordina tra ottobre e giugno scorsi. La verità è che si tratta di sindrome di Toto Cutugno, nel senso che i tifosi napoletani, come tutti i tifosi delle squadre al vertice, vogliono vincere e parte di questi non sopportano di vedersi precedere dalla Juventus. È un’ossessione bianconera, reale quanto insensata. A certa parte di tifosi azzurri, il Napoli costantemente al vertice non basta. Non basta che sia la squadra che abbia vinto di più (tre coppe nazionali) dopo la schiacciante Juventus dell’ultimo lustro, alla quale ha tolto due trofei sul campo e sotto al naso. Non basta che, dopo la Juventus, sia il Napoli la squadra che abbia fatto più punti di tutte nelle ultime cinque stagioni. Non bastano i secondi posti, la tre qualificazioni dirette alla Champions League, il record italiano in fieri di partecipazioni alle competizione europee (7), la finale UEFA scippata dagli arbitri, il prestigioso ranking UEFA (pos. 17) secondo in Italia solo alla Juve, i conti in ordine di una società che è tra le prime 30 nel mondo per solidità finanziaria. Insomma, il vero problema del Napoli non è De Laurentiis ma la Juventus. Oggi gli azzurri rappresentano l’alternativa più autorevole ai bianconeri perchè da diverse stagioni sempre al vertice, seppur con fortune alterne. Ma, paradossalmente, questo ruolo crea tensioni e aspettative soverchie.
Per certi tifosi napoletani, il Napoli deve vincere, ma non si comprende per chissà quale elezione divina debba farlo. «Siamo il Napoli!», dicono, come se si trattasse del Real Madrid o del Barcellona. Insomma, il tifoso napoletano sovradimensiona le potenzialità della squadra del cuore commisurandole al bacino d’utenza, il quarto d’Italia, ma ignorando beatamente la storia. Eppure non ci vuole un matematico per contare quanti trofei importanti abbia messo il Napoli in bacheca. 10, solo 10 in novanta anni di competizione nazionale, più quattro di emarginazione meridionale. I tre più importanti (2 scudetti e 1 Coppa Uefa) strappati al potere da Sua Maestà El Diez dopo oltre sessant’anni di vita del sodalizio azzurro. 5 trofei griffati Maradona, anche se oggi vengono stranamente attribuiti a Corrado Ferlaino, che Maradona se lo ritrovò in pacco regalo dalla politica democristiana nel bel mezzo delle tensioni sociali post-sisma irpino e dovette assecondarne le aspirazioni, incassando 20 miliardi stagionali e spendendone 35 solo per gli ingaggi dei calciatori che l’argentino pretese vicino per vincere. E infatti l’ingegnere, nei precedenti diciotto anni di presidenza, aveva vinto solo una Coppa Italia. Consumato il lungo e profondo effetto sportivo e sociale prodotto da Maradona, il suo Napoli piombò nuovamente nell’anonimato, zavorrato dai debiti prodotti negli anni dei trionfi, e non solo non vinse più nulla ma finì estinto dal tribunale fallimentare dopo una lunga agonia più che decennale. Eppure oggi alcuni dicono che baratterebbero uno scudetto con gli anni dell’oblio, con un fallimento, forse perché hanno dimenticato cosa significò, o forse non l’hanno vissuto. Troppi se ne infischiano di una società che si è assestata solidamente al vertice del calcio italiano e fa pronunciare il suo nome, e quello della città, nell’Europa che conta. Eppure oggi sembra che ci si sia dimenticati degli striscioni e delle scritte disseminate sui muri della città per anni, alcune ancora leggibili, quei “Ferlaino vattene” urlati anche allo stadio, le molotov lanciate nella sua villa tra via Tasso e il corso Vittorio Emanuele, le auto incendiate nel suo giardino. Perché è così che funziona a Napoli, quando assapori la vittoria, o magari la annusi, e poi le cose non vanno nel verso sperato. Se non vinci, a Napoli, finisci nel mirino della contestazione, e che la squadra sia seconda o ultima poco cambia. Tuttavia, oggi Ferlaino è persino rivalutato da qualcuno perché il suo Napoli, quello maradoniano, ha vinto, e lui stesso va in tivù a pontificare, a dire che De Laurentiis deve rischiare, ben sapendo che lui non lo avrebbe mai fatto se non fosse stato costretto dal sicuro linciaggio all’eventualità della cessione di Maradona, e perciò, per trattenerlo a Napoli, dovette creare i presupposti per le successive tragedie sportive.
