Vienna incontrò Napoli: nacque il wafer “Neapolitaner”

Angelo Forgione – Non tutti sanno che la Campania è da secoli leader nella produzione delle nocciole e che, nonostante la varietà italiana maggiormente reclamizzata sia quella piemontese, dal territorio campano provengono altri tipi di nocciole certamente non meno qualitative.
Le prime testimonianze di coltivazione da nocciolo risalgono persino al terzo secolo avanti Cristo e sono riscontrabili al Museo Archeologico Nazionale di Napoli dove sono esposti alcuni resti carbonizzati di nocciole. Ma fu durante il florido periodo borbonico che la bontà del prodotto campano ottenne divulgazione e riconoscimento, grazie ai rapporti commerciali del Regno delle Due Sicilie con gli altri stati preunitari d’Italia e con l’estero. Le nocciole cosiddette “napoletane” arricchivano le tavole dell’Ottocento in ogni parte d’Europa e in America, rifornendo inoltre le prime produzioni industriali di fine secolo, che arrivano distrattamente ai giorni nostri con nomi eloquenti trattenenti la memoria di un territorio produttivo e dinamico come era quello napolitano.
In quegli anni Napoli e Vienna erano, insieme a Parigi e Londra, tra le città più dinamiche d’Europa e in più di un’occasione le rispettive culture si incrociarono sulla scia dell’unione in matrimonio dei reali napoletani con quelli asburgici.

Risale al 1898 l’invenzione del “Manner Original Neapolitan Wafer n. 239” da parte di Josef Manner (leggi dal sito della Manner), un imprenditore viennese del cioccolato che mise insieme zucchero, olio di cocco, cacao in polvere e nocciole provenienti dalle zone del napoletano per creare quattro strati di ripieno tra cinque strati di cialda. Quella ricetta non è mai cambiata e resta ancora oggi il fondamento produttivo dei wafer alla nocciola, universalmente catalogati come “Neapolitaner”.
Sempre in Austria, nel 1948 e subito dopo la seconda guerra mondiale, Franz Andres fondò con dei soci un’azienda specializzata nella produzione di wafer e biscotti, denominandola “Napoli Ragendorfer & Co Company”. Dal 1970, il marchio “Napoli” (vai al sito) è di proprietà della “Manner”, che rappresenta per fatturato il maggior produttore austriaco di wafer e biscotti.

Un’altra grande azienda altoatesina, la Loacker, ancora oggi indica nella “qualità di nocciole coltivate nei territori vicino a Napoli il segreto originale della golosità dei suoi “Neapolitaner” (leggi dal sito della Loacker).
In alcune zone d’Europa il nome “neapolitaner” viene tradotto nelle lingue locali, come nel caso dell’Ungheria, dove i wafer alla nocciola diventano in magiaro “Nàpolyi”.
Tutto questo a testimonianza delle eccellenze locali poco reclamizzate ma che spesso rappresentano un plus qualitativo tante volte più noto all’estero che nel nostro paese.

L’Italia produce circa 110.000 tonnellate di nocciole ed è al secondo posto nel mercato mondiale, dopo la Turchia. Le regioni di provenienza sono, in ordine di importanza, la Campania, il Lazio, il Piemonte e Sicilia, che coprono il 98% dell’intero volume.

La Campania, con 12.000 aziende, 23.000 ettari di territorio coltivato a nocciolo e circa 50.000 tonnellate annue, rappresenta circa il 40% della torta e le principali zone interessate sono Avellino (49%), Napoli (27%), Caserta (12%) e Salerno (9%).

Le principali tipologie di coltivazione sono la nocciola Mortarella (38%) e S.Giovanni (37%) che vengono destinate alla produzione industriale mentre per il consumo fresco e di prima qualità spicca la Tonda di Giffoni (12%) e, a seguire, la Tonda Bianca, la Tonda Rossa, la Camponica e la Riccia di Talanico.
Tra i prodotti a Indicazione Geografica Protetta (IGP) della Campania figura oggi la “Nocciola di Giffoni” che per pregio non ha nulla da invidiare alle più pubblicizzate nocciole del Piemonte.

Napoli calcio, storia di uno stemma equivoco e di una mascotte perdente

Angelo ForgioneNapoli, città ricca di storia e di storie, molte dimenticate, tante mistificate. Le tracce di quella che fu una capitale, volutamente sottomessa, sono in ogni dove, spesso alterate e manipolate. Capita poi che anche gli stessi napoletani, sovente poco consapevoli del prestigio del proprio passato, contribuiscano involontariamente alla cancellazione del proprio blasone.
Un caso emblematico, quanto mai interessante, investe lo sport, e più precisamente quel catalizzatore di attenzione e passione enormi che è il Calcio Napoli, fondato nel 1922 come Internaples Foot-Ball Club e poi italianizzato in Associazione Calcio Napoli nel 1926 con l’intento di onorare nello stemma quell’identità privata circa sessant’anni prima. Ci volle invece poco perché quel nobile intendimento finisse per essere umiliato, ma è opportuno fare chiarezza di narrazione e riannodare i fili del passato che legano il Napoli alla storia di Napoli.
In Italia, le maggiori squadre di calcio sono talvolta identificate con una simbologia alternativa a quella degli stemmi che portano sulle maglie. La Juventus è la zebra, il Milan è il diavolo, l’Inter è il biscione, la Roma è la lupa e il Napoli è il ciuccio… anzi, ‘o ciucciariello, come si dice dalle parti del Vesuvio. Una simbologia meno marcata rispetto al passato, avendo perso sempre più appeal nell’utilizzo giornalistico nel corso degli anni, ma che resta comunque ben viva nella mente dei tifosi di vecchia data.
Se la Juventus è zebra per via delle strisce bianconere, se il Milan è il diavolo per l’associazione cromatica, se l’Inter è il biscione perché simbolo dei Visconti di Milano, se la Roma è la lupa per la leggenda di Romolo e Remo, che legame c’è tra il ciuccio e Napoli? Nessuno!