La mia posizione è netta e coerente da tempo, perché so bene cosa gira dietro le quinte del Calcio italiano, avendone studiata la storia e la struttura. Incasso spesso le ormai classiche volgari accuse che toccano a chi cerca di elevare il ragionamento sulla condizione e sulla conduzione del Napoli. Non amo certi modi di Aurelio De Laurentiis, ma è questione caratteriale che lede evidentemente la sua persona. Di errori gestionali ne commette, ma, al netto delle evidenti carenze di una conduzione di tipo familiare, è persona che ha garantito un percorso sportivo stabile e di alto livello. Inutile continuare a sperare che piova dal cielo uno sceicco e venga a prendersi una società il cui limite reale non è l’assenza di impianti propri e di un settore giovanile strutturato. Quelli, chi ha vagonate di soldi da investire, li tira su quando e come vuole, se vuole. Il vero limite – lo ribadisco ancora una volta – è territoriale; è l’assenza nel territorio napoletano, tra i più depressi d’Europa, di quelle reali opportunità che i grandi investitori cercano quando acquistano un club europeo, quelle opportunità di investimenti con regimi fiscali agevolati, ma anche opportunità certe di accredito presso la grande finanza internazionale, che da Napoli è decisamente distante. Ed è per i suoi limiti territoriali che il grande Napoli, in un calcio nato e dominato al Nord, ha vinto poco nella sua storia. Pertanto sarebbe bene disilludersi, e pure di smetterla di soffrire la forza indigena della Juventus, che è un’egemonia superiore, un potere che, nel 2000, è stato capace di portare nella propria orbita il Torino e di farlo fallire pur di prendersi l’area contesa del vecchio stadio Delle Alpi per costruirvi lo Stadium di proprietà. Non si tratta di pensare in piccolo ma di mettere a fuoco la realtà italiana e capire che gli eredi Agnelli, Andrea e il cugino John Elkann, sedati i contrasti dinastici nel 2010, dopo la morte dei due patriarchi Gianni e Umberto, hanno assunto l’uno la gestione della Juventus e l’altro quello della Fiat, con giurisdizione sportiva sulla Ferrari. Andrea ha deciso da allora che il club bianconero dovesse tornare a dominare dopo lo schiaffo di Calciopoli, annullando totalmente la concorrenza interna. Ha puntato tutto sul record consecutivo di scudetti nazionali, per spazzare via l’impresa d’epoca fascista del nonno Edoardo. Nei suoi sogni c’era e c’è anche la Champions League, e dopo averla accarezzata a Berlino prova ora a giocarsela a suon di clausole milionarie e ingaggi top, e a dare una strombazzata internazionale proprio mentre la Ferrari di Marchionne sta fallendo la sua annunciata rinascita. Ci sono in ballo le gerarchie di una famiglia sdoppiata e in evoluzione dei suoi delicati equilibri. I due giovani discendenti stanno gareggiando a chi consegue più risultati e lustro nelle loro aziende, e non c’è niente di più efficace che incassare credito dimostrando la propria leadership al mondo attraverso i risultati nel ricco mondo dello sport, dove è polarizzata l’attenzione di milioni di appassionati che chiedono solo di vincere e dove i trionfi possono spostare gli equilibri al ricco tavolo della Exor. Restare schiacciati dagli effetti di certi giochi di potere, utili alla deteriore personalità di un ex bomber azzurro bramoso di allori, significa solo alimentare complessi di inferiorità inutili, che di certo non si sgonfiano con striscioni ostili e contestazioni cervellotiche al Napoli tra i due più forti della storia.
Higuain tra poteri forti e forti motivazioni
Angelo Forgione – Gran polverone si è alzato per una notizia di calciomercato data da Paolo Bargiggia di Mediaset. “Higuain ha rifiutato il rinnovo di contratto proposto da De Laurentiis, il quale cerca il sostituto”. Ne è seguito un comunicato stampa ufficiale in cui il club azzurro ha parlato di “poteri forti” pronti a destabilizzare l’ambiente napoletano, chiudendo i rapporti con il network televisivo milanese a prescindere dagli accordi contrattuali con la Lega Calcio. Aurelio De Laurentiis sembra esserla davvero presa. Cerchiamo di capire il perché.
Qualche anno fa, Gonzalo militava con successo nel Real Madrid, uno dei club più ambiti al mondo. Era arrivato in Spagna diciannovenne, nel 2006, tra lo scetticismo generale, e dovette sgomitare, nel tempo, con Raul, Van Nistelrooy, Cristiano Ronaldo e Benzema. Finì sempre per essere titolare. Tutti i suoi allenatori, da Capello a Mourinho, passando per Pellegrini, l’avevano considerato fondamentale per il Real e gli elogi da parte della stampa e dei tifosi del Real non mancavano affatto. Ma il presidente Florentino Perez prediligeva Benzema, che in Higuain trovava forte concorrenza. L’intera carriera (ottima) di Higuain al Real si era svolta tra pregiudizi montati dal presidente, smontati uno ad uno coi goal, costruendoseli spesso da solo, senza l’aiuto di nessun “galacticos”. 190 partite e 107 goal con in blancos, sgomitando, appunto, senza che nessuno gli avesse regalato nulla. Lui, con spirito competitivo, si era guadagnato la stima della piazza ma non il favore del presidente, e a un certo punto non ce la fece più. Andò da Perez e gli comunicò che avrebbe cambiato aria. Il patron sorrise con soddisfazione, gongolando al pensiero di cederlo per soldi e di assicurare la titolarità al protetto Benzema. Higuain sorrise più di Perez. Sull’argentino si fiondarono Arsenal e Juventus, con tanto appeal, ma con meno liquidità del Napoli, e l’operazione si concretizzò con una quarantina di milioni di euro e un ingaggio pari a quello percepito nel glorioso club spagnolo. Gonzalo non pensò affatto a un declassamento, e non basò la sua scelta sul blasone e sulla bacheca del club da sposare. Fece in qualche modo come Maradona, lasciando un club ricco e glorioso per abbracciare una causa difficile, difficilissima, in un Calcio in cui tutti cercavano cascate di gloria e danari. Lo fece perché aveva voglia di sentirsi leader, di poter dimostrare il suo talento senza dover essere messo in discussione. Il nuovo allenatore del Napoli, Benitez, lo chiamò e lo fece sentire subito al centro del nuovo progetto, e lui accettò di buon grado. Due anni in azzurro, e quando il mister spagnolo naufragò il suo attaccante perse stimoli, affondando insieme a lui. Ma il Pipita non fuggì e volle guardare negli occhi il successore di Rafa, conoscerlo, prima di decidere il suo immediato futuro. Allo sconosciuto Sarri bastarono 5 minuti di orologio per farlo sentire ancora più importante, per trasferirgli importanza, centralità e fiducia. E così Gonzalo, dopo nove mesi, ha superato persino l’inarrivabile predecessore, il bomber Cavani.
Credete davvero che Higuain e il fratello procuratore – che con De Laurentiis hanno un ottimo rapporto – abbiano bisogno di giocare sporco col Napoli? Gonzalo ha fatto scelte controcorrente in passato. Un top club l’ha già raggiunto, e l’ha lasciato. Se resterà o meno a Napoli sarà una questione di motivazioni oltre che di vil danaro. E quando deciderà di lasciare quello che è il suo regno, andrà a dirlo lui al presidente. Lui, prima di tutti.
Aurelio De Laurentiis: «la pizza napoletana non è buona»
Angelo Forgione – Il presidente del Napoli, Aurelio De Laurentiis, nel corso della presentazione di un libro di gastronomia del gourmet napoletano Maurizio Cortese, tenutasi al Parker’s Hotel di Napoli, ha discusso della differenza tra pizza napoletana e pizza romana, sostenendo che «la pizza napoletana non è buona ma ha successo perché costa poco. Quella di Sorbillo non la puoi mangiare con le mani, come si dovrebbe, perché cola da tutte le parti». Il patron azzurro del Napoli ha rivelato che sta comunque lavorando a un documentario sulla pizza, per far sapere a tutti che la pizza è un patrimonio di Napoli, avvalendosi di Luca Verdone e di quel Domenico De Masi che ha recentemente definito la pizza «una delle boiate più grosse prodotte da Napoli, un qualcosa di interclassista che mette degli avvinazzati attorno alla birra». Ne abbiamo discusso a la Radiazza (Radio Marte) con Gino Sorbillo.
Caro Aurelio, solo tu a Napoli non puoi girare?