Tutto ha origine nell’Agosto del 1926, quando l’Internazionale Naples Foot-Ball Club di Giorgio Ascarelli, anche detto Internaples, nato nel 1922 e catapultato nella Divisione Nazionale dalla riforma del CONI fascista (che non accetta la separazione tra campionati del Nord e del Sud voluta dalla FIGC milanese-torinese; ndr), cambia nome e abbandona l’inglesismo sgradito al regime. Ora la squadra azzurra si chiama Associazione Calcio Napoli, antesignana della Società Sportiva. La squadra veste già da quattro anni il colore azzurro, cromia legata al mare ma anche ai Borbone di Napoli, della cui Real Casa proprio l’azzurro faceva da sfondo ai simbolici tre gigli capetingi della casata.

Nello stemma della stagione 1926/27 compare un cavallo rampante, il “Corsiero del Sole”, ovvero il simbolo di Napoli durante il Regno delle Due Sicilie ma anche dell’intero Regno peninsulare Napolitano (quello insulare siciliano era simboleggiato dal Triscele). Del resto, i calciatori dell’Internaples erano già soprannominati “i poulains”, i puledri. Il cavallo rampante era stato scelto in epoca di dominazione sveva come simbolo della città perché allegoria dell’impetuosità del popolo partenopeo; in tempi antichi Napoli era divisa in “Sedili”, anche detti “Seggi”, e proprio al “Sedile di Capuana”, nei pressi di quello che oggi è il Duomo, era presente un’imponente statua bronzea raffigurante un cavallo rampante. Nel Duecento, Corrado IV di Hohenstaufen fallì più volte la conquista della città a causa della resistenza dei Napoletani trincerati dentro le mura. Aprì un varco sotterraneo superando le linee difensive e costrinse i riluttanti alla resa. Vinse, e volle dimostrare di aver domato un popolo che aveva difeso la propria libertà lasciando un segno indelebile sull’emblema della città, la colossale statua del “Corsiero del Sole”, il cavallo imbizzarrito di bronzo. Ordinò che gli fosse messo un morso in bocca in segno di sottomissione.

Il cavallo, sin dal Medioevo e fino all’avvento novecentesco del motore a scoppio, è stato eccellenza della città di Napoli. La pregiata razza del Cavallo Napolitano, persino migliorata da Carlo di Borbone nella Real Tenuta di Persano con sangue di stalloni arabi e fattrici orientali, è stata una delle più apprezzate razze al mondo per eleganza, bellezza e morfologia; lo rimase fino al 1874, quando, dopo l’ultima e definitiva invasione del Sud operata dei Savoia, la pregiata razza equina napoletana fu fatta sopprimere per decreto dal nuovo governo, poco attento alle eccellenze di un mondo che non gli apparteneva. Nel frattempo il cavallo rampante era già stato destituito del suo ruolo di simbolo di Napoli, scomodo anche per il suo significato storico e geopolitico, e adottato come stemma della nascente Provincia di Napoli, a simboleggiare il declassamento dell’antica Nazione Napolitana a rango, appunto, di provincia.

Di qui, nel 1926, l’A.C. Napoli si tuffa nell’avventura del suo primo campionato nazionale contro gli squadroni del Nord, anzi il primissimo davvero nazionale della storia, che si dipana tra 17 sconfitte e un misero pareggio, culminando con l’ultima posizione nel proprio girone e un ripescaggio che scongiura la retrocessione.
I tifosi entrano subito nella storia del club finendo per segnarla profondamente quando in un bar di ritrovo, il Brasiliano poi Pippone, in Via Santa Brigida, uno sconfortato sostenitore azzurro dell’epoca, Raffaele Riano, urla: «Ma quale cavallo rampante?! Stà squadra nostra me pare ‘o ciuccio ‘e Fechella: trentatre chiaje e ‘a coda fraceta». “Fechella” era il soprannome di Domenico “Mimì” Ascione, un personaggio che, negli anni Venti, vendeva fichi e altri frutti nella zona del Rione Luzzatti, là dove giocava il Napoli, trasportando la merce con un vecchio asino dalla coda in pessime condizioni, tanto carico di acciacchi da essere pieno di piaghe.
A quell’espressione rabbiosa e ironica, tipicamente partenopea, fanno seguito le fragorose risate dei presenti, che la suggeriscono alla redazione di un giornale umoristico. Nei giorni seguenti, le edicole di Napoli diffondono l’illustrazione di un asinello incerottato da Emilio Reale, primo presidente azzurro, e con una miserabile coda. Da quel momento, per tutti, il cavallo rampante si trasforma per espressione di popolo in “ciucciariello”.

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Non va dimenticato però, oggi più che mai, che quel ciuccio in realtà era in principio un cavallo fiero, elegante e battagliero, proprio come la tifoseria azzurra vorrebbe sempre la propria squadra del cuore. E invece, per una perversa mentalità di minorità autodeterminata, un simbolo nobile è scomparso per affermarsi nella sua trasformazione più folcloristica, a tal punto da apparire persino sulle maglie del Napoli dell’immenso Rudy Krol della stagione 1982/83, quando la N diventa il corpo del ciuccio sormontato da una testa orecchiuta.

Dall’arrivo di Maradona, datato 1984, viene adottata una “enne” napoleonica, oggi scevra di ogni orpello e scritta, a richiamare il periodo napoleonico della città e a comunicare all’Europa calcistica un legame con la Francia imperiale lontano dalle radici della città e durato soli dieci anni. Il presidente accontentò probabilmente un desiderio della moglie Patrizia Boldoni, grande appassionata della figura dell’Imperatore, a tal punto da mettere insieme una preziosa collezione napoleonica fatta di preziosi oggetti portati in mostra nel 2010 a Napoli.
Trattasi pertanto di un’evidente dicotomia storica che stride con le scelte iconiche della nascente A. C. Napoli: Napoleone, attraverso il fratello Giuseppe e il cognato Murat, usurpò il trono del Sud proprio a danno dei Borbone di Napoli nel periodo imperiale francese, prima che il suo crollo e il conseguente Congresso di Vienna riaffermassero il legittimismo in tutt’Europa, sancendo nel meridione d’Italia la restaurazione borbonica.
Il rampante cavallo di Napoli, nobile e fiero, è divenuto ben presto uno spelacchiato somarello. E se è vero che simboli, mascotte e colori delle squadre di Calcio comunicano radici e identità del popolo che rappresentano, quelli del Napoli sono arrivati a noi distorti e confusi, come un po’ tutta la memoria storica partenopea da recuperare.

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una moneta napoleonica e lo stemma della Società Sportiva Calcio Napoli

Documentario: FENESTRELLE, LAGER DEI SAVOIA

Documentario: FENESTRELLE, LAGER DEI SAVOIA
come venivano uccisi i prigionieri napoletani (e Napoli)

È online il documentario RAI sulla fortezza di Fenestrelle, misteriosamente danneggiato il 20 Marzo dall’anticipo della messa in onda rispetto all’orario programmato e dall’oscuramento della stessa trasmissione sul territorio nazionale nei venti minuti finali che ha scatenato la protesta dei meridionali all’indirizzo della redazione della TV di Stato.
Si tratta di una delle pochissime testimonianze di una corretta lettura di certi avvenimenti “censurati” dalla propaganda risorgimentale che ha nascosto il luogo dove comincia e finisce la storia di migliaia di italiani prigionieri di altri italiani, deportati in veri e propri campi di concentramento. La storia dei prigionieri di guerra del Regno delle due Sicilie fatti morire di freddo e fame dai piemontesi. Ma anche la storia della distruzione del tessuto sociale, economico e industriale del meridione pre-unitario.

parte 1

parte 2

MALAUNITA’, presentato il libro-verità a Napoli

MALAUNITA’, presentato il libro-verità a Napoli
Sala della Loggia affollata al Maschio Angioino

In piena controtendenza rispetto alle manifestazioni dei 150 anni dall’Unità d’Italia è stato presentato nella Sala della Loggia del Maschio Angioino il libro “Malaunità – 1861-2011, 150 anni portati male”. Il volume, firmato da giornalisti del calibro di Lorenzo del Boca, Gigi Di Fiore, Lino Patruno, Ruggero Guarini, Pino Aprile, con Eddy Napoli, Gennaro De Crescenzo, Salvatore Lanza, Angelo Forgione ed altri, offre una lucida ricostruzione dei fatti risorgimentali alla luce di quanto essi hanno penalizzato il Meridione d’Italia. Il ‘libro-verità’ ha il duplice scopo di ricordare agli Italiani le menzogne storiche sull’Unità nazionale, e fare in modo che le nuove generazioni sappiano cosa ha significato per il sud Italia, depredato e martirizzato, l’unità sancita nel 1861.

intervista a Lorenzo del Boca su Radio Marte

Le tre giornate di Napoli

Le tre giornate di Napoli
Presentazione “Malaunità”, Veglia della memoria
e Flash-Mob
per raccontare la verità e dire no alla retorica

Intervista a “Rapporto Napoli” su TeleCapriNews in merito alla presentazione del libro-verità sul Risorgimento “MALAUNITA’, 1861-2011, CENTOCINQUANT’ANNI PORTATI MALE” come apertura delle controcelebrazioni napoletane per la verità storica sulle vicende del Risorgimento che portarono all’unità d’Italia.

PATRIX, la storia patria che non conosci

PATRIX, la storia patria che non conosci
parodia di “Matrix” in chiave meridionalista

La festa nazionale dell’Unità si avvicina e il fronte d’opinione è sempre più spaccato: chi festeggerà e chi no. Questi festeggiamenti potevano essere un’occasione per avvicinare gli italiani raccontando la verità e invece la retorica continua a rivestire l’informazione falsata sui fatti del 1860-61, e oltre. E gli italiani si allontanano sempre più tra loro.
Restiamo sempre convinti che ogni meridionale, soprattutto se napoletano, ha il dovere di conoscere e sapere cosa è accaduto in questa terra 150 anni fa. Questo momento arriva per tutti, un giorno o l’altro.
Anche per Nino, il napoletano protagonista di “PATRIX” che vuole uscire dalla finzione della retorica risorgimentale per liberarsi del conflitto interiore tra la sua Napoletanità e la presenza ingombrante nella sua mente dei padri della patria. È il momento della sua scelta… quella che tutti i meridionali, prima o poi, devono affrontare.

Benigni “Pinocchio” e le bugie sul Risorgimento

Benigni “Pinocchio” e le bugie sul Risorgimento
videoclip verità contro la retorica del 150°

Ho riflettuto a lungo sulla maniera giusta per rispondere al controverso show di Roberto Benigni a Sanremo farcito di una retorica stantia sui padri della patria. E non potevo non farlo a mio modo, facendo parlare i fatti, evitando di esprimere opinioni personali.
La retorica risorgimentale che ruota attorno alla “esegesi dell’inno di Mameli” è sconfessata con l’ausilio di ricostruzioni cinematografiche di fatti realmente accaduti e frasi realmente pronunciate. Tutto questo attribuisce al video la veste di fondatezza, prima regola di un buon meridionalista di approfondimento, ed è per questo anche estremamente istruttivo.
Le qualità artistiche di Benigni sono indiscutibili, al pari delle “bischerate” viste e sentite dal palco di Sanremo.