E no, caro Aurelio. Stavolta non mi sei piaciuto. Ho letto ciò che Anna Paola Merone del Corriere del Mezzogiorno ha carpito dalla tua bocca in occasione della presentazione del tuo nuovo “cinepanettone”. Alla domanda «Allestire un set in città?» pare che tu abbia risposto così:
È impossibile, come si fa? Io ho fatto qui La mazzetta con Nino Manfredi e mi è bastato. Ricordate Agostino ‘o pazzo? Si piazzava davanti alla telecamera pretendendo il pizzo. Io me lo portavo via, ci parlavo, chiedevo rispetto per le mie origini napoletane, per il lavoro che portavamo in città… Devo continuare? Pure Vittorio De Sica aveva fatto allestire i bassi a Cinecittà e ci aveva trasferito famiglie napoletane che vivevano lì giorno e notte per dare più verità al set»
Cerco di capire. Dici che Agostino ‘o pazzo, il diciottenne napoletano che per quattro notti, nell’estate del 1970, sfidò con la sua moto 125 la polizia sgommando a tutta velocità lungo via Toledo, dopo otto anni si era trasformato in Agostino ‘o pizzo? Non mi risulta, caro Aurelio.
Antonio Mellino, questo il suo nome all’anagrafe, era un ragazzo cui piaceva la velocità e ci provò gusto a fare da lepre per le forze dell’ordine, entusiasmando la folla che ne fece un mito dalla sera alla mattina. Iniziò per caso, eludendo un posto di blocco perché stava andando dalla fidanzata contro il volere del padre. Durò pochi giorni, in cui se ne vedevano di tutti i colori alla sera. Lui, caro Aurelio, si rintanava serenamente in casa, in piazza dei Girolamini, mentre a via Toledo succedeva di tutto. Fu beccato, ma non braccato in un inseguimento. Lo fermarono in piazza del Gesù, fermo e tranquillo in auto con gli amici, e lo portarono al Filangieri. Gli scattarono una foto segnaletica con lo sguardo torvo e la camicia a pois, e gli diedero una severa condanna, ma lo trattennero solo per tre mesi. Poi lo riportarono a casa, dove viveva con la sua onesta e buona famiglia, perché fu presto chiaro che fosse solo un giovanotto sveglio con una forte passione delle due ruote. Erano i tempi di Giacomo Agostini, da cinque anni campione del mondo di Motociclismo, cui ci si ispirò per dargli un nome nello tsunami improvviso di fama che Antonio seppe alzare in quei giorni. E non mi risulta, caro Aurelio, che Antonio sia finito nei guai in seguito. Abita ancora lì, nel centro antico di Napoli, dove gestisce pure una nota bottega antiquaria. Di problemi con la giustizia, più nessuno. Anzi, per restare in tema, nel 1971 ebbe anche un’esperienza da attore-stuntman in Un posto ideale per uccidere con Ornella Muti e Irene Papas, un film poi ripudiato dal suo regista Umberto Lenzi e dallo stesso Antonio Mellino, perché Napoli ne usciva raccontata ancora una volta in modo sbagliato. «Non mi piacque, Napoli usciva negativa come sempre. Pure nei film – disse Agostino ‘o pazzo – vengono a riprendere i soliti sfondi gratis e il resto lo fanno a Roma. Ma perché non fanno mai vedere le cose belle e vere che abbiamo?». Ora, tu, Aurelio, dici che Antonio Mellino, nel 1978, invadeva il tuo set come un camorrista e pretendeva soldi per farti proseguire o forse per essere ingaggiato. Forse sarà proprio Antonio a chiarire e a dire la sua, ma in ogni caso sono passati 37 anni, di cui tu, Aurelio, ne hai trascorsi 11, gli ultimi, da presidente della squadra di Calcio della città. E da presidente del Napoli hai parlato alla nazione di napoletanità, di uno stile di vita che non può essere capito da chi non è napoletano, di una sofferenza nata dall’impoverimento esogeno. Proprio tu, Aurelio, hai detto che i napoletani sono «i vessati per eccellenza», e poi ci racconti di una Napoli impossibile? I film girati a Napoli neanche si riescono a contare da quando, sul finire dell’Ottocento, i fratelli Lumière vennero a riprendere le meraviglie della città e, soprattutto, da quando – nel 1919 – il napoletano Gustavo Lombardo fondò la Titanus e i primi studios sulla collina del Vomero. Tu dirai che sto parlando di un secolo fa, ma negli anni in cui hai potuto vivere Napoli più da vicino il “sipario” napoletano è rimasto tutt’altro che chiuso. Pure per i musicisti, se è vero che Amedeo Minghi girò qualche anno fa il videoclip del suo brano Vicerè nei “quartieri spagnoli”, anzichè riprodurli a Cinecittà. Una notte intera, fino all’alba, circondato dai napoletani che portavano ciambelle e caffè. I Manetti Bros, romani anche loro, hanno girato recentemente Song ‘e Napule, a Napoli, non a Cinecittà, e non ebbero problemi. E anche loro non sono d’accordo con quello che hai detto. Vuoi che ti parli di Passione di John Turturro, girato interamente a Napoli, compresi i Campi Flegrei, nel 2009? Non mi risulta neanche che il regista-attore newyorchese abbia trovato difficoltà per i suoi ciack e per tradurre in pellicola il suo amore per Napoli. “Ci sono luoghi dove uno va una volta e basta. E poi c’è Napoli”, ha detto Turturro. E dai teleschermi Rai ha pure precisato: «Napoli è un luogo incredibilmente vibrante e vivo dove tornerò a lavorare con estrema facilità». Estrema facilità, Aurelio. Non mi pare poco. Forse sei tu che a Napoli sei andato a girare una volta e basta, mentre gli altri non vedono l’ora di tornare a farlo. Magari tu e Antonio Mellino ci chiarirete la tua dichiarazione, che però non aiuta Napoli a recuperare la sua immagine, quella che le spetta, quella che tu hai definito “vessata”.