Angelo Forgione

Prima parte


Seconda parte

La vera storia della spedizione dei mille

Come e perché l’Inghilterra decise la fine delle Due Sicilie

Angelo Forgione – La storica spedizione garibaldina, per la storiografia ufficiale, ha il sapore di un’avventura epica, quasi cinematografica, compiuta da soli mille uomini che salpano all’improvviso da nord e sbarcano a sud, combattono valorosamente e vincono più volte contro un esercito ben più numeroso, per poi risalire la Penisola fino a a Napoli, capitale di un regno liberato da una tirannide oppressiva, e poi più su, per dare agli italiani la nazione unita.

Troppo hollywoodiano per essere vero. La spedizione non fu per niente improvvisa e spontanea ma ben architettata, studiata a tavolino nei minimi dettagli e pianificata dalle massonerie internazionali, quella britannica in testa, che sorressero il tutto con intrighi politici, contributi militari e cospicui finanziamenti con i quali furono comprati diversi uomini chiave dell’esercito borbonico al fine di spianare la strada a Garibaldi, che agli inglesi, in seguito, non mancò mai di dichiarare la sua gratitudine e amicizia.

I giornali dell’epoca, ma soprattutto gli archivi di Londra, Vienna, Roma, Torino, Milano e, naturalmente, Napoli forniscono documentazione utile a ricostruire il vero scenario di congiura internazionale che spazzò via il Regno delle Due Sicilie, non certo per mano di mille prodi alla ventura animati da un ideale unitario.

Il Regno britannico, con la sua politica imperiale espansionistica che tanti danni ha fatto nel mondo e di cui ancora oggi se ne pagano le conseguenze (vedi conflitto israelo-palestinese), ebbe più di una ragione per promuovere la fine di quello napoletano e liberarsi di un soggetto politico divenuto scomodo.

Furono gli idilliaci rapporti tra Ferdinando di Borbone e papa Pio IX a generare l’astio di Londra. La massoneria inglese aveva come priorità politica la cancellazione delle monarchie cattoliche, e la cattolicissima Napoli era ormai invisa a chi, a Londra e dintorni, mirava alla cancellazione del potere papale. I Borbone costituivano principale ostacolo a tale obiettivo, che coincideva con quello dei Savoia e dei liberali massoni d’Italia. Massoni erano i politici britannici Lord Palmerston, primo ministro britannico, e Lord Gladstone, gran denigratore dei Borbone. E massoni erano pure Vittorio Emanuele II, Garibaldi e Camilla Benso di Cavour.

In questo conflittuale scenario di potentati, la nazione napolitana percorreva un suo percorso dettato della politica di Ferdinando II, che condusse una politica di sviluppo autonomo finalizzata a spezzare le catene delle dipendenze straniere.

La flotta navale delle Due Sicilie costituiva inoltre un fastidio per la grande potenza navale inglese anche e soprattutto in funzione dell’apertura dei traffici con l’Oriente nel Canale di Suez, i cui scavi cominciarono proprio nel 1859, alla vigilia dell’avventura garibaldina.

L’integrazione del sistema marittimo con quello ferroviario, con la costruzione delle ferrovie nel meridione con cui le merci potessero viaggiare anche su ferro, insieme alla posizione d’assoluto vantaggio del Regno delle Due Sicilie nel Mediterraneo rispetto alla più lontana Gran Bretagna, fu motivo di timore per Londra che già non aveva tollerato gli accordi commerciali tra le Due Sicilie e l’Impero Russo grazie ai quali la flotta dello Zar aveva navigato serenamente nel Mediterraneo, avendo come basi d’appoggio proprio i porti delle Due Sicilie.

Proprio il controllo del Mediterraneo era una priorità per la “Perfida Albione” che si era impossessata di Gibilterra e poi di Malta, e mirava ad avere il controllo della stessa Sicilia quale punto più strategico per gli accadimenti nel Mediterraneo e in Oriente. L’isola costituiva la sicurezza per l’indipendenza napolitana e in mano agli stranieri ne avrebbe decretata certamente la fine, come fece notare Giovanni Aceto nel suo scritto De la Sicilie et de ses rapports avec l’Angleterre.

La presenza inglese in Sicilia era già ingombrante e imponeva coi cannoni a Napoli il remunerativo monopolio dello zolfo di cui l’isola era ricca per i quattro quinti della produzione mondiale; con lo zolfo, all’epoca, si produceva di tutto ed era una sorta di petrolio per quel mondo. E come per il petrolio oggi nei paesi mediorientali, così allora la Sicilia destava il grande interesse dei governi imperialisti.

I Borbone, in questo scenario, ebbero la colpa di considerarsi insovvertibili in Italia e di non capire che il pericolo non era da individuare nella Penisola ma più in là. Il Regno di Napoli e quello d’Inghilterra erano infatti alleati solo mezzo secolo prima, ma in condizione di sfruttamento a favore del secondo per via dei considerevoli vantaggi commerciali che ne traeva in territorio duosiciliano. Fu l’opera di affrancamento e di progressiva riduzione di tali vantaggi da parte di Ferdinando II a rompere l’equilibrio e a suscitare le cospirazioni della Gran Bretagna, che riteneva Napoli obbligata a servire Londra per gli aiuti contro i francesi del 1799 e del 1815 e perciò si rivelò un vero e proprio cavallo di Troia. Per questo fu più conveniente per gli inglesi “convertire” l’ormai inimicizia dello stato borbonico con l’aiuto a un nuovo stato alleato.

Questi furono i motivi principali che portarono l’Inghilterra a stravolgere gli equilibri della penisola italiana, propagandando idee sul nazionalismo dei popoli e denigrando i governi di Russia, Due Sicilie e Austria. La mente britannica armò il braccio piemontese per il quale il problema urgente era quello di evitare la bancarotta di raccogliendo l’opportunità offertagli di invadere le Due Sicilie e portarne a casa il tesoro.

Un titolo sul Times dell’epoca, pubblicato già prima della morte di Ferdinando II, fu foriero di ciò che stava per accadere e spiegava l’interesse imperialistico inglese nelle vicende italiane. “Austria e Francia hanno un piede in Italia, e l’Inghilterra vuole entrarvi essa pure”.

Lo sbarco a Marsala e l’invasione del Regno delle Due Sicilie sono a tutti gli effetti un gravissimo atto di pirateria internazionale, compiuto ignorando tutte le norme di Diritto Internazionale, prima fra tutte quella che garantisce il diritto all’autodeterminazione dei popoli. Il fatto che nessuna nazione straniera abbia mosso un dito mentre avveniva e si sviluppava la dice lunga su quale sia stata la predeterminazione di un atto così grave e sulle volontà della potente Inghilterra.

Garibaldi fu un burattino in mano a Vittorio Emanuele II Cavour, l’unico che avrebbe potuto compiere l’invasione senza dichiarazione, non essendo né un sovrano né un politico. E venne manovrato a dovere dal conte piemontese, dal Re di Sardegna e anche dai cospiratori inglesi, fin quando non giunse il momento di costringerlo a farsi da parte.

Di soldi, nel 1860, ne circolarono davvero parecchi per l’operazione. Qualcuno parla di circa tre milioni di franchi francesi solo in Inghilterra, denaro investito per comprare il tradimento di chi serviva allo scopo, ma anche armi, munizioni e navi. A Londra nacque il “Garibaldi Italian Fund Committee”, un fondo utile ad ingaggiare i mercenari che dovevano formare la “Legione Britannica”, uomini feroci che poi aiutarono il Generale italiano.

Garibaldi divenne un eroe in terra d’Albione, e la sua popolarità arrivò alle stelle. Nacquero i “Garibaldi’s gadgets”: ritratti, composizioni musicali, spille, profumi, cioccolatini, caramelle e biscotti, tutto utile a reperire fondi utili all’impresa in Italia.

In realtà, alla vigilia della spedizione dei mille, tutti sapevano cosa stesse per accadere, tranne la Corte e il Governo di Napoli, ai quali “stranamente” non giunsero mai quei telegrammi e quelle segnalazioni che venivano inviate dalle ambasciate internazionali. In Sicilia invece, ogni unità navale riceveva le coordinate di posizionamento nelle acque duosiciliane.

La traversata partì da Quarto il 5 Maggio 1860 a bordo della “Lombardo” e della “Piemonte”, due navi ufficialmente rubate alla società Rubattino ma in realtà fornite favorevolmente dall’interessato armatore genovese, amico di Cavour. Garibaldi non sapeva neanche quanta gente aveva a bordo, non era una priorità far numero; se ne contarono 1.089 e il Generale restò stupito per il numero oltre le sue stime. Erano persone in buona parte col pedigree dei malavitosi e ne feve una raccapricciante descrizione lo stesso Garibaldi. Provenivano da Milano, Brescia, Pavia, Venezia e più corposamente da Bergamo, perciò poi detta “Città dei Mille”. Vi erano anche alcuni napoletani, calabresi e siciliani, 89 per la precisione, molto dei quali immortalati nella toponomastica delle città italiane.

La rotta non fu casuale ma già stabilita, come il luogo dello sbarco. Marsala non era la terra scorta all’orizzonte ma il luogo designato perché li vi era una vastissima comunità inglese coinvolta in grandi affari, tra cui la viticoltura.

La rotta non fu casuale ma già stabilita, come il luogo dello sbarco. Marsala non era la terra scorta all’orizzonte ma il luogo designato perché li vi era una vastissima comunità inglese coinvolta in grandi affari, tra cui la viticoltura.

Il 10 Maggio, alla vigilia dello sbarco, l’ammiragliato inglese a Londra diede l’ordine ai piroscafi bellici “Argus” e “Intrepid”, ancorati a Palermo, di portarsi a Marsala; ufficialmente per proteggere i sudditi inglesi ma in realtà con altri scopi. Ci arrivarono infatti all’alba del giorno dopo e gettarono l’ancora fuori la città col preciso compito di favorire l’entrata in rada delle navi piemontesi. Navi che arrivarono alle 14 in punto, in pieno giorno, e questo dimostra quanta sicurezza avessero i rivoltosi che altrimenti avrebbero più verosimilmente scelto di sbarcare di notte.

L’approdo avvenne proprio dirimpetto al Consolato inglese e alle fabbriche inglesi di vini “Ingham” e “Whoodhouse” con le spalle coperte dai piroscafi britannici che, con l’alibi della protezione delle fabbriche, ostacolarono i colpi di granate dell’incrociatore napoletano “Stromboli”, giunto sul posto insieme al piroscafo “Capri” e la fregata a vela “Partenope”.

Le trattative che si intavolarono fecero prendere ulteriore tempo ai garibaldini e sortirono l’effetto sperato: I “Mille” sbarcarono sul molo. Ma erano in 776 perché i veri repubblicani, dopo aver saputo che si era andati a liberare la Sicilia in nome di Vittorio Emanuele II, si erano fatti sbarcare a Talamone, in terra toscana. Contemporaneamente sbarcarono dall’Intrepid dei marinai inglesi anch’essi di rosso vestiti che si mischiarono alle “camicie rosse”, in modo da impedire ai napoletani di sparare.

Napoli inviò proteste ufficiali a Londra per la condotta dei due bastimenti inglesi ma a poco servì. Garibaldi e i suoi sbarcarono nell’indifferenza dei marsalesi e la prima cosa che fecero fu saccheggiare tutto ciò che fosse possibile.
Il 13 Maggio Garibaldi occupò Salemi, stavolta nell’entusiasmo perché il barone Sant’Anna, un uomo potente del posto, si unì a lui con una banda di “picciotti”. Da qui il Generale si proclamò “dittatore delle Due Sicilie” nel nome di Vittorio Emanuele II, Re d’Italia”.