Sei un bravo imprenditore e sai come muoverti, hai portato il Napoli a grandi livelli, facendolo competere con gli squadroni del Nord, e per tutto questo ti auguro lunga vita sotto il Vesuvio. Hai la mia stima, e perciò ti ho regalato di persona i miei libri, al MAGNA. Ma tu sai benissimo che Napoli è un set, tra i più belli che ci siano, ed è ambito dal cinema comico e d’autore. Sai bene che Napoli è un laboratoro d’avanguardia nel campo dell’animazione. Quello che hai dato in pasto ai detrattori non mi è affatto piaciuto. Forse i miei libri non li hai ancora letti. Sono certo che se lo farai, poi, ci penserai due volte a vessare anche tu la napoletanità.
Striscione contro De Laurentiis. Ma il vero fondatore del Napoli non è Ascarelli.
Angelo Forgione – La Curva B dello stadio San Paolo risponde al presidente Aurelio De Laurentiis sulla fondazione del Napoli. Nella partita di Europa League contro il Midtylland, esposto un vistoso striscione: «1 agosto 1926 Onore al vero fondatore Giorgio Ascarelli».
Il primo presidente, però, è Emilio Reale, che cedette la carica ad Giorgio Ascarelli nel 1925. Il fatto è che, come ho più volte evidenziato e pure scritto in Dov’è la Vittoria, il Napoli non è nato nell’estate del 1926 ma in quella del 1922, quando si realizzò la fusione tra Naples Foot-Ball Club e l’U.S. Internazionale Napoli e si costituì l’Internaples Foot-Ball Club, che scelse il colore azzurro. Nel 1925, Emilio Reale cedette la presidenza al facoltoso commerciante Giorgio Ascarelli, capace di garantire sicurezza al club. Quella squadra, in cui già giocava l’idolo Attila Sallustro, militava nella Lega Sud della Prima Divisione Nazionale, divisa appunto in due competizioni distinte del Nord e del Sud.
Nell’estate del 1926, il regime fascista, impegnato nel processo di “nazionalizzazione”, sancì l’unificazione delle leghe Nord e Sud in un’unica ‘Divisione Nazionale’, non potendo consentire che il Calcio italiano restasse spaccato e mostrasse disgregazione sociale. Fu quindi deciso che città come Napoli e Roma dovessero confrontarsi con Milano, Torino e Genova. Ma Mussolini non gradiva gli inglesismi, e il termine “Internazionale” ricordava l’Internazionale comunista, avversaria politica del Fascismo. Il presidente Ascarelli, di origine ebraica, suggerì la più opportuna adozione del nome italiano della città:
«Pur grati a coloro che sono stati la nostra matrice, l’importanza del momento e la maggiore dignità cui il nostro sodalizio è chiamato mi suggeriscono un nome nuovo, nuovo e antico come la terra che ci tiene, un nome che racchiude in sé tutto il cuore della città alla quale siamo riconoscenti per averci dato natali, lavoro e ricchezza. Io propongo che l’Internaples Foot-Ball Club da oggi in poi, e per sempre, si chiami Associazione Calcio Napoli».