Il 15 Maggio fu il giorno della storica battaglia di Calatafimi. I Mille erano ormai il doppio; vi si erano uniti “picciotti” siciliani, inglesi e marmaglie insorte, e sfidarono i soldati borbonici al comando del Generale Landi. La storiografia ufficiale racconta di questo conflitto come di un miracolo dei garibaldini ma in realtà si trattò del risultato pilotato dallo stesso Generale borbonico.

I primi a far fuoco furono i “picciotti”, che vennero decimati dai fucili dei soldati Napoletani. Il Comandante borbonico Sforza, con i suoi circa 600 uomini, assaltò i garibaldini rischiando la sua stessa vita e, mentre il Generale Nino Bixio chiedeva a Garibaldi di ordinare la ritirata, il Generale Landi, che già aveva rifiutato rinforzi e munizioni a Sforza scongiurando lo sterminio delle “camicie rosse”, fece suonare le trombe in segno di ritirata. Garibaldi capì che era il momento di colpire i borbonici in fuga e alle spalle, compiendo così il “miracolo” di Calatafimi. Una battaglia che avrebbe potuto chiudere sul nascere l’avanzata garibaldina se non fosse stato per la condotta di Landi, che fu accusato di tradimento dallo stesso Re Francesco II e confinato sull’isola d’Ischia; non a torto, perché poi un anno più tardi l’ex generale di brigata dell’esercito borbonico e poi generale di corpo d’armata dell’esercito sabaudo in pensione si presentò al Banco di Napoli per incassare una polizza di 14.000 ducati d’oro datagli dallo stesso Garibaldi ma scoprì che sulla sua copia, palesemente falsificata, erano scritti tre zeri di troppo. Landi, per questa delusione, fu colpito da ictus e morì.

Garibaldi, ringalluzzito per l’insperata vittoria di Calatafimi, s’inoltrò nel cuore della Sicilia mentre le navi inglesi, sempre più numerose, ne controllavano le coste con movimenti frenetici. In realtà la flotta inglese seguiva in parallelo per mare l’avanzata delle camicie rosse su terra per garantire un’uscita di sicurezza.

Intanto sempre gli inglesi fecero arrivare in Sicilia corposi rinforzi, armi e danari per i rivoltosi e preziose informazioni da parte di altri traditori vendutisi all’invasore per fare del Sud una colonia. Le banche di Londra sono piene di depositi di cifre pagate come prezzo per ragguagli sulla dislocazione delle truppe borboniche e di suggerimenti dei generali corruttibili, così come di tante altre importantissime informazioni segrete.

Garibaldi entrò a Palermo e poi arrivò a Milazzo ormai rafforzato da uomini e armi moderne, e l’esito della battaglia che li si combattè, a lui favorevole, fu prevalentemente dovuto all’equipaggiamento individuale dei rivoltosi, che avevano ricevuto in dotazione persino le carabine-revolver americane “Colt” e il fucile rigato inglese modello “Enfield ‘53”.

Quando l’eroe dei due mondi passò sul territorio peninsulare, le navi inglesi continuarono a scortarlo dal mare, e anche quando entrò a Napoli da Re sulla prima ferrovia italiana ebbe le spalle coperte dall’Intrepid – chi si rivede? – che dal 24 Agosto, insieme ad altre navi britanniche, si mosse nelle acque napoletane.

Il 6 Settembre, giorno della partenza di Francesco II e del concomitante arrivo di Garibaldi a Napoli in treno, il legno britannico sostò vicino alla costa, davanti al litorale di Santa Lucia, da dove poteva tenere sotto tiro il Palazzo Reale. Una presenza costante e incombente, sempre minacciosa per i borbonici e rassicurante per Garibaldi, una garanzia per la riuscita dell’impresa dei “più di mille”. l’Intrepid lasciò Napoli il 18 Ottobre 1860 per tornare definitivamente in Inghilterra dando però il cambio ad altre navi inglesi, proprio mentre Garibaldi, “dittatore di Napoli”, donava agli amici inglesi un suolo a piacere che venne designato in via San Pasquale a Chiaia, su cui fu poi eretta quella cappella protestante che Londra aveva sempre voluto costruire per gli inglesi di Napoli ma che i Borbone non avevano mai consentito di realizzare. Lo stesso accadrà a Palermo nel 1872.

Il 6 Settembre, giorno della partenza di Francesco II e del concomitante arrivo di Garibaldi a Napoli in treno, il legno britannico sostò vicino alla costa, davanti al litorale di Santa Lucia, da dove poteva tenere sotto tiro il Palazzo Reale. Una presenza costante e incombente, sempre minacciosa per i borbonici e rassicurante per Garibaldi, una garanzia per la riuscita dell’impresa dei “più di mille”. l’Intrepid lasciò Napoli il 18 Ottobre 1860 per tornare definitivamente in Inghilterra dando però il cambio ad altre navi inglesi, proprio mentre Garibaldi, “dittatore di Napoli”, donava agli amici inglesi un suolo a piacere che venne designato in via San Pasquale a Chiaia, su cui fu poi eretta quella cappella protestante che Londra aveva sempre voluto costruire per gli inglesi di Napoli ma che i Borbone non avevano mai consentito di realizzare. Lo stesso accadrà a Palermo nel 1872.

Qualche mese dopo, la città di Gaeta, che ospitava Francesco II nella strenua difesa del Regno, fu letteralmente rasa al suolo dal Generale piemontese Cialdini, pagando non solo il suo ruolo di ultimo baluardo borbonico ma anche e soprattutto l’essere stato nel 1848 il luogo del rifugio di Papa Pio IX, ospite dei Borbone, in fuga da Roma in seguito alla proclamazione della Repubblica Romana ad opera di Giuseppe Mazzini, periodo in cui la città aveva assunto la denominazione di “Secondo Stato Pontificio”.

Sparì così l’antico regno inaugurato da Ruggero il Normanno e sopravvissuto per quasi otto secoli. Dieci anni dopo, nel Settembre 1870, la breccia di Porta Pia e l’annessione di Roma al Regno d’Italia decretarono la fine anche dello Stato Pontificio e del potere temporale del Papa, portando a compimento il grande progetto delle massonerie internazionali nato almeno quindici anni prima, volto a cancellare la grande potenza economico-industriale del Regno delle Due Sicilie e il potere cattolico dello Stato Pontificio.

Garibaldi, pochi anni dopo la sua impresa, fu ospite a Londra, dove venne accolto come un imperatore. I suoi rapporti con l’Inghilterra continuarono per decenni e si manifestarono nuovamente quando, intorno alla metà del 1870, il Generale si impegnò nell’utopia della realizzazione di un progetto faraonico per stravolgere l’aspetto di Roma: il corso del Tevere entro la città completamente colmato con un’arteria ferroviaria contornata da aree fabbricabili. Da Londra si tessero contatti con società finanziarie per avviare il progetto ed arrivarono nella Capitale gli ingegneri Wilkinson e Fowler per i rilievi e i sondaggi. Si preparò a realizzare la remunerativa follia la società britannica Brunless & McKerrow, che tuttavia non vi riuscì mai per il boicottaggio del Governo italiano.

L’ideologia nazionale da allora venera i “padri della patria” che operarono il piano internazionale, dimenticando tutto quanto di nefasto si raccontasse di Garibaldi, un avventuriero dal passato poco edificante. L’Italia di oggi festeggia un uomo condannato persino a “morte ignominiosa in contumacia” nel 1834 per sentenza del Consiglio di Guerra Divisionale di Genova perché nemico della Patria e dello Stato, motivo per il quale fuggì latitante in Sud America dove diede sfogo a tutta la sua natura selvaggia.

In quanto a Cavour, al Conte interessava esclusivamente ripianare le finanze dello Stato piemontese, non certo l’unità di un paese di cui non conosceva neanche la lingua, così come Vittorio Emanuele II primo Re d’Italia, benché non a caso secondo di nome nel solco di una continuazione della dinastia sabauda e non italiana. Non a caso il 21 Febbraio 1861, nel Senato del Regno riunito a Torino, il nuovo Re d’Italia fu proclamato da Cavour «Victor-Emmanuel II, Roi d’Italie», non Re d’Italia.

Il panettone? Meglio se Napoletano!

Il panettone? Meglio se Napoletano!

L’industria del nord trae profitto dal mercato meridionale. E questo sarebbe il sud palla al piede?
Nell’articolo scritto per napoli.com è illustrata la dinamica perversa che impone prodotti industriali di minore qualità (anche se di minor prezzo) a tutto vantaggio del settentrione “opulento”.
Ma Napoli resiste con le sue peculiarità secolari capaci di ottimizzare anche ciò che non è propriamente partenopeo, e non è un caso che i prodotti per l’esportazione vengano marchiati “Napoli” (con tanto di N napoleonica che tanto ricorda il logo del calcio Napoli), città tanto bistrattata quanto buona per remunerative “operazioni commerciali”.

Quest’anno, a Natale, comprate cassate o struffoli, ma anche Panettoni artigianali napoletani che sono decisamente i migliori. Comprate Sud!

di Angelo Forgione per napoli.com (vai al sito)