In agosto, l’assemblea dei soci formalizzò semplicemente un cambio di nome di una società che esisteva dal 1922: da Internaples Foot-Ball Club ad Associazione Calcio Napoli. Il 2 agosto, la Commissione di Riforma dell’ordinamento della Federazione emanò ufficialmente la ‘Carta di Viareggio’, con cui nacque il campionato unito, e il 3 agosto l’A.C. Napoli ottenne l’affiliazione alla Lega Nazionale, presentandosi con un nuovo simbolo: il Corsiero del Sole, un cavallo rampante e sfrenato, emblema della città capitale dal XIII secolo. Esisteva già il sodalizio, esisteva già la maglia azzurra, esisteva già la rosa con Attila Sallustro, esisteva già un nome inglese, che fu semplicemente cambiato e italianizzato, accostato al simbolo del Corsiero del Sole. Non nacque nulla di nuovo. L’Internaples era nato nell’agosto del 1922. Il Napoli italianizzato nel nome aveva già 4 anni.
I risultati fallimentari della stagione (solo 1 punto in classifica) avrebbero trasformato il cavallo rampante in ciuccio malandato. Nel 1964, l’Associazione Calcio Napoli cambiò ancora denominazione, divenendo la Società Sportiva Calcio Napoli.
De Laurentiis: «il Napoli è nato nel 2004». Maradona, scudetti e storia cancellati?
Angelo Forgione – «Il Napoli è nato con me nel 2004, altro che 1926! Ho comprato un pezzo di carta per 33 milioni di euro. Il Napoli non esisteva più, potevo anche chiamarlo Partenope». Sono parole del presidente del Napoli Aurelio De Laurentiis, per cui la storia del Napoli a lui preesistente non esisterebbe più. È chiaro che non sia così, e lo sa bene anche il patron azzurro, che magari non sa che la vera nascita del Napoli è datata 1922 ma era ben conscio, nel 2004, che avrebbe speso 33 milioni di euro per acquistare una storia importante, con un certo peso commerciale. Certo, avrebbe potuto cambiare la denominazione e partire dai dilettanti invece che dalla Serie C1, magari in un’altra città, senza spendere milioni per un pezzo di carta, senza palmarès, senza storia e senza ritirare la n.10. E invece l’ha fatto, e l’ha fatto a Napoli, dove non aveva concorrenza sportiva, perché non è persona sprovveduta ma lungimirante e attenta agli investimenti.
Tifosi irritati, e non solo i tifosi. Ma Aurelio De Laurentiis non va preso alla lettera. Aurelio De Laurentiis va interpretato per i messaggi che manda a tutto l’ambiente. Ne ho parlato con il direttore di Tuttonapoli.net e coi tifosi alla trasmissione Club Napoli All News di Tele Club Italia, spaziando anche su temi extra-calcistici.
Un caffè con Aurelio De Laurentiis al MAGNA
Domenica mattina all’insegna della cultura gastronomica napoletana per il presidente del Napoli Aurelio De Laurentiis. Mentre la squadra di calcio si preparava per la sfida con il Genova, il patron azzurro e la moglie Jacqueline Baudit hanno visitato “Magna – Mostra Agroalimentare Napoletana”, ideata e curata da Marco Capasso ed organizzata dall’associazione “Guviden – i semi dell’amore” in collaborazione con il Comune di Napoli, che narra la storia e le caratteristiche scientifiche e sociali di una delle cucine più famose al mondo. A far gli onori di casa il presidente di Guviden Vincenzo de Notaris. Presente anche lo scultore Lello Esposito.
De Laurentiis è arrivato durante il focus sulla storia del caffè a Napoli con lo scrittore Angelo Forgione, che gli ha donato i suoi libri. Il presidente azzurro ha assaggiato e gradito il caffè preparato da Paola Campana della torrefazione Campana Caffè e ha poi visitato la mostra interattiva nelle sale del Complesso di San Domenico Maggiore.
«Quello della storia della cucina napoletana è un argomento che mi ha sempre affascinato. Ritornerò certamente per visitare Magna e passarci qualche ora in più», ha detto De Laurentiis mentre osservava divertito i led interattivi. «Siamo molto orgogliosi di questa visita – ha detto Vincenzo de Notaris – soprattutto perché il presidente è andato via molto incuriosito. Ed è proprio questo il nostro obiettivo. Riportare attenzione sulle tradizioni culturali, sociali e culinarie della storia della cucina napoletana. Magna è una mostra per tutti».