L’arte della panificazione è patrimonio campano da sempre. È per questo che, se il panettone milanese esce dalla catena industriale e diventa artigianale, il migliore è proprio quello che si produce dalle nostre parti e non al nord.
Il panettone artigianale, nelle migliori pasticcerie di Napoli e della regione, va a ruba, e sono soldi spesi davvero bene visti i tanti riconoscimenti ottenuti negli scorsi anni dalle varie giurie specializzate, Gambero Rosso compreso.
Il panettone nasce a Milano intorno alla fine del quattrocento e si diffonde al nord a partire dal Piemonte che ne crea una variante più bassa e larga. Non viene mai abbracciato dalla tradizione natalizia meridionale fin quando, con la crescita industriale settentrionale del periodo post-bellico, il nascente mercato ne “impone” il consumo anche al sud che però ha le sue pecurialità talmente precise da trasformare in meglio qualsiasi cosa possa deliziare il palato. L’artigiano pasticciere campano ha migliorato anche il panettone applicando l’esperienza della lievitazione tipica del territorio napoletano.
Non poteva essere altrimenti in una città come Napoli che ha saputo fare cultura gastronomica a volte con invenzioni, altre con intuizioni e ancora con interpretazioni, riecheggiando poi nel mondo intero con le sue leccornie. Come in ogni campo culturale, anche quello culinario ha beneficiato degli intrecci delle corti europee del settecento e ottocento che coinvolgevano anche quella napoletana. Tutte le novità passavano per l’antica capitale delle Due Sicilie che seppe filtrare il meglio e rioffrirlo al mondo con il proprio tocco magico.
Basti l’esempio del caffè che viaggiò dalla Turchia fino a Vienna e arrivò infine a Napoli attraverso la regina Maria Carolina d’Asburgo Lorena che non volle rinunciarvi nelle sua vita partenopea, e Napoli l’ha poi offerto al mondo a modo suo, nella reinterpretazione di tostatura più apprezzata.
Anche il babà non è un dolce napoletano bensì polacco, inventato alla corte di Stanislao Leszczynsky. I polacchi l’hanno dimenticato, mentre i Borbone lo trovarono buonissimo e i pasticcieri di casa nostra lo reinterpretarono facendone un pilasto della pasticceria napoletana.
E come non citare il piatto principe della nostra terra? Non c’è nessuna certezza che la prima pizza sia Napoletana, ma con i Borbone si attuò nel 700, attorno a Caserta, un’incredibile rivoluzione agricola madre della dieta mediterranea che ha poi codificato la vera pizza con il condimento del pomodoro e della mozzarella, offrendo al mondo il vero cibo globale.
È questa l’incredibile capacità di Napoli di assorbire quel che viene da fuori, rielaborarlo e farlo apparire proprio perché più buono.
E il panettone a Napoli, manco a dirlo, è diventato più buono grazie al lievito madre al posto del lievito di birra. L’impasto a base di acqua e farina viene preparato 10 giorni prima della cottura e fatto lievitare quindi per lungo tempo. Per ottenere un panettone di qualità occorrono tre lievitazioni che si aggiungono a quella iniziale, per 14 ore totali ad ogni fornata. Chi lo prepara così fa dimenticare il prodotto industriale che ingrossa le tasche degli industriali del nord.
È da questo che trae forza il settore gastronomico locale che, per vastità, qualità e bontà, ha eguali solo in Sicilia, non a caso terra gemella fino al 1860. Il brand “Napoli” funziona di più all’estero anche su prodotti come lo stesso panettone che un’importante  azienda come la Perugina esporta negli altri paesi targandolo “Napoli” (foto in basso) e non “Milano”.
Nello scenario decadente della città degli ultimi decenni, il settore gastronomico è forse la forza propulsiva a cui si aggrappa una certa economia locale “minore” poggiata su chi sa fare bene il proprio lavoro contrapposto a chi invece cerca solo reddito e profitto senza esigenza di eccellere. Un problema mai affrontato dalle politiche nazionali che invece potrebbero aprire scenari importanti per il meridione se solo ci fosse maggiore equilibrio tra la distribuzione industriale e quella artigianale. Pensiamo per esempio alla mozzarella che nei banconi dei supermercati del sud esiste di ogni marca e colore (nel vero senso della parola) mentre in quelli del nord è raro poter avere il privilegio di trovare quella di bufala campana. Tutto ciò sottolinea una certa imposizione del mercato a favore del nord che spesso lamenta il parassitismo del sud quando invece trae profitto dall’esportazione industriale nel meridione. Uno studio di economisti per conto di Unicredit banca spiega come Campania, Puglia, Calabria e Basilicata abbiano una forte propensione all’importazione di beni da altre aree del Paese.
Un trend che potrebbe essere parzialmente arginato col consumo, natalizio e non, di dolci artigianali della nostra tradizione, evitando prodotti industriali di usanze imposte. Ma se proprio al panettone non si vuol rinunciare, che lo si comperi in qualche buona pasticceria delle nostre dove è anche decisamente più buono. Garantito!


 

Emergenza patrimonio. Philippe Daverio: “Lo Stato ha fallito, più bravi i Borbone”

Mentre le celebrazioni dei 150 anni dell’unità d’Italia sono sempre più silenziose, decisamente fragorose e sempre più frequenti sono le bombe lanciate da autorevoli personaggi della cultura che stanno pian piano abbattendo il muro della retorica risorgimentale, riattribuendo i giusti meriti al sud pre-unitario e alla dinastia borbonica che lo condusse ai vertici del prestigio internazionale.

Sotto il profilo economico-industriale bastano i saggi di Paolo Malanima, direttore dell’Istituto di Studi sulle Società del Mediterraneo del CNR e Vittorio Daniele dell’Università “Magna Græcia” di Catanzaro, e quello di Stefano Fenoaltea e Carlo Ciccarelli della Banca d’Italia per dimostrare che il sud non era affatto sottosviluppato rispetto al nord.
Ormai i grandi personaggi della cultura sono sempre più soliti nell’amplificare ciò che noi meridionalisti professiamo e facciamo oggetto della nostra battaglia culturale mai fumosa e poggiata, appunto, su cultura e studi in quanto consapevoli di essere “semplici” divulgatori di verità sotterrate.

Dopo l’amplificazione della legge borbonica sull’introduzione pionieristica della raccolta differenziata portata alla ribalta nazionale da Roberto Saviano, sulle pagine de “IL MATTINO” di Napoli del 1 Dicembre 2010 è il turno di Philippe Daverio, apprezzato e stimato critico d’arte e docente universitario, che decreta il fallimento della tutela del patrimonio artistico in Italia e la superiorità e l’efficienza delle Due Sicilie rispetto alla moderna nazione italica: «La tutela del patrimonio in Italia è un fallimento. Lo Stato ha fallito e l’Italia si è dimostrata meno capace di quanto fecero i Borbone nelle Due Sicilie che era un grande Stato».

Philippe Daverio sta per lanciare “Save Italy”, un progetto per portare all’attenzione dell’intera comunità internazionale il caso Italia e chiedere l’intervento di tutti per far qualcosa di utile alla salvaguardia del nostro impareggiabile patrimonio.
Del resto era stato proprio lui ad avallare la mia video-denuncia “Il ponte sullo Stretto che ammazza la cultura” ammonendo così: «In Italia viene ritenuto prioritario il ponte sullo Stretto di Messina. Vuol dire anche che per realizzare il ponte non si salva la Reggia di Caserta».

E significativo è, in chiave risorgimentale, un passaggio di una sua dichiarazione su “LA STAMPA” di Torino del 12 Dicembre 2009 in cui, pur valorizzando il patrimonio culturale torinese, Daverio trovò comunque il modo per dire ai piemontesi tra le righe che sono invasori: «il Piemonte non è Italia. Torino è la capitale di uno stato che ha conquistato l’Italia senza farne parte». Così confermando che il Risorgimento non fu un moto di unione ma una guerra senza dichiarazione, un’annessione del sud, unica parte del paese davvero indipendente e italiana, da parte di un nord sabaudo filo-francese (e inglese), quindi straniero.